Come molti ricorderanno, nelle Avventure di Pinocchio, il povero burattino, oltre a subire un furto, finisce pure in prigione. Infatti, il giudice della città di Acchiappa-citrulli, al quale si rivolge per avere giustizia, dopo averlo ascoltato con “molta benignità”, invece di ordinare l’arresto del Gatto e della Volpe, i due truffatori, lo spedisce in carcere. Perché, “fattosi derubare di quattro monete d’oro”. E subito “quattro can-mastini vestiti da gendarmi” lo accompagnano in cella. Ma Pinocchio, di lì a poco, grazie a una amnistia, tornerà in libertà.
Ma che c’entra Collodi? Anche il libro di Guido Rossi, Il gioco delle regole (Adelphi, Milano 2005, pp. 128, euro 13,50) che tratta dei rapporti tra il gioco (il mercato) e le sue regole (il diritto), descrive un mondo a rovescio. Il quadro tracciato è impietoso ma fondato, non per niente Rossi è professore di diritto commerciale alla Bocconi. Del resto la società da lui osservata, quello occidentale, così globale, veloce, caotica, stressata, appare in effetti sempre più sull’ orlo di una crisi di nervi. Una schizofrenia strisciante, che ricorda appunto la città di Acchiappa-citrulli. Dove la giustizia funziona al contrario e il gioco (del mercato) finisce per avere la meglio sulle regole (della legge). E dove le leggi sono troppe e non sempre si torna così in presto il libertà, come Pinocchio…
Di più. Stando al giurista la situazione è destinata a peggiorare: dal momento che più cresce la produzione legislativa, più diventa difficile gestirla. E soprattutto rischia di diventare sempre più complicato per il comune cittadino ottenere giustizia. “Il capitalismo finisce (…) per essere vittima di una alluvione legislativa che se da un lato tende ad affermare i principi di libertà (contrattuale, d’impresa, di mercato) dall’altro stritola quegli stessi principi attraverso la difesa burocratica delle asimmetrie, in un groviglio di regole che fanno prevalere la volontà del contraente più forte, o di quello che paradossalmente non rispetta alcuna regola” (p. 37).
Ma perché è così cresciuta la produzione legislativa? “Per sopperire alle inefficienze e alla crisi dei mercati” (p. 27), risponde asciutto Rossi. Aggiungendo che in questo modo però “l’economia non è più regolata dai giudici ma dai legislatori (p. 28). All’intervento ex post del giudice si è dunque sostituito quello ex ante della legge. Ma di quale tipo di legge?
E qui Rossi mette il dito sulla piaga. Il legislatore, e a suo avviso colpevolmente, avrebbe accettato quel luogo comune che attribuisce al mercato “una sorta di potenza magica in grado di comporre e risolvere qualunque problema economico” (p. 35) . E così il diritto, già di per sé rassegnato, a non poter mai raggiungere l’economia, si sarebbe addirittura posto al servizio della mano invisibile del mercato. In che modo? Suicidandosi… o quasi. Cioè favorendo il contrattualismo, un diritto pattizio che ha valore solo tra le parti, e non forza di legge per tutti, come il vero diritto, quello delle norme statali. Di conseguenza, per Rossi, la privatizzazione del diritto, di cui tanto si parla oggi, non significa, minore regolamentazione. Ma forte crescita di una produzione legislativa di natura privatistica: che favorisce strutture arbitrali, patrizie, societarie e attiva una normazione specifica per lobby economiche e gruppi di pressione di vario genere Questa “riduzione dell’intero corpo sociale a una folla di contraenti, e dello Stato a grande mediatore fra interessi contrattuali diversi, comporta un sostanziale svuotamento delle legge” (pp. 26-27): l’ obbligo collettivo viene sostituito da vincoli validi solo per le parti. Il che favorisce la nascita di quel “conflitto epidemico” e utilitaristico, tra amministratori, azionisti, eccetera, che si propaga poi a tutti i settori della società.
E questa, appena riassunta, è la parte più interessante del libro. Meno solida invece quella costruttiva. Ma partiamo dall’esposizione delle sue tesi.
