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Mezz’oretta al bar, ovvero una lezione all’università della vita

di Francesco Lamendola - 26/02/2011





Quante cose s’imparano dalla vita quotidiana, dalle situazioni spicciole e apparentemente insignificanti; e, soprattutto, quante cose s’imparano ascoltando le persone che lavorano, le persone umili, quelle che non vestono firmato e che tirano avanti la carretta con semplicità, magari con fatica, ma, sovente, con il sorriso bonario di chi non ha tempo né voglia di serbare rancore alla vita, né di coltivare impossibili sogni consumistici.
S’imparano più cose conversando cinque minuti con il ciabattino che ha la sua botteguccia sotto casa, piuttosto che leggendo ponderosi trattati di filosofia scritti da persone che conoscevano solo il mondo asettico delle università ed il mondo ovattato delle biblioteche; persone che, le scarpe, non le hanno mai portate a risuolare, o perché preferivano comperarsele nuove di vernice al primo acciacco, o perché avevano chi ci andava per loro: mogli servizievoli o domestiche a ore.
Si impara, per esempio, osservando le auto di grossa cilindrata parcheggiate davanti al negozio, crisi o non crisi; si impara sentendo dal calzolaio che, ogni tanto, deve buttar via chili e chili di scarpe, appartenenti a clienti i quali, dopo due anni buoni, non sono più venuti a riprendersele. Sono cose che fanno riflettere, specialmente in tempi difficili, come quelli che stiamo vivendo: crisi economica, ma, evidentemente, anche crisi culturale e crisi morale, vista l’inadeguatezza dei comportamenti di tante persone qualunque; e Dio sa che esempio daranno ai loro figli piccoli, con questo miscuglio di ostentazione d’un benessere fasullo e di spreco quotidiano.
Populismo di bassa lega o, addirittura, snobismo anti-intellettuale?
Forse; ma, in ogni caso, senza illusioni. Non si tratta di pensare che le persone comuni sappiano più cose di quante ne sanno le persone colte; quanto, semmai, della constatazione che, dalle persone comuni, si possono imparare delle cose che, da quelle colte, non si impareranno mai: perché le prime, a differenza delle seconde, sanno, in generale, di non sapere, e pertanto, quando parlano di un qualsiasi argomento, raramente pretendono di avere la verità in tasca.
Inoltre, la cultura dominante ha diffuso una sorta di venerazione per la parola stampata e un sottinteso disprezzo per la parola orale; dimenticando che personaggi del calibro di Gesù e di Socrate non scrissero nemmeno un rigo, si tende a guardare con soggezione il libro, indipendentemente dal suo valore intrinseco.
L’altro giorno R. mi ha fatto vedere un libretto di poesie acquistato durante la presentazione di un altro libro: scandalizzata, mi ha chiesto un parere. Erano le «Lettere d’amore» di Patrizia Valduga: una striminzita e monotona galleria di atti sessuali d’ogni genere, descritti con crudo compiacimento e senza ombra di musicalità, di ritmo, di afflato poetico. Eppure un grosso editore, Einaudi di Torino, uno dei nomi più prestigiosi della nostra industria culturale (ci si perdoni l’ossimoro), di tradizione debitamente progressista e antifascista, ci mancherebbe, lo ha stampato senza esitazione: di questi tempi, in cui nemmeno dei veri talenti riescono a trovare un editore che scommetta su di loro. Mah, misteri.
Certo, da un paio di generazioni la televisione commerciale, pessima educatrice, ha abituato anche le persone incolte a credersi sapienti e, con ciò, le ha spogliate della loro qualità più bella: la modestia, figlia del sapere di non sapere; qualità che sarebbe piaciuta a Socrate, ma che non piace più in un mondo massificato e dominato dall’arroganza del denaro, dove l’importate è gridare più forte del vicino, non importa se si ha qualcosa da dire oppure no, e, soprattutto, non importa se non si è in grado di articolare un sia pur minimo ragionamento. Perché nel mondo dei diritti garantiti, ciascuno ha la sua verità da far valere e nessuno possiede abbastanza umiltà da riconoscersi ignorante.
