Il compito della filosofia nel pensiero di Raimon Panikkar
di Paolo Calabrò - 31/05/2006
Introduzione
Raimon Panikkar (Barcellona, il 3 novembre 1918), sacerdote cattolico, è autore di più di quaranta libri e di diverse centinaia di articoli. Laureato in filosofia (Madrid, 1946), chimica (Madrid, 1958) e teologia (Roma, Pontificia Università Lateranense, 1961), ha insegnato, dal 1967, religione comparata ad Harvard e storia delle religioni e filosofia della religione all’università di Santa Barbara, in California. Attualmente vive a Tavertet, in Catalogna, quando la sua attività di studioso non lo porta in tutto il mondo in occasione di convegni e conferenze[1]. Anche se, riguardo a lui, il termine “studioso” va chiarito: Panikkar, la cui filosofia è tutta tesa all’integrazione delle diverse dimensioni della realtà (così si intitola proprio un suo vecchio saggio, recentemente pubblicato in italiano nel volume La realtà cosmoteandrica), ha sempre abbinato la prassi alla teoria, la contemplazione all’azione, lo sforzo intellettuale all’impegno politico (all’interno dell’Unesco[2], o come membro, ad esempio, del tribunale permanente dei popoli[3]).
In questo senso per Panikkar la filosofia sfocia direttamente in uno “stile di vita”, in un modo di essere che non si riduce né a “pensare bene” né a rispettare esteriormente un certo codice morale “come se” fossimo buoni, in un “saper vivere” che è saggezza, perché appartiene all’uomo per intero, il quale non è né solo corpo, né solo spirito, né solo intelletto. Concezione che affonda le radici in una ben precisa metafisica ed estende le sue propaggini fino al dialogo come esigenza di una filosofia che non sia illusione di poter abbracciare con la propria mente l’intera realtà e che ha un compito ben preciso: disarmare la ragione. Si tratta – come cercherò di mostrare – di un motivo fondamentale in Panikkar, presupposto dell’intera sua filosofia, nonostante quasi tutta la letteratura che è possibile trovare sul suo pensiero sia concentrata sulle conseguenze: il dialogo tra le religioni e le culture, la pace, la cristologia[4]. Nessuno di noi può infatti eludere l’eterna domanda “che fare?” (anche se spesso posta nella forma del negativo “che ci posso fare?”), e nessun “filosofo” può evitare di confrontarsi con una filosofia che chiama ad uno stile di vita e ad un compito ben preciso, qui ed ora. Lo sviluppo di questi temi, all’interno della cornice dell’intera metafisica di Panikkar, che sola consente di dar loro il corretto ed originale significato che qui acquisiscono, è quanto mi propongo nelle pagine che seguono.
Pensare ed essere
Il pensiero occidentale degli ultimi venticinque secoli si è sviluppato a partire dall’identità parmenidea tra pensare ed essere. Questa impostazione, che ha presupposto l’intelligibilità dell’intera realtà, ha affidato alla ragione il compito di esaurire la conoscenza di ogni aspetto del reale. Le premesse c’erano tutte affinché, dopo Bacon e Descartes, la scienza moderna (i cui scopi sono diventati ben presto gli scopi della tecnologia) potesse appropriarsi del mondo come di una riserva di materiale a disposizione dell’uomo. Infatti, se l’intelligibilità è totale, e tutto può essere compreso, abbracciato dal pensiero, tutto diventa “oggetto” di comprensione, ed ogni cosa perde qualsiasi libertà ed iniziativa proprie al di fuori degli schemi del pensiero. Ciò che appare ormai scontato (ma non è sempre stato così, almeno fino al Rinascimento[5]) nel caso della materia (la scienza ritiene infatti di essere talmente in grado di prevedere il comportamento della materia – si può anche dire: la materia ha talmente poca iniziativa e libertà – che l’uomo può costruire ponti e grattacieli secondo i propri calcoli: i quali, a conferma di quanto detto, non cadranno), ma che in maniera più subdola, proprio a causa della pretesa di possedere uno sguardo più penetrante, avviene anche riguardo all’uomo: ciò che si vede nella tendenza a considerare l’altro a partire dalle nostre categorie, trascurando il fatto che così si potrà conoscerlo solo come oggetto della nostra conoscenza e non come soggetto di autoconoscenza, cioè come egli conosce se stesso. La conseguenza della pretesa di totale intelligibilità dell’essere è quindi che tutto è oggetto, e tutto può essere trattato come tale[6]. Si possono riassumere alcuni tra i peggiori risultati di questo indirizzo teoretico (se ne parla soltanto da un punto di vista descrittivo, non è questo il luogo per valutarne le implicazioni morali) in uno sfruttamento intransigente e sfrenato delle risorse naturali[7]. Tuttavia, l’ingenuo ottimismo alla base di questo atteggiamento, incentivato dal successo ottenuto finora nel dominio sulla natura, di fronte alla constatazione che le possibilità di sviluppo non sono illimitate, sta crollando: «Ci sono ormai 300 milioni di macchine sul pianeta, ma 300 milioni su 5.300 milioni di uomini è ancora una proporzione accettabile. Immaginate cosa accadrebbe con 5.300 milioni di macchine o con 5.300 milioni di aerei privati: evidentemente non c’è posto per tutti. Questo mi porta alla formulazione della legge quasi tragica, che qui semplicemente enuncio, dell’incompatibilità tra il progresso tecnologico macrosociale e quello microsociale. Qualsiasi progresso tecnologico positivo a Città di Castello si ripercuote negativamente in qualche altra parte del mondo»[8]. È oggi evidente che la tecnologia non offre a tutti le stesse possibilità, il che è in aperto contrasto con le tendenze all’omogeneizzazione (a volte chiamata globalizzazione) che l’Occidente ostenta in tutti i campi: non passa giorno senza che uno dei portavoce degli Stati Uniti (ma non solo) non dichiari quanto sia bello e giusto e saggio esportare dappertutto democrazia, tecnologia, libero mercato.
