Afghanistan: perché andare via
di Enrico Piovesana - 01/06/2006
Repubblica e Corriere si schierano contro il ritiro dall’Afghanistan con argomenti quantomeno confutabili |
|
Gli editoriali di prima pagina di ieri su Repubblica e Corriere della Sera hanno ufficialmente dato il via alla campagna stampa contro il ritiro dell’Italia dalla guerra in corso in Afghanistan. Con argomenti diversi che ben sintetizzano, nella discussione sul ruolo italiano in Afghanistan, l'opinione di chi vuole lasciare le truppe italiane in quel paese, o addirittura aumentarne la presenza. Argomenti diversi, diecevamo, ma entrambi confutabili.
Guido Rampoldi, su Repubblica. “Oggi quel pacifismo invoca il rimpatrio del contingente italiano dall´Afghanistan: ma evita di chiedersi cosa accadrebbe laggiù se la Nato fuggisse. Accadrebbe questo: naufragherebbe la possibilità di sottrarre gli afgani alla guerra civile cominciata oltre trent´anni fa. Dilagherebbe ovunque una mischia furibonda, combattuta dai pesi massimi dell´area attraverso le milizie afgane, un "tutti contro tutti" che provocherebbe dapprima il collasso definitivo del Paese e d´ogni minima traccia di statualità, quindi l´ennesimo sterminio per fame di decine o centinaia di migliaia di afgani, soprattutto donne e bambini. Infine al-Qaeda tornerebbe ad essere padrona di gran parte dell´Afganistan; e l´avvento definitivo della casta guerriera, assassini molto pii, comporterebbe per le ragazze di Kabul la fine d´ogni speranza”.
Franco Venturini, sul Corriere della Sera. “Andarsene dall'Afghanistan? No, perché, a dispetto dei rischi comuni, Afghanistan e Iraq, lungi dall'essere simili, rappresentano le due concezioni opposte della politica internazionale e del ricorso alla forza. (...) L'intervento in Afghanistan, all'indomani degli attentati dell’11 settembre 2001, è cosa del tutto diversa. Le motivazioni furono veritiere (perché in Afghanistan i terroristi c’erano, a differenza delle armi di distruzione di massa in Iraq). Al posto dell’unilateralismo preventivo di Bush si formò una coalizione che comprendeva anche