Ad ogni modo, se ci si può ancora imbattere nel tipo umano migliore, ossia quello che sa di non sapere e che non pretende di sembrare quel che non è, esiste una maggiore probabilità  di incontrarlo fra le persone semplici, ma che abbiano amore per il proprio lavoro ed un istintivo rispetto di se stesse, come un umile ciabattino o un modesto barista, piuttosto che in un ricco commerciante, in un imprenditore rampante, in un saccente tecnico informatico o, peggio che peggio, in un barone universitario spocchioso e parolaio, attorniato da tre o quattro zelanti portaborse, che parla in aula agli studenti come una specie di Dio in terra; anche se, magari, solo per dire le più trite banalità libresche o per ripetere le comode verità prefabbricate della vulgata culturale del Pensiero Unico.
Due giorni fa sono andato ad assistere a una conferenza del filosofo Umberto Curi, sul tema dello straniero: di filosofia, però, neppure l’ombra; in compenso, una lunga e meticolosa carrellata su Omero e sui tragici greci, per mostrare quanto fosse sacra e radicata la cultura dell’ospitalità nella cultura greca antica; talmente sacra che, per mostrare un esempio di umanità imbestialita, egli ha citato Polifemo, che non solo si mangia gli ospiti, ma addirittura chiede loro chi siano, mentre le regole del bon ton imponevano che lo stranero andasse sfamato comunque, prima ancora di sapere se fosse un pericoloso pirata o un inerme poveraccio scampato a un naufragio.
Si è dimenticato di aggiungere, il buon professore dell’Università di Padova, che una cosa è accogliere UN NAUFRAGO sconosciuto, come fa Nausicaa con Odisseo (sul quale, oltretutto, fantastica di amore e di nozze sin dal primo istante, anzi sin dalla notte precedente al loro incontro); e un’altra cosa e ben diversa è accogliere ad occhi chiusi MIGLIAIA E MILIONI D’IMMIGRATI, molti dei quali, come sta avvenendo in questi giorni dalla Tunisia, provengono direttamente dalle galere e si riversano da noi al solo e preciso scopo di continuare a delinquere.
Eco il velleitarismo, ecco il buonismo a senso unico di tanti intellettuali nostrani, sempre pronti a predicare il dovere dell’accoglienza ai propri concittadini e a rimproverarli di non essere abbastanza generosi: loro che, guarda caso, non abitano nei quartieri degradati dove, la notte, spacciatori albanesi e prostitute romene rendono la vita impossibile ai residenti; loro che abitano le villette con giardino dei quartieri alti e che gli odori nauseabondi di aglio fritto e condimenti analoghi non li devono sopportare tutto il giorno, perché non vivono nei condomini popolari, dove, alla sera, le aiuole sono innaffiate dagli immigrati che vanno a farci i bisognini. E non hanno una mamma o una nonna che, tornando a casa con il sacchetto della spesa, sono state scippate della borsa e gettate a terra da qualche malvivente senza nemmeno i documenti in regola.
La figlia di un mio amico si è sposata con un australiano ed è andata a vivere laggiù: ebbene, in quel Paese, non solo non si accolgono immigrati clandestini, per alcun motivo, umanitario o meno; ma, se un immigrato irregolare viene sorpreso senza documenti, le autorità non si prendono la briga di rimpatriarlo, spendendo soldi per il volo di ritorno: lo schiaffano in qualche sconosciuto campo dell’interno, nel deserto, e buttano via le chiavi: nel fragoroso silenzio di approvazione dell’intera società.
Persino la figlia del mio amico, sposata da alcuni anni e già madre di due bimbi, ha dovuto soffrire le pene del Purgatorio per farsi mettere in regola, tanto forte è il sospetto che degli ospiti indesiderati possano infiltrarsi in Australia per mezzo di qualche finto matrimonio. Da noi, grazie al buonismo irresponsabile di tutto l’establishment culturale, Chiesa cattolica in testa, non si ha il coraggio nemmeno di affermare il principio che l’ingresso clandestino nel nostro Paese è un reato e che come tale deve essere considerato, con tutte le naturali conseguenze; anzi ci si dice e ci si ripete che non siamo abbastanza ospitali, che non siamo abbastanza cristiani: come se l’ospitalità e l’atteggiamento cristiano, che sono sentimenti lodevolissimi, ma volontari e privati, si potessero imporre col ricatto morale o a colpi di legislazione, nei confronti di masse strabocchevoli di stranieri che non potremo mai ospitare, assimilare o integrare nella nostra società.