Tale posizione è dunque piuttosto problematica: la coscienza moderna, secondo Panikkar, sente che non è più possibile trincerarsi dietro i propri confini nazionali o dietro obsoleti sensi di appartenenza razziale, politica o religiosa, e che ogni conquista dell’umanità deve essere realmente globale e umana, nel senso di aperta e accessibile a tutti[9]. Tuttavia, non ci si può limitare all’analisi di questo o quell’aspetto del problema, che è solo una conseguenza. Ed infatti la critica di Panikkar non si ferma qui. Per essere radicali c’è bisogno di ripensare i presupposti di tutto questo. Panikkar comincia con il chiarire che l’essere non ha nessun motivo di seguire il pensiero e di assecondarne le leggi (dal principio di non contraddizione a quelli della fisica): «L’essere, in definitiva, deve essere liberato da regole logiche prestabilite. È vero che il pensare è diretto all’essere, a ciò che è [ma] l’essere o realtà trascende il pensare. Può espandersi, saltare, sorprendere se stesso. La libertà è l’aspetto divino dell’essere. L’essere ci parla: questa è un’esperienza religiosa fondamentale consacrata da più di una tradizione. E sentire l’“essere” è più che pensarlo»[10]. In questa prospettiva, dunque, non solo il pensiero «non può dirci se abbraccia completamente la totalità dell’essere»[11], ma si rende ben conto che «l’Essere non si identifica con il pensiero»[12] e che «la consapevolezza è superiore all’intelligibilità; insomma, io mi rendo conto di qualcosa che non capisco»[13]. In breve: l’ontologia non coincide con l’epistemologia.
Critica dell’universalità
Uno dei punti deboli del pensiero filosofico e scientifico moderni, per Panikkar, è dunque l’assunzione acritica ed onnipervasiva dell’identità parmenidea fra pensare ed essere[14]: «L’essere è il pensare: è il pensare che ci dice quello che l’essere è. Questo pensare, quando va in profondità nell’ordine qualitativo, viene chiamato “filosofia”; quando è più in termini quantitativi, si chiama “scienza”»[15]. In base a questa considerazione, in riferimento al pensiero filosofico e scientifico moderni, ove non diversamente specificato, utilizzerò l’espressione “pensiero moderno”.
Un altro dei punti deboli del pensiero moderno è l’idea di universalità della ragione, secondo la quale la ragione è uguale dappertutto, perché in ogni angolo della terra vale il principio di non contraddizione, così come dovunque vale l’uguaglianza 2 + 2 = 4. Ma al di là del fatto che, come si è visto, il principio di non contraddizione non può essere estrapolato dal pensare all’essere, Panikkar afferma: «Io contesto anche il fatto che due più due faccia quattro dappertutto: due e due fa quattro soltanto dove il due e il quattro non significano niente»[16]. Ciò che diventa evidente nel caso dei valori culturali: non ci sono valori che valgono universalmente (per tutte le culture) né in eterno (all’interno di una singola cultura)[17]. Esistono certamente valori “interculturali”, cioè valori che sono validi in diverse culture, ma non ne esistono di “trans-culturali”, cioè valori che stanno al di sopra di tutte o di alcune culture, senza appartenere specificamente a nessuna di esse. Ogni valore è legato inevitabilmente quantomeno a una cultura[18]. Del resto, è facile osservare che le diverse culture non si pongono le stesse domande e spesso, alla stessa domanda, danno risposte differenti. Si può concludere con una battuta significativa dicendo che l’universalità non è universale. Panikkar, anzi, diffida della tendenza ad universalizzare e considera l’idea di universalità come l’erronea totalizzazione di un’esperienza parziale[19]. Non si può andare al di là della propria cultura di riferimento: non esistono prospettive che consentano di osservare la realtà “dal di fuori”[20].