In primo luogo, Rossi dichiara di respingere qualsiasi via d’uscita ispirata a codici etici o morali. Appellandosi, appunto da buon giurista, al fatto che “il richiamo del legislatore alla morale, o all’etica va (…) sempre guardato con sospetto”, dal momento che “spesso equivale a un’ammissione di fallimento: generalmente, infatti la morale viene chiamata in causa dove , e quando, il diritto fallisce” (p. 43).
Da ciò discende, in secondo luogo, che le due sfere devono rimanere separate, e che ai problemi giuridici, come quello della privatizzazione-proliferazione di norme particolaristiche, si deve rispondere giuridicamente. Come? Riprendendo e sviluppando la teoria pluralistica del diritto di Santi Romano. Infatti Rossi auspica di assecondare, indirizzandoli, quegli “ordinamenti paralleli o addirittura alternativi allo Stato-nazione” (p.83): sola e vera manifestazione di un pluralismo tra istituzioni nazionali e internazionali, in reciproca e pacifica relazione di subordinazione e supremazia. Un pluralismo capace però di incardinare imprese ed economie, grazie alla graduale istituzione di norme, giurisdizioni e sanzioni nazionali e internazionali. E Rossi cita come esempio la bisecolare vicenda dei diritti dell’uomo. In particolare focalizza l’ attenzione sulla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo (1950). Che, a suo avviso, richiamandosi espressamente alla Dichiarazione universale del 1948, e pur essendo “di carattere generale, priva di forza coercitiva”, si è in realtà trasformata nei fatti in elemento propulsivo. Perché grazie a quel “testo i cittadini europei, attraverso i loro governi, hanno deciso che alcuni diritti si debbano considerare inviolabili” (p. 102). Dopo di che le corti dei singoli stati hanno iniziato a decidere in materia, favorendo così anche lo sviluppo di istituzioni come la Corte europea dei diritti dell’uomo. Un processo che “può davvero essere l’inizio di un’utopia antica, quella dello ius cosmopoliticum vagheggiato da Kant. E di quello ius i diritti umani potrebbero essere, molto semplicemente la pietra miliare” (p.106). Fin qui Rossi.
E ora tre problemi, che non possono essere ignorati.
Il primo è che i “diritti dell’uomo”, fino a prova contraria, fanno riferimento a un “codice etico”, certo, di tipo illuministico, moderno, progressivo e connesso allo stato diritto e alla democrazia. Tutto quel che si vuole… Ma che, comunque sia, resta sempre un riferimento morale. Si tratta perciò di un elemento extragiuridico che finisce per infirmare le tesi di Rossi, fondate appunto sulla necessaria e totale separazione tra etica e diritto.
Il secondo è che come insegna la triste sorte dei giacobini partenopei, immortalati da Vincenzo Cuoco, sarebbe sempre meglio non confidare troppo nella naturale bontà dell’uomo e delle carte costituzionali. Anche se è sgradevole riconoscerlo, spesso la forza, specie se associata a un eroico senso di giustizia, gioca un ruolo extragiuridico non secondario. Ad esempio la dichiarazione dei diritti dell’uomo, oggi patrimonio prezioso di tutti i popoli, è tale, solo perché coraggiosamente difesa con una guerra mondiale vittoriosa. Pertanto anche la pacifica evoluzione del diritto cosmopolitico kantiano (segnato comunque da controlli e sanzioni…), auspicata da Rossi, potrebbe purtroppo non essere indolore.
Il terzo problema è che non è chiaro chi debba assumere la guida del processo di reintegrazione dell’economia di mercato (il gioco) nell’alveo della legge (le regole). I politici? I giudici? I giuristi? Si ha l’impressione che Rossi, probabilmente perché giurista, punti a sostituire agli automatismi del mercato quelli del diritto, o comunque dia per scontata nei tempi lunghi la vittoria del diritto: al mercato inanimato e imperfetto, sembra perciò opporre un diritto “vivente” e perfetto (o comunque “più perfetto” del mercato). Che si imporrebbe attraverso la pacifica discussione e il convincimento personale: per socializzazione… Il diritto, invece del mercato, come macchina delle meraviglie, capace di mettere tutti d’accordo, come per incanto. Basta saper aspettare.