Ma che ne sanno i professori che vivono nei quartieri residenziali o certi vescovi che abitano nelle loro belle curie, il più delle volte palazzi seicenteschi o settecenteschi dalle facciate scolpite e dagli interni ricchi di affreschi, stucchi e lampadari di cristallo? È facile predicare bene, per loro: non fanno alcuna fatica, non vivono il benché minimo disagio.
Una tipica lezione all’università della vita, comunque, è quella che si può ricevere, con una spesa minima, andando a passare mezz’oretta al bar, magari in una sera d’inverno umida e ventosa: in un bar di quartiere, beninteso, non certo nei locali raffinati e nelle pasticcerie del centro, dove i clienti sono i fighetti con la permanente fresca di parrucchiera e le loro consorti, debitamente impellicciate e ingioiellate, già scure di abbronzatura artificiale come se tornassero or ora dalle Maldive, ma con la pelle del collo rugosa e incartapecorita per le troppe lampade.
Nei bar di quartiere, la domenica pomeriggio, c’è poca gente, perché tutti amano accalcarsi, appunto, nella fiera delle vanità delle vie centrali, perfino nelle cittadine più piccole e nei paesi che si autodefiniscono “città” per ridicola civetteria, come una ragazzina che, sui tacchi alti come trampoli e gli occhi bistrati all’inverosimile, vuol farsi passare per una donna adulta e navigata; mentre farebbero assai meglio a vivere lietamente e senza complessi la loro realtà e la loro naturale dimensione di piccoli centri, senza complessi e senza ostentazioni.
I paesi e le città sono come gli esseri umani: hanno un’anima; e può essere un’anima matura e dignitosa, che sa portare con pacata fierezza le rughe incipienti e gli abiti un po’ lisi, oppure un’anima puerile e pretenziosa, che farebbe carte false pur di sembrare più giovane, più fresca, più attraente di quel che sa di essere e, soprattutto, di quello che pretende di essere, con buona pace dell’onestà interiore e della consapevolezza.
Quando ci sono pochi o nessun cliente, e quando non si odono né la musica ad alto volume risuonare fastidiosamente dalle casse acustiche, né il fragore dei giochi elettronici e delle macchinette mangia soldi, allora sì che si sta bene: non occorre aspettare che si liberi il giornale dal tavolo di qualche avventore, ce ne sono almeno un paio a disposizione e così, scambiate quattro parole col gestore, li si può leggere con calma, bevendo una birra chiara oppure un cappuccino caldo e spumoso.
Quante cose si possono imparare, in dieci minuti di lettura del giornale: meglio di tutto se è un giornale locale, perché la dimensione provinciale ha più cose da insegnare di quella nazionale o internazionale; la cronaca spicciola ha più insegnamenti da offrire dei grandi eventi della politica, della cultura, dello sport e dello spettacolo.
È una straordinaria galleria, uno spaccato e un compendio, mirabilmente concentrato, della realtà odierna, non solo nelle sue manifestazioni esteriori, ma anche e soprattutto, pur che si sappia leggere un po’ fra le righe, nelle motivazioni profonde delle persone, nelle loro aspettative psicologiche, nelle loro premesse culturali, nei valori etici ed estetici che le guidano; anche e specialmente allorché queste ultime non sono consapevoli di agire in base a dei ragionamenti o di ispirarsi a particolari codici di tipo culturale, morale e spirituale.
Dunque, lasciando da parte la cronaca nazionale e perfino regionale, e limitandoci a quella provinciale, ecco alcune delle notizie che colpiscono l’attenzione del lettore.
Le principali aziende che sponsorizzano lo sport si apprestano a chiudere il portafoglio: pallacanestro, pallavolo e, adesso, ciclismo, tutte discipline nelle quali questa provincia ha raggiunto risultati di eccellenza, resteranno senza un soldo: delusi dall’indifferenza dei loro concittadini, questi imprenditori hanno deciso di gettare la spugna.