L’esistenza di filosofie che, nonostante tutti gli sforzi possibili, continuano a essere mutuamente incompatibili, ci pone allora nel dilemma di censurare tutti gli altri sistemi, eccetto il nostro, o di riconoscere la radicale incapacità della nostra mente ad avere uno schema di intelligibilità universalmente valido e, pertanto, applicabile all’intero spettro dell’esistenza umana. Ciò rafforza il sospetto, prima denunciato, che l’intelletto umano, o forse l’intelletto in quanto tale, non sia lo specchio perfetto dell’intera realtà o, con altre parole, che la realtà non sia totalmente trasparente per l’intelletto, ma possa avere zone d’ombra.
Il mito e il simbolo: l’approccio alla realtà
È necessario a questo punto soffermarsi su due nozioni che sono a fondamento della visione che Panikkar ha della realtà e del nostro modo di avvicinarci ad essa: il mito e il simbolo. Cominciamo con il definire la prima: «Il mito che si vive comprende l’insieme dei contesti che si danno per scontati. Il mito ci dà il punto di riferimento che ci orienta nella realtà; [...] è sempre l’orizzonte accettato entro cui si situa la nostra esperienza della verità. Io sono immerso nel mio mito così come altri lo sono nel loro. Non ho coscienza critica del mio mito, così come gli altri non sono consapevoli del loro. È sempre l’altro che, alle mie orecchie, parla con un certo accento. È sempre l’altro che io sorprendo a parlare muovendo da preconcetti infondati»[21]. Il mito è un sostrato indispensabile al pensiero, solo grazie ad esso è possibile evitare il regresso all’infinito nell’ambito della nostra ricerca dei fondamenti di ogni cosa; più indietro non si può andare[22]. Il mito, dunque, del quale diventiamo coscienti solamente nel corso dell’incontro con l’altro, attesta tutta la limitatezza delle nostre aspirazioni all’universalità[23]. Viviamo nell’epoca dell’oggettività e della democrazia. Questi sono i miti dominanti. La nostra civiltà ha soppiantato il mito della superiorità della razza bianca (che ha sostenuto la schiavitù istituzionalizzata in epoche non lontane da noi: ed allora la cosa non sembrava tanto terribile ai più, così come non appariva scandaloso alla maggioranza dei greci dei primi secoli a. C.) con quello dell’uguaglianza di tutti gli uomini[24]. La democrazia si fonda su questo. È cambiato il mito, ma non ci siamo liberati del mito in quanto tale. Liberarsi dal mito è un’operazione impossibile[25]. Per questo Panikkar scrive: «Ogni demitizzazione porta con sé una rimitizzazione. Noi distruggiamo un mito – e giustamente, se quel mito non risponde più allo scopo – ma in un modo o nell’altro subentra sempre simultaneamente un nuovo mito. L’uomo non può vivere senza miti»[26]. Che la realtà sia oggettiva, che una parte possa essere isolata dal resto cui è relazionata e considerata “di per sé”, che il tutto sia uguale alla somma delle parti, come voleva Descartes, sono tutti miti[27]. Un certo mito può essere più o meno condiviso (anche, al limite, da tutta l’umanità, in un dato momento storico) ma mai definitivo (chi o cosa, infatti, potrebbe darne assicurazione?).
Il che ci porta a concludere che un pensiero onnicomprensivo, puro, libero da qualsiasi pregiudizio… non esiste. Un pensiero che abbracci tutto, che abbracci cioè anche colui che pensa ed il mito stesso che lo rende possibile, non può esistere in alcun modo. Utilizzando per un attimo il linguaggio della matematica, potremmo dire che il mito è un “limite inferiore” per il pensiero. Detto invece con un’espressione più volte utilizzata da Panikkar, la realtà presenta un aspetto “opaco” al pensiero. La realtà non può essere esaurita dal pensiero (il pensiero non può cioè comprenderla interamente, in maniera esaustiva), proprio perché il pensiero – ancorato al mito – non ha una capacità di penetrazione “assoluta”, ma lascia sempre qualcosa al di fuori del proprio abbraccio. L’incontro tra il pensiero e la realtà, da cui scaturisce la conoscenza, rivela l’eccedenza della realtà rispetto al pensiero della quale stiamo parlando, mostrandoci che il pensiero e l’essere non coincidono, perché il pensiero non è tutto ciò che c’è e di questo ci si accorge anche tramite quel “limite inferiore” che il mito costituisce per il pensiero, e che noi con Panikkar chiameremo anche ciò che è “impensato”[28].