Sarebbe bello ma purtroppo la realtà storica insegna che non è così.
In conclusione, un libro interessante, che spiega, e con grande chiarezza, perché talvolta tutti ci sentiamo come tanti Pinocchi nella città di Acchiappa-citrulli. Mentre è meno convincente sul piano propositivo.
Il che è un vero peccato.
Ma che c’entra Collodi? Anche il libro di Guido Rossi, Il gioco delle regole (Adelphi, Milano 2005, pp. 128, euro 13,50) che tratta dei rapporti tra il gioco (il mercato) e le sue regole (il diritto), descrive un mondo a rovescio. Il quadro tracciato è impietoso ma fondato, non per niente Rossi è professore di diritto commerciale alla Bocconi. Del resto la società da lui osservata, quello occidentale, così globale, veloce, caotica, stressata, appare in effetti sempre più sull’ orlo di una crisi di nervi. Una schizofrenia strisciante, che ricorda appunto la città di Acchiappa-citrulli. Dove la giustizia funziona al contrario e il gioco (del mercato) finisce per avere la meglio sulle regole (della legge). E dove le leggi sono troppe e non sempre si torna così in presto il libertà, come Pinocchio…
Di più. Stando al giurista la situazione è destinata a peggiorare: dal momento che più cresce la produzione legislativa, più diventa difficile gestirla. E soprattutto rischia di diventare sempre più complicato per il comune cittadino ottenere giustizia. “Il capitalismo finisce (…) per essere vittima di una alluvione legislativa che se da un lato tende ad affermare i principi di libertà (contrattuale, d’impresa, di mercato) dall’altro stritola quegli stessi principi attraverso la difesa burocratica delle asimmetrie, in un groviglio di regole che fanno prevalere la volontà del contraente più forte, o di quello che paradossalmente non rispetta alcuna regola” (p. 37).
Ma perché è così cresciuta la produzione legislativa? “Per sopperire alle inefficienze e alla crisi dei mercati” (p. 27), risponde asciutto Rossi. Aggiungendo che in questo modo però “l’economia non è più regolata dai giudici ma dai legislatori (p. 28). All’intervento ex post del giudice si è dunque sostituito quello ex ante della legge. Ma di quale tipo di legge?
E qui Rossi mette il dito sulla piaga. Il legislatore, e a suo avviso colpevolmente, avrebbe accettato quel luogo comune che attribuisce al mercato “una sorta di potenza magica in grado di comporre e risolvere qualunque problema economico” (p. 35) . E così il diritto, già di per sé rassegnato, a non poter mai raggiungere l’economia, si sarebbe addirittura posto al servizio della mano invisibile del mercato. In che modo? Suicidandosi… o quasi. Cioè favorendo il contrattualismo, un diritto pattizio che ha valore solo tra le parti, e non forza di legge per tutti, come il vero diritto, quello delle norme statali. Di conseguenza, per Rossi, la privatizzazione del diritto, di cui tanto si parla oggi, non significa, minore regolamentazione. Ma forte crescita di una produzione legislativa di natura privatistica: che favorisce strutture arbitrali, patrizie, societarie e attiva una normazione specifica per lobby economiche e gruppi di pressione di vario genere Questa “riduzione dell’intero corpo sociale a una folla di contraenti, e dello Stato a grande mediatore fra interessi contrattuali diversi, comporta un sostanziale svuotamento delle legge” (pp. 26-27): l’ obbligo collettivo viene sostituito da vincoli validi solo per le parti. Il che favorisce la nascita di quel “conflitto epidemico” e utilitaristico, tra amministratori, azionisti, eccetera, che si propaga poi a tutti i settori della società.
E questa, appena riassunta, è la parte più interessante del libro. Meno solida invece quella costruttiva. Ma partiamo dall’esposizione delle sue tesi.
In primo luogo, Rossi dichiara di respingere qualsiasi via d’uscita ispirata a codici etici o morali. Appellandosi, appunto da buon giurista, al fatto che “il richiamo del legislatore alla morale, o all’etica va (…) sempre guardato con sospetto”, dal momento che “spesso equivale a un’ammissione di fallimento: generalmente, infatti la morale viene chiamata in causa dove , e quando, il diritto fallisce” (p. 43).