Nel capoluogo, due nigeriani sono stati arrestati con la cocaina che spacciavano ai giovani: speriamo di non vederli, fra un giorno o due, liberi e pronti a ricominciare, grazie all’intervento di qualche magistrato “umanitario”, sempre pronto a trovare qualche cavillo garantista o a scommettere sulla loro buona condotta, dopo un predicozzo e un buffetto sulla guancia.
I sindaci di due comuni sono ai ferri corti per la costruzione di un tratto di tangenziale: uno la vuole, l’altro non la vuole, si fanno la guerra come ai tempi dei Guelfi e Ghibellini e, così, quei 1.700 metri di strada aspetteranno fino alle calende greche: un perfetto esempio del campanilismo ottuso e della mentalità preistorica dei nostri amministratori, ciascuno proteso alla difesa del proprio orticello, ciascuno indaffarato a piazzare le aree industriali sui confini comunali, in modo da inquinare il più possibile l’aria del vicino, ma non la propria.
Poi si parla di una intera zona che è sistematicamente rastrellata da bande di scassinatori: non c’è strada che non sia stata passata al pettine da questi malviventi, che, la notte, penetrano dalle porte e dalle finestre, con o senza gli inquilino dentro, rubano a più non posso e passano tranquillamente alla casa del vicino, non di rado malmenando e, talvolta, violentando le loro vittime. Il titolo del pezzo suona proprio così: «Quartier del Piave nelle mani dei ladri»: e non siamo in Calabria o in Sicilia, ma nel ricco ed efficiente Nordest, la cosiddetta “locomotiva” d’Italia.
Non si tratta di emergenza, ma di una situazione endemica, pressoché stabile da almeno una ventina d’anni: guarda caso, da quando è iniziata la politica dell’accoglienza indiscriminata di centinaia di migliaia di stranieri. Qualcuno si immagina un giornale tedesco che rechi un titolo del genere: «Foresta Nera nelle mani dei ladri?». Il giornale si vergognerebbe di scriverlo, le autorità si vergognerebbero del fatto: ma, invece di nasconderlo sotto il tappeto, come fanno le cattive massaie con la sporcizia che si accumula sul pavimento, prenderebbero energici provvedimenti per risolverlo. Certo, in Germania il governo non è paralizzato da una vicenda come quella del nostro “caso Ruby” e, guarda che strano, trova persino il tempo di occuparsi dei problemi reali della gente comune…
Poi si parla della “stangata sul caro estinto”, ossia dell’aumento delle tariffe e degli affitti cimiteriali decisa dalla giunta di una grossa e benestante cittadina: ormai siamo alla frutta, le amministrazioni non sanno più come far cassa, dopo aver scatenato i vigili urbani ad erogare multe selvagge con l’autovelox, stanno ormai grattando il fondo della pentola, tassando i parenti dei defunti. Molto vi sarebbe da dire sul federalismo fiscale che, sempre più, spingerà i comuni a inventarsi Dio sa quale nuova tassa, magari sull’aria (inquinata) che respiriamo, per far quadrare il bilancio; ma forse è meglio non dir nulla, anche perché ciò esula dalla cronaca locale.
C’è poi un trafiletto per informare che Ici ed Irpef restano immutate: il fatto che non vi sarà alcun aumento nel 2011 è sbandierato come una mezza vittoria. Ma non si era parlato, da parte del partito che, da queste parti, va per la maggiore, e che ormai siede al governo da diversi anni, di abolire gran parte delle imposte comunali relative alle case di abitazione? Ah, già, poi però qualcuno ha scoperto che l’Ici, restando sul territorio, è una imposta genuinamente federalista… Strana situazione: stare al governo nel chiedere i quattrini ai contribuenti ed essere all’opposizione, contemporaneamente, nei comizi o sulle pagine dei giornali. Cose all’italiana.