Il pensiero non è tutto, quindi. Sottolineando però che Panikkar non criminalizza la posizione appena descritta, né propone un rifiuto totale del logos: «Si tratta precisamente di questo, non d’auto-sacrificio del λόγος, ma sì del bisogno di far scendere il λόγος dal trono dove l’ha messo la parte predominante della cultura occidentale lungo 25 secoli»[29].
Veniamo ora alla definizione di “simbolo”: il simbolo rappresenta l’intera realtà come appare e si manifesta attraverso la sua struttura molteplice. Un simbolo è precisamente la cosa, non la “cosa in sé”, che è un’astrazione mentale, ma la cosa come appare e si esprime. Il simbolo di una cosa non è né un’altra cosa né la cosa in sé, ma la cosa stessa così come si manifesta, com’è nel mondo degli esseri, nell’epifania dell’“è”. Così Panikkar: «Il simbolo non è né un’entità puramente oggettiva presente nel mondo (quella cosa “laggiù”), né un’entità meramente soggettiva presente nella mente (in noi “quaggiù”). Non vi è simbolo che non sia dentro e per un soggetto, così come non vi è simbolo che sia privo di un contenuto specifico rivendicante oggettività. Il simbolo abbraccia e lega costitutivamente i due poli del reale: l’oggetto e il soggetto»[30]. Questo legame costitutivo è diretto, senza intermediari; non ha bisogno, cioè, di alcuna spiegazione: il simbolo è per me ciò che non ha bisogno di nessuna interpretazione. Se ho bisogno di una spiegazione, vuol dire che per fornirla dovrò appoggiarmi su un’altra cosa ancora più fondamentale (che sarà per me simbolo a sua volta). Non è possibile dare alcuna ermeneutica del simbolo: essa lo trasformerebbe in segno, in concetto[31]. Il simbolo è dunque qualcosa che “invita” alla relazione. Il simbolo è lo strumento del mito così come la ragione è il veicolo del logos[32]; i simboli sono perciò i «mattoni ultimi con i quali è costruito l’edificio della realtà»[33]. Non vi è approccio al simbolo, ma partecipazione. Esso non permette niente altro che il rapporto personale»[34]. Bisogna solo stare attenti a non identificare il simbolo con ciò che esso simboleggia: «Confondere il simbolo con il simbolizzato, equivale esattamente all’avidyā, all’ignoranza che scambia l’apparenza con la realtà. Ma la realtà è tale proprio perché “appare” reale»[35].
Concludendo: mito e logos vanno di pari passo, non si dà l’uno senza l’altro e non c’è modo per l’uomo di conoscere alcunché senza l’ausilio di entrambi: ciò che, come si vedrà nel seguito, costituisce la base del pluralismo[36].
Critica della “cosa in sé” e dell’oggettività
La visione del mondo attualmente dominante è ben nota: il mondo è costituito da un insieme di oggetti, ciascuno dei quali è una “cosa in sé”, legato a tutto il resto degli esseri in maniera accidentale. Per Panikkar questa posizione, che egli definisce “criptokantismo”, è sbagliata[37]. Non esiste nessuna “cosa in sé”. Anzi, per chiarirlo ulteriormente: nessuna cosa esiste “in sé”[38]. Il padre è padre perché c’è un figlio, ed è tale nella sua relazione con il figlio; se dalla relazione il figlio viene reciso, il padre cessa di essere tale[39]. Che la mente abbia bisogno di questa astrazione (la “cosa in sé”) per poter pensare e calcolare è fuori discussione, ma che il risultato del pensiero razionale rifletta fedelmente l’essere è non solo dubbio, proprio per quanto detto anche in precedenza, ma anche contrario all’osservazione: infatti, quelle che osserviamo non sono cose in sé, separate da tutto il resto, oggetti che esistono nel vuoto in piena autosussistenza[40]. Osserviamo invece che esistono uccelli e mari; il che non vuol dire che non potrebbero esistere gli uni senza gli altri, ma solo che – di fatto – non esistono. L’astrazione, cioè la separazione delle cose, è dunque quantomeno arbitraria. Ma il problema non è solo questo: se, infatti, a partire da quanto osserviamo nella nostra esperienza, ci rendiamo conto che nella realtà tutto è connesso a tutto, ovvero che l’essere è caratterizzato da una radicale relatività (o radicale relazionalità[41]), e che non esiste niente di assolutamente trascendente, comprendiamo abbastanza presto che non è possibile recidere i legami che una cosa ha con il resto della realtà senza alterare sia la realtà sia la cosa stessa[42]. Infatti, i legami che relazionano ciascuna cosa ad ogni altra costituiscono anche le cose stesse[43]. Ci si permette qui un ultimo chiarimento, data la centralità dell’argomento in questione e dato che il pensiero moderno, basato sull’identità parmenidea tra pensare ed essere, ha una tradizione più che bimillenaria: nel caso, ad esempio, del dialogo tra le religioni, entrambe le parti reclamano l’accesso ad una certa percezione della realtà. Ciò non implica che ci sia una misteriosa “cosa in se stessa”, ma nemmeno che una semplice opinione soggettiva sia tutto ciò che c’è. Implica invece che la mia concezione di una “cosa” appartiene alla realtà e persino alla “cosa” stessa[44]. Ma perché lo stesso sia vero per l’altro è necessario che né la mia visione né l’altra sia la realtà totale[45].