Da ciò discende, in secondo luogo, che le due sfere devono rimanere separate, e che ai problemi giuridici, come quello della privatizzazione-proliferazione di norme particolaristiche, si deve rispondere giuridicamente. Come? Riprendendo e sviluppando la teoria pluralistica del diritto di Santi Romano. Infatti Rossi auspica di assecondare, indirizzandoli, quegli “ordinamenti paralleli o addirittura alternativi allo Stato-nazione” (p.83): sola e vera manifestazione di un pluralismo tra istituzioni nazionali e internazionali, in reciproca e pacifica relazione di subordinazione e supremazia. Un pluralismo capace però di incardinare imprese ed economie, grazie alla graduale istituzione di norme, giurisdizioni e sanzioni nazionali e internazionali. E Rossi cita come esempio la bisecolare vicenda dei diritti dell’uomo. In particolare focalizza l’ attenzione sulla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo (1950). Che, a suo avviso, richiamandosi espressamente alla Dichiarazione universale del 1948, e pur essendo “di carattere generale, priva di forza coercitiva”, si è in realtà trasformata nei fatti in elemento propulsivo. Perché grazie a quel “testo i cittadini europei, attraverso i loro governi, hanno deciso che alcuni diritti si debbano considerare inviolabili” (p. 102). Dopo di che le corti dei singoli stati hanno iniziato a decidere in materia, favorendo così anche lo sviluppo di istituzioni come la Corte europea dei diritti dell’uomo. Un processo che “può davvero essere l’inizio di un’utopia antica, quella dello ius cosmopoliticum vagheggiato da Kant. E di quello ius i diritti umani potrebbero essere, molto semplicemente la pietra miliare” (p.106). Fin qui Rossi.
E ora tre problemi, che non possono essere ignorati.
Il primo è che i “diritti dell’uomo”, fino a prova contraria, fanno riferimento a un “codice etico”, certo, di tipo illuministico, moderno, progressivo e connesso allo stato diritto e alla democrazia. Tutto quel che si vuole… Ma che, comunque sia, resta sempre un riferimento morale. Si tratta perciò di un elemento extragiuridico che finisce per infirmare le tesi di Rossi, fondate appunto sulla necessaria e totale separazione tra etica e diritto.
Il secondo è che come insegna la triste sorte dei giacobini partenopei, immortalati da Vincenzo Cuoco, sarebbe sempre meglio non confidare troppo nella naturale bontà dell’uomo e delle carte costituzionali. Anche se è sgradevole riconoscerlo, spesso la forza, specie se associata a un eroico senso di giustizia, gioca un ruolo extragiuridico non secondario. Ad esempio la dichiarazione dei diritti dell’uomo, oggi patrimonio prezioso di tutti i popoli, è tale, solo perché coraggiosamente difesa con una guerra mondiale vittoriosa. Pertanto anche la pacifica evoluzione del diritto cosmopolitico kantiano (segnato comunque da controlli e sanzioni…), auspicata da Rossi, potrebbe purtroppo non essere indolore.
Il terzo problema è che non è chiaro chi debba assumere la guida del processo di reintegrazione dell’economia di mercato (il gioco) nell’alveo della legge (le regole). I politici? I giudici? I giuristi? Si ha l’impressione che Rossi, probabilmente perché giurista, punti a sostituire agli automatismi del mercato quelli del diritto, o comunque dia per scontata nei tempi lunghi la vittoria del diritto: al mercato inanimato e imperfetto, sembra perciò opporre un diritto “vivente” e perfetto (o comunque “più perfetto” del mercato). Che si imporrebbe attraverso la pacifica discussione e il convincimento personale: per socializzazione… Il diritto, invece del mercato, come macchina delle meraviglie, capace di mettere tutti d’accordo, come per incanto. Basta saper aspettare.
Sarebbe bello ma purtroppo la realtà storica insegna che non è così.
In conclusione, un libro interessante, che spiega, e con grande chiarezza, perché talvolta tutti ci sentiamo come tanti Pinocchi nella città di Acchiappa-citrulli. Mentre è meno convincente sul piano propositivo.
Il che è un vero peccato.