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Sui pannelli solari e le barche a vela

di Alessandro Pugno - 25/02/2011

Fonte: alessandropugno

 

Ora va di moda la parola “sostenibile”, francamente credo che tutte le parole che diventano cliché essendo usate troppo di frequente, puzzano di imbroglio.
La parola "sostenibile" si coniuga spesso con un’altra di utilizzo quotidiano: "sviluppo". Il che credo sia un controsenso. "Sviluppo" viene pensato come crescita infinita, sostenibile invece evoca un qualcosa "che sostiene", questo qualcosa è vincolato quindi ha dei limiti, oltrepassati i quali, non sostiene più. Dietro questo binomio di parole si cela quindi un ossimoro evidente.
Un’immagine emblematica di questo credo sia “il pannello solare”. Sopra potete vederne un esempio tratto da una pagina di una rivista web che dice di occuparsi di “esplorare il futuro”, la Genitron Sviluppo (www.genitronsviluppo.com). Sarà pure un’energia pulita e rinnovabile, ma provate ad immaginarvi le vostre campagne disseminate di questi pannelli: un paesaggio orribile, inumano, degno di un film di fantascienza. Provate ad immaginarvi una bambina che va a scuola con una bicicletta rossa per una sentiero che ci passa in mezzo. Sarebbe una bella scena per un film ispirato ad un libro di Paul Auster, “Il paese delle ultime cose”.
Dietro quest’immagine incombe l’idea della tecnica come installazione, e pur essendo pulita e rinnovabile l’energia prodotta, si insinua lo stesso schema di pensare il pianeta come qualcosa da cui estrarre forze misurabili e sfruttabili. Un’idea consumistica, usuraia, ed in ultima istanza perversa. E qui l’idea di pulito non richiama niente di fresco o profumato, ma qualcosa di asettico e senza vita, qualcosa appunto di inadatto a tutto ciò che è umano.
Quando diciamo la tecnologia è strumento, ci sbagliamo di grosso pensando bonariamente che tutto sta in come il singolo la utilizza, ovvero se ne fa un uso virtuoso o viziato. Il punto è che la tecnica non solo è strumento, ma ambiente, un ambiente che come tutti gli ambienti influenza l’uomo e lo influenza in questo caso spaesandolo, ovvero facendogli perdere tutto ciò che c’è di umano. Umano nel senso di proprio dell’uomo. E spaesare nel senso di non farlo sentire a casa. L’uomo non abita più l’uomo.
Amo andare in barca a vela, mi piacciono la sensazione che mi dà la navigazione vissuta come un rapportarsi a una forza sacra, il mare. Le vele adoperano la forza del vento, accompagnandolo, non sfruttandolo per imprigionare energia come fa un impianto eolico, e sono obbligate a dipendere da lui, se smette e si è in bonaccia, ci si ferma, se è troppo forte, la navigazione diventa pericolosa. Il rapportarsi a queste forze naturali insegna il senso del limite e della misura ed è un’esperienza importante e significativa l’avere a che fare con dei limiti. Il saper andar per mare è un sapere che sa di saggezza, niente a che fare col mondo delle regate e della competizione, è qualcosa di ancestrale.
Esistono barche dove tutti i secolari controlli delle vele e della barca si sono elettronizzati, e il veleggiare è come stare alla consolle di un videogioco. Si perde il senso di un’esperienza fondamentale.
E’ strano vivere in quest’epoca, viviamo come a metà tra forze che si oppongono, da una parte tutto sembra andare verso un mondo asettico, meccanico, elettronico e disumano, ovvero verso il deserto, dall’altra parte ci sono delle forze e degli eventi che si oppongono a quello che sembra un destino inevitabile. A tratti queste ultime forze sembrano avere la meglio, ed allora si ha l’impressione di poter tornare ad un rapporto originario con le cose, in cui il sacro degli elementi è ancora presente, in cui gli dei stanno per ritornare a parlare attraverso la natura all’uomo. E tutto ciò ha il sapore della riscoperta.