Dunque, la verità non si dà al termine di un’indagine oggettiva delle cose, ma nella relazione che si instaura fra due poli, ciascuno dei quali, “in sé” non è niente[46]. È possibile osservare quanto detto – e cioè che l’oggettività è un’astrazione, che non esiste se non nel pensiero – in ogni ambito. Panikkar è chiaro al riguardo: «L’oggettività è tale per una soggettività. L’oggettività ha un senso perché c’è la soggettività che la scopre come oggettività e come irriducibile alla soggettività. […] Qualcosa è oggettivo (faccio qui pura fenomenologia) quando si presenta, a parecchi soggetti, indipendentemente dalle differenze e dalle discrepanze tra i differenti soggetti. […] Nell’ambito di una certa cultura l’oggettività può apparire come tale quando la soggettività si è mascherata e ciò accade soltanto quando non esiste problema, quando siamo nello stesso mito. […] Il mio sforzo di relativizzare l’oggettività non è per distruggerla ma per dirigere la nostra attenzione al polo di soggettività che la costituisce»[47]. Non esistono fatti oggettivi, indipendenti da un’interpretazione degli stessi: essi possono essere visti come oggettivi solo dalla prospettiva del mito dominante, che è il mito dell’oggettività. Non si tratta solo di avere interpretazioni diverse della stessa cosa; questo è ciò che Panikkar chiama criptokantismo: la “stessa” cosa non esiste. Il fatto non è scisso (l’intelletto può operare distinzioni, ma non separazioni) dall’interpretazione[48]. Noi non veniamo a conoscenza dei fatti se non mediante le interpretazioni: non c’è altro modo di esprimerli. Anche quando si immagina di star dando conto “oggettivamente” di un certo fenomeno, magari esprimendolo secondo parametri quantitativi e formule matematiche, in realtà non si sta facendo altro che interpretare quello stesso fenomeno nell’ottica del mito della scienza[49]. Non si può saltare al di là della propria ombra.
Pluralismo
«Se prendiamo sul serio l’interculturalità, non è che gli indiani, gli aztechi, i maya abbiano un’altra concezione del mondo – del nostro mondo, naturalmente, quello che è cominciato col big-bang e finirà non so come –; vivono addirittura in un altro mondo. Non è una diversa concezione dell’universo, è un universo differente. Se non si arriva fino a questo punto, credo che si rimanga ancora prigionieri delle nostre prospettive monistiche o del criptokantismo che domina in tutta la cultura moderna e tecnocratica attuale, e non solo occidentale: c’è una “cosa in sé”, cioè il mondo, sconosciuto evidentemente, di cui ciascuno ha poi la sua visione. Questa concezione è falsa: ci sono mondi diversi, universi differenti. Questo conflitto di kosmologie è la causa ultima della crisi attuale. Con una sola cosmologia, una sola concezione dell’universo, e quindi dell’uomo, non si può far fronte alle sfide attuali, non perché la mia concezione dell’uomo (l’essenza uomo, ancora una volta l’astrazione platonica) sia falsa, ma perché la realtà, in se stessa, è ancora più reale. E per il fatto di essere reale io non la posso cogliere. Se la potessi cogliere dovrei situarmi fuori della realtà, ma questa sarebbe allucinazione»[50]. Dire che esiste una sola realtà e che poi ognuno la “vede” come vuole, non è altro che una forma di prospettivismo, che lascia intatta la “cosa in sé”. Panikkar nega risolutamente questa posizione, e non perché dica non che esistano molte verità, bensì perché la realtà non è oggettiva, ma simbolica, per cui ne fanno parte anche l’altro polo della relazione e la relazione stessa[51]. La verità non è qualcosa che sta fermo in qualche posto in attesa della scoperta da parte della coscienza umana; la verità è piuttosto qualcosa che nasce dall’incontro, dalla relazione tra i due poli della stessa: la verità è «quella qualità o proprietà della realtà che permette alle cose di entrare in un rapporto sui generis con la mente umana»[52]. Al di fuori di questo rapporto, non esiste verità. Non esiste la verità di un oggetto “in sé”, proprio perché, come abbiamo visto, non esiste alcun oggetto “in sé”: la realtà è simbolica, e la conseguenza diretta di questo fatto è che la verità è pluralistica. La verità può essere condivisa solo all’interno dello stesso mito.
