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Hereafter

di Claudio Asciuti - 25/02/2011

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Ricordate Clint Eastwood? Il “primo” Clint, quello lanciato da Sergio Leone; il “fascista”, diretto da Don Siegel (fascista anche lui, ovviamente) in L’uomo dalla cravatta di cuoio, in cui interpreta un duro, l’ispettore Callahan (che per motivi ignoti diventa in Italia “Callaghan”). Erede del Duke, secondo alcuni, dell’americanissimo John Wayne, per altri direttamente di Richard Nixon. E che dire dello sciovinista, nazionalistico Clint che diresse Firefox, film antisovietico e (secondo altri) manifesto dell’era Reagan? Non parliamo di Gunny, poi, film militarista se ce ne fu uno. Peccato mortale. Peggio ancora, nella realtà quotidiana, il Clint sindaco repubblicano di Carmel. Tutte sciocchezze, naturalmente. Walter Veltroni (che si fosse occupato di cinema, anziché di politica, sarebbe stato meglio per tutti) tentò di sdoganarlo in un volume collettivo, Eroi dei nostri tempi, considerandolo un anarchico di destra.
Eppure, a dispetto di tutto, sebbene facesse poco fine, a un sacco di gente (di destra e di sinistra) Clint Eastwood piaceva; come attore, per la legnosità su cui amava ricamare, per il suo sguardo, per la sua padronanza della scena anche in spazi di campi lunghi o lunghissimi dove solo pochi restano a incrociare i punti focali degli spettatori; e come regista, per il suo stile sobrio, essenziale, molto classico, per quella tranquilla capacità di dirigere gli attori (lui, che era stato diretto da molti dei grandi di Hollywood) con amicizia e dolcezza infilando le mani nelle vene del nichilismo americano. Piacevano i suoi film, sia quelli western, che i noir, e perfino quelli che non sapendo bene come definirli si chiamano mainstream; chi dirigeva, per anni da una parte della macchina da presa, era naturalmente capace di stare dall’altra. E poi piaceva lui, un uomo schivo, appartato, amante della musica e musicista a sua volta, estraneo allo star system, niente droga e pettegolezzi ma passione per la solitudine, poche chiacchiere e molta sostanza, insomma; non incarnazione ma proiezione dell’americano medio; in altri termini, quel che Eastwood stesso intende come “sogno americano”, spingere la gente a diventare quel che vorrebbe diventare.
E alla fine, la critica (di destra e di sinistra) si accorse del Clint regista; negli States a fine anni settanta, in Francia agli inizi degli Ottanta e in Italia a metà; divenne insomma un classico; Oscar nel 1993 per Gli spietati, Leone d’oro a Venezia nel 1999, Oscar nel 2004 per Million Dollar Baby; Eastwood rappresenta l’unico vero grande regista statunitense, l’unico regista classico, capace di dirigere e far uscire dai pastrocchi del cinema hollywoodiano pellicole girate in un mese, magari, con pochi soldi, pochi effetti speciali, e rompendo pure le scatole a tutte le majors per farseli finanziare, senza mai scendere a compromessi.
Prendiamo, dei trenta film diretti, alcuni dell’ultimo decennio: fantascienza un po’ goliarda come Space Cowboys (2000), un noir terribile, come Mystic river (2003); una dolorosa analisi sulla giovinezza, sulla vecchiaia e sulla morte come Million Dollar Baby (2004); due pellicole belliche, quasi speculari, viste attraverso gli occhi di americani e nipponici, Faith of Our Father e Lettere da Iwo Jima (2006); un rapporto sul fallimento del multiculturalismo che fece gridare al razzismo, senza che nessuno capisse la storia di chi voleva esser solo lasciato in pace, il bellissimo e toccante Gran Torino (2008); ed ora una nuova uscita, che ha scombinato ancora una volta le carte di tutti quelli pronti a tessere le sue lodi, e infatti il film è piaciuto poco a pubblico e critici americani (ma tanto ai religiosi, gli stessi che avevano bollato l’eutanasia di Million Dollar Baby) e molto agli europei; presentato al Festiva di Torino con gran successo, a pochi giorni dall’uscita in sala è fra le pellicole più visionate. Hereafter, il titolo; una storia molto poco alla Eastwood, sembrerebbe, che non è mai stato un mistico, un appassionato di dottrine esoteriche o un amante di storie fantastiche (sebbene gli vada addebitato Vanessa, un episodio della serie tv Storie incredibili (1985), il già citato Space Cowboys e una certa tendenza, diffusa in molte pellicole, a un velato soprannaturale).