Poi si parla di un ennesimo supermercato che dovrebbe aprire su una strada statale, alle porte di una cittadina della bassa pianura, e di come l’Associazione Commercianti vi si opponga strenuamente, paventando la rovina e la chiusura di tanti piccoli negozi. Ha ragione di opporsi, ma sappiamo già come andrà a finire: presto o tardi, vinceranno le ragioni del grande commercio su quelle del piccolo. Del resto, opporsi non basta: ci vorrebbe una effettiva politica di sostegno ai piccoli commercianti, a cominciare dagli sgravi fiscali, anche per salvare quel po’ di classe media che ancora sopravvive e che costituiva l’ossatura, materiale e morale, di questa società; mentre i nostri politici, una volta eletti, si dimenticano le belle promesse e si affaccendano in tutt’altre cose, che poco o nulla hanno a che vedere con le reali esigenze del territorio. Altro che federalismo! Esso è diventato una parola magica per andare a Roma; e poi, tutto come prima o anche peggio di prima. Chiederlo a quegli alluvionati del padovano e del vicentino che, dopo mesi di promesse, aspettano ancora di vedere il becco di un quattrino da parte dello Stato.
Infine, la notizia della protesta da parte dei genitori dei bimbi di un asilo, perché una gigantesca antenna è stata innalzata a pochi metri dall’edificio. Hanno ragione, certo: ma chi li ascolterà? Se almeno tante amministrazioni comunali ci risparmiassero l’ipocrisia di dichiararsi attente al dialogo con la gente, di dare ascolto alle esigenze locali, forse potremmo sopportare con non minore impazienza, ma forse con minor disgusto, le decisioni calate all’alto, gli atti d’imperio che provocano, come in questo caso, danni o minacce consistenti alla salute dei cittadini.
Fino allo scorso anno, tanto per fare un esempio, le aziende agricole erano padrone di irrorare i vigneti con ogni sorta di veleni chimici, mediante l’elicottero. Ci sono volute le statistiche precise relative all’aumento dei decessi per tumore, prima che venissero presi dei provvedimenti per fermare una pratica da Far West così indiscriminata.
C’è, da ultimo, almeno una notizia di carattere non provinciale, ma regionale (e, in un certo senso, nazionale) che merita un po’ di attenzione. Eccola:  un fisico italiano, il veneziano Fabrizio Tamburini, autore di una importante scoperta circa il momento angolare orbitale della luce, che lavora come precario presso l’Università di Padova, con uno stipendio di 1.300 euro mensili, ha ricevuto un invito sia dall’Università di Vienna, sia da altri atenei europei, a trasferirsi presso di loro, con l’offerta di uno stipendio cinque volte superiore. La solita storia: i talenti, da noi, non ottengono riconoscimenti né gratificazioni; preferiamo lasciarli espatriare, affinché le poltrone restino in caldo per le nuove nullità in lista d’attesa, debitamente raccomandate da qualche barone universitario.
Ecco: dieci minuti sfogliando il giornale in un bar di quartiere, e la lezione è già finita: deprimente, ma altamente istruttiva. Del resto, il giornale si legge meglio al bar, a contatto con la gente, che nel silenzio di casa, come invece fanno gli Inglesi, al mattino, in religiosa meditazione quotidiana del loro bravo «Times»: non per risparmiare quell’euro in edicola, ma perché nel bar c’è la vita, si sentono i  commenti delle persone, si tasta il polso del clima sociale e culturale in cui viviamo.
Il ritorno verso casa, lungo le strade poco illuminate, schivando gli escrementi di un cane che il padrone ha portato a spasso, senza poi curarsi di ricoprirli con la paletta e la sabbia o, almeno, di farglieli fare nell’erba, in riva al fiume, anziché in mezzo al marciapiede, offre un’ultima e altamente istruttiva lezioncina a cielo aperto: una lezioncina di senso civico o, piuttosto, della malinconica assenza di senso civico.
La sera è scura e fredda, con un vento tagliente che soffia dalle montagne. Il cappuccino, però, era buono e l’ambiente simpatico e accogliente; le due chiacchiere scambiate sfogliando il giornale, poi, sono state rilassanti e tuttavia, a loro modo, anche istruttive.
C’è sempre da imparare, dalla vita.
Dai libri, solo qualche volta.