Nel caso ad esempio del dialogo tra le religioni (di cui parlerò in dettaglio nel prossimo paragrafo), il fatto che entrambe le parti reclamino l’accesso ad una certa percezione della realtà, non implica che ci sia una misteriosa “cosa in se stessa”, ma nemmeno che una semplice opinione soggettiva sia tutto ciò che c’è. Implica invece che «la mia concezione di una “cosa” appartiene alla realtà e persino alla “cosa” stessa. Ma perché lo stesso sia vero per l’altro è necessario che né la mia visione né l’altra sia la realtà totale»[53].
Questo primo aspetto del pluralismo riguarda il profilo teoretico. Se quanto appena detto è vero (cioè se la mia concezione di una cosa appartiene alla cosa stessa e se altrettanto vale per l’altro, che vede, percepisce, concepisce la cosa in maniera diversa da me), allora sarà consequenziale concludere che nessuno può rivendicare un accesso esclusivo ed esaustivo alla verità: «Il pluralismo non consiste nel trovare un posto per tutti, ma piuttosto nell’esperienza della mia finitudine, della mia contingenza, dell’impotenza di una lingua e di una filosofia pretestuosamente universali e di una comprensione comune. Nel fare questa esperienza della nostra limitatezza, lasciamo uno spazio aperto per altre concezioni della realtà»[54].
Non si tratta semplicemente di una “debolezza” nella nostra mente – così che se noi fossimo più intelligenti potremmo pervenire ad un’unica verità teoretica sulla quale tutti gli uomini sarebbero d’accordo – ma di una caratteristica della realtà, oltre che del nostro intelletto. Né si tratta, è opportuno sottolinearlo ancora una volta) di “prospettivismo”, nel qual caso potremmo sempre arguire che, nonostante il fatto che vi sia un’altra prospettiva che vede le cose in modo differente, la nostra è quella adatta per quel particolare scopo – che è lo scopo “reale”: ammettere prospettive diverse su una questione sposta solo il problema, perché allora dobbiamo ricominciare daccapo a discutere quale sia la prospettiva giusta per quel caso particolare, e così via. Il pluralismo non è la mera giustificazione di una pluralità di opinioni, ma la percezione che il reale è più della somma di tutte le possibili opinioni»[55].
Il pluralismo parte dal riconoscimento del dato di fatto di una pluralità di sistemi di vita e di pensiero tra loro incompatibili. Lo sforzo deriva dal fatto che il pluralismo non ha dalla sua parte l’intelligibilità totale pretesa dal monismo[56]: il pluralismo è, dal punto di vista logico, impossibile[57]. Tuttavia, esso trova appoggio in uno slancio di onestà intellettuale, a partire dalla considerazione che io non posso ergermi a norma assoluta, non posso negare che, se qualcuno sostiene di vedere il mondo in un certo modo, egli non lo veda effettivamente in quel modo, e non posso neanche affermare che si sbagli: «Io non posso dire cos’è l’uomo, senza sapere quello che l’uomo pensa di sé. Ma se io penso che l’uomo sia una cosa e poi trovo l’ultima donnetta dell’ultima isola dell’ultimo arcipelago che ne dice un’altra, la mia antropologia è falsa, perché lei pensa di sé una cosa diversa e lei è tanto uomo quanto lo sono io e, a meno che io non abbia già codificato l’uomo e dica “l’uomo è questo” anche quella voce deve essere ascoltata. Questa è la base filosofica del pluralismo, che ogni essere umano, e molto di più ogni cultura, essendo autori della propria autocoscienza, ci dicono quello che l’essere umano è»[58].
Si può concludere dicendo che «il fondamento filosofico del pluralismo risiede nel pluralismo della verità: esiste la verità, ma non è unica nel senso in cui la intendiamo, perché l’uomo non la esaurisce e non ne ha il monopolio. Il monolitismo della verità non trova riscontro nella realtà, che è intessuta di una dimensione di opacità, di coscienza, di infinità. La realtà stessa è trinitaria e pluralistica. In altri termini, il pluralismo è fondato se la realtà ultima non è pura coscienza, ma vi è di più. Solo la presenza di dimensioni diverse dalla coscienza sostiene e giustifica l’atteggiamento pluralista»[59].