Hereafter, il dopo; la morte, e non l’aldilà, come ci viene fatto credere dai “trailers” televisivi, (un tempo si chiamavano “prossimamente”). La morte che aleggiava per tutto Million Dollar Baby, sostanziata con molto pudore quando Micheal Dunn (lo stesso Eastwood), pratica l’eutanasia sulla sua atleta (Hilary Swank) e si allontana; o come quando il protagonista di Gran Torino, Walt Kowalski (sempre lui), ammalato, decide di affrontare la banda dei giovani hmong e farsi uccidere, in modo che tutti finiscano in galera. La morte, come diceva il grande critico francese Andrè Bazin, grande tabù del cinema (e non a caso il cinema si ingegna a violarlo, rappresentando la morte e il morire in tutti i modi possibili), diventa l’esperienza limite. Un limite a cui Eastwwod si è via via avvicinato, raffinando la sua regia, riducendo la sua azione, portando a un processo (heideggeriano?) di cinema come essere-per-la-morte, inteso non come messa in scena della morte, ma come riflessione. A dire che è l’essenzialità la morte, non il far vedere gente che uccide in modo più o meno sadico come metà dei film statunitensi raccontano.
Hereafter, insomma, un film eccezionale, a partire dal soggetto, inerente alle NDE: Near Death Experience, quelle che noi chiamiamo “esperienze di pre-morte”, e che fanno parte degli stati di coscienza alterati del coma, molto chiacchierati, poco indagati. La sceneggiatura, opera di Peter Morgan, offerta a Shyamalan e poi a Spielberg che ne chiese una revisione, finì nella sua prima stesura per l’essere acquistata da Eastwood. Il film è articolato in tre blocchi narrativi, ambientati a san Francisco, a Londra e a Parigi (con un omaggio all’Italia, nel corso di cucina, fra brani d’opera, vino, olio e pelati, e cuoco italiano). Nel primo, la giornalista francese Marie LeLay (Cécile de France) sopravvissuta allo tsunami in Indonesia del 2005, entra a contatto con gli NDE; evento che segnerà la sua esistenza, trasformandola da giornalista in carriera a indagatrice, facendole così perdere il posto alla tv e l’amante; nel secondo George Lonegan (Matt Damon) dopo un’operazione al cervello, è in grado di entrare in contatto con i defunti; ha rinunciato a questa proficua attività per non avere la costante presenza della morte a fianco, preferendo il lavoro di operaio; ma è inseguito sempre dal suo passato che gli impedisce di avere relazioni normali (il fallimento della sua micro-storia con Melanie, interpretata da Bryce Dallas Howard è esemplificativo), al punto che, una volta “messo in esubero” dalla crisi, rifiuta di riprendere la sua carriera di sensitivo; e infine Marcus (interpretato, a turno, dai gemelli George e Frankie MacLaren), che vive in quartiere multiculturale londinese con la madre tossicodipendente e il gemello Jason; dopo la morte di quest’ultimo, investito da un furgone mentre fuggiva da una baby-gang multirazziale, e la salvezza dall’attentato nell’undeground londinese del 2005, s’incaponisce a frequentare ciarlatani e medium nella speranza di entrare in contatto con il defunto. Fatalmente le tre storie si incrociano a Londra, dove Marie è andata a presentare il suo libro e dove è in fuga George per visitare la città natale di Dickens, di cui è un grande appassionato (e sotto la cui egida il film si muove; fra orfani, fantasmi, cadute e riprese esistenziali, nonché audio libro e a Londra, letture pubbliche) e si risolvono con uno straordinario finale che non è il lieto fine, ma almeno un tentativo di riconciliazione con il mondo.
Bella sceneggiatura, bravissimi attori, regia che ribadisce l’assioma di Eastwood per cui non vi è un suo stile, ma l’assecondare il suo stile al materiale filmico. Raramente un film che attiene a temi metafisici (pensiamo a Linea mortale, 1989, di Joel Schumacher) riesce a muoversi su un tale livello di sobrietà; gli effetti speciali (senza i quali il cinema moderno sembrerebbe non poter esistere), risiedono sostanzialmente nelle sequenze dello tsunami (girate nelle Haway, ma ricostruite sulle pellicole originali del disastro) e in quelle del pre-morte e del contatto con i defunti, che sembrano pure uscite da un film espressionista; la recitazione è quanto di meno enfatico e più naturale si possa immaginare (salvo il gruppo di sequenze in cui Marcus si reca a visitare i diversi medium, uno più caricaturale dell’altro); e il montaggio in parallelo amalgama i tre blocchi narrativi e li interseca con estrema eleganza. Sobrietà ed eleganza che riescono a dare sostanza a una serie di eventi come i NDE, tutti da indagare e da studiare, e trasformare in eventi credibili anche i soggetti più soprannaturali; e che, come ci dice George, dopo c’è qualcosa, ma non sappiamo cosa; e se il film si intitola Hereafter (nel senso del qui dopo, ovvero la morte) è quel che conta è l’here and now, il qui e ora. Marcus torna dalla madre disintossicata, dopo aver finalmente parlato con il gemello e averne accettato la fine; e Marie e George si incontrano e stabiliscono un legame basato sul comune sguardo sull’aldilà. La grandezza di Eastwood è anche questa, a ottant’anni suonati: parlare della realtà, mentre molti registi annaspano nel chissà dove.