Tuttavia, secondo Panikkar, l’aspetto pratico del pluralismo è preminente rispetto a quello teoretico fin qui discusso[60]: «Il pluralismo non è l’accettazione, e tanto meno l’armonia, di diverse visioni; il pluralismo è trovare un ambito di tolleranza fra differenti visioni irriducibili della realtà e fra prassi incompatibili. Qui è il punto dove teoria e prassi si incontrano. Il pluralismo si dà quando si prende coscienza del fatto che ci sono due (o più) visioni assolutamente incompatibili: o l’una o l’altra»[61]. Panikkar precisa che una pluralità di stati sovrani chiusi in se stessi, che cercano di non interferire gli uni con gli altri, vivendo come se non esistesse nessun altro al di fuori di loro, non è pluralismo: il pluralismo comincia invece quando non si può fare a meno di prendere posizione di fronte all’effettiva presenza dell’altro, quando è impossibile evitare la reciproca interferenza ed il conflitto – che si delinea inevitabile – non può essere risolto dalla vittoria di una parte o partito. Problema tanto più acuto oggi, in quanto la prassi contemporanea ci getta l’uno nelle braccia dell’altro[62]. La questione non risiede quindi nel trovare un accordo razionale che accontenti un po’ tutti, nella creazione di un supersistema intellettuale all’interno del quale ognuno venga ricompreso nonostante le differenze[63]: il pluralismo non è una visione del mondo, né un concetto. Il pluralismo è un mito[64].
Che fare allora quando la situazione di fatto rende impossibile evitare la reciproca interazione e il conflitto non può essere risolto dalla vittoria di una delle parti? Questo problema va risolto con un metodo specificamente pluralistico, che per Panikkar non consiste nello sforzo per convincere l’altro e nemmeno nel procedimento dialettico, ma in un “dialogo dialogale”[65], che conduca ad una vicendevole apertura agli interessi dell’altro, alla ricerca di partecipazione in qualcosa di comune, pur senza conoscere in anticipo le soluzioni, avendo fiducia nella possibilità di ricercarle congiuntamente[66].
Dialogo
È qui che si affaccia quella che Panikkar definisce “esperienza cattolica”: «Essa rappresenta la convinzione, sulla quale l’uomo moderno sta al presente aprendo gli occhi, che non possiamo trattare in modo adeguato alcun problema umano (e, in ultima analisi, alcun problema di qualsiasi genere) nell’isolamento, che il contesto adatto di ogni problema reale non si trova all’interno dei confini tracciati dalla segregazione culturale, ma nella trama universale dell’esperienza umana»[67]. L’impossibilità di stabilire un punto di vista assoluto (dato che la cosiddetta “oggettività della ragione pura”, appartenente al mito della scienza, non è condivisa da tutte le culture) ci rende consapevoli dell’insufficienza dei nostri approcci singoli alla realtà. Si forma in noi la convinzione che l’altro abbia la nostra stessa capacità di accedere a una certa percezione della realtà, altrettanto vera pur se diversa dalla nostra: «Non esiste certo una prospettiva globale. Ogni prospettiva è limitata, ma esiste sempre la possibilità di uno scambio e anche di un ampliamento di prospettive e il dialogo interculturale mira proprio a questo»[68].
È chiaro quindi che una condizione preliminare del dialogo è la fiducia nell’altro, ma non solo in quest’ultimo: più precisamente, il dialogo interreligioso «non implica solo fiducia nel vicino (impossibile senza amore e comprensione), ma anche la fede in qualcosa che ci trascende entrambi»[69]. Conseguenza diretta della convinzione che la realtà supera talmente tanto il pensiero da non poter essere racchiusa né in un singolo sistema né nella somma di tutti i possibili sistemi, per cui si può dire che «il dialogo dialogale […] va affrontato con fiducia nel desiderio comune di approfondire una Verità, una Giustizia o una Intesa che ci supera»[70]. Panikkar utilizza, per descrivere questo “qualcosa” che ci supera, il termine “trascendenza”: «C’è pneuma, spirito, dietro ogni logos. Un termine classico per questa apertura è trascendenza. E trascendenza sperimentata nel corso ordinario del dialogo. Nessun singolo partecipante, e neppure tutti i partecipanti assieme, hanno a loro disposizione l’interezza della realtà. Dialoghiamo di qualcosa che ci trascende, qualcosa di cui non possiamo disporre a piacere. C’è sempre qualcosa che fa sorgere il dialogo. Questo “qualcosa” è sotteso al potere di ogni partecipante. Si potrebbe dire che entrambi i partecipanti sono trascesi da un terzo, che lo si chiami Dio, Verità, Logos, karman, provvidenza, compassione o in qualunque altro modo. Questo “terzo”, intorno al quale il dialogo fiammeggia, impedisce ogni manipolazione da entrambi i fronti. Non siamo i signori assoluti del dialogo religioso. E la situazione è ancor più singolare in quanto qualsiasi giudice esterno è fuori discussione. Il dialogo non è una disputa cerimoniale di fronte a dei giudici»[71].
Panikkar propone di sostituire la fiducia alla certezza, la quale ultima non è altro che «la fiducia della ragione in se stessa che essa stessa avalla»[72] e che, a partire da Descartes, ha costituito l’ideale della filosofia occidentale moderna[73]. La fiducia invece sorge «quando ci rendiamo conto del fatto che la nostra stessa natura ci spinge ad affidarci a qualcosa che, pur non essendo noi, sta in noi, del fatto che non siamo soli, ma collegati con il tutto. […] L’interculturalità non può basarsi sulla certezza poiché, anche se si è certi che l’altra cultura è in errore, coloro che vi appartengono sono a loro volta certi del contrario»[74]. La fiducia è indispensabile a un dialogo genuinamente interculturale: «Senza fiducia nelle altre culture […] l’interculturalità degenera nel multiculturalismo, che è una strategia, per lo più a livello inconscio, per assorbire altre visioni del mondo e perpetuare così la sindrome dell’ideologia di una cultura superiore. Non tutto è negativo nelle altre culture, dice il “multiculturalismo”, ma non ce ne possiamo fidare troppo; prendiamo quindi ciò che hanno di buono integrandolo nella nostra cultura, che è superiore e che in questo modo si arricchisce ulteriormente»[75].
Dialogo dialettico e dialogo dialogale
Come accennato prima, Panikkar distingue il dialogo “dialettico” dal dialogo “dialogale”. Il primo si basa sulla convinzione che, esclusivamente tramite la ragione, è possibile ottenere un accesso alla verità che sia universalmente condivisibile: la lotta tra le visioni razionali della realtà è provvisoria, e conduce inesorabilmente alla vittoria di una delle parti in causa. Si tratta di uno scontro – tramite il linguaggio dialettico – per la supremazia e l’unificazione, e non di un incontro finalizzato al conseguimento dell’armonia e all’allargamento dell’orizzonte di comprensione; certo, ciascuno può più o meno modificare la sua idea, ma ciò non toglie che l’obiettivo è quello di raggiungere una sola conclusione razionale valida per tutti i contendenti.
Il dialogo dialogale presuppone invece che la ragione non esaurisca l’ambito dell’essere, come abbiamo fin qui ripetuto. Poiché la ragione non è arbitro esclusivo di questo dialogo, non potranno esserci regole valide in generale, sempre e a priori: le regole dell’incontro andranno stabilite di volta in volta all’interno dell’incontro stesso e da entrambe le parti in causa. Del resto, se la ragione esaurisse l’ambito degli strumenti del dialogo nonché l’orizzonte dei suoi obiettivi, a stretto rigore il dialogo stesso sarebbe superfluo (un uomo sufficientemente dotato di capacità speculative potrebbe infatti giungere da solo a srotolare la catena delle conseguenze razionali fino a giungere alla “verità tutta intera”), o al più sarebbe una utile scorciatoia verso un sentiero segnato in anticipo dalla ragione universale (o, in ultimo, sarebbe uno strumento “politico” e basta: l’obiettivo non sarebbe più solo quello di giungere alla verità, ma al contempo di convertire ad essa tutta l’umanità, con-vincendola con la forza della dialettica). Così Panikkar: «Il dialogo dialogale è radicalmente differente da quello dialettico: non cerca di con-vincere l’altro, cioè di vincere dialetticamente l’interlocutore o, per lo meno, di ricercare con lui una verità sottomessa alla dialettica. Il dialogo dialettico presuppone l’accettazione di un campo logico impersonale al quale si attribuisce o riconosce una validità o giurisdizione puramente “oggettiva”. Il dialogo dialogale, invece, presuppone una fiducia reciproca in un comune avventurarsi nell’ignoto, giacché non si può stabilire a priori se ci si capirà l’un l’altro né supporre che l’uomo sia un essere esclusivamente logico. Il campo del dialogo dialogale non è l’arena logica della lotta fra le idee, ma piuttosto l’agora spirituale dell’incontro di due esseri che parlano, ascoltano. [...] Le conclusioni saranno valide solo “fin dove il dialogo ci porta”. Possiamo scendere nell’arena, ma dobbiamo mantenere sempre aperto l’invito all’agora e non rimanere intrappolati nell’arena. Nell’agora si parla, nell’arena si lotta. Queste affermazioni non intendono affatto difendere una posizione irrazionale che, in quanto tale, non sarebbe neanche possibile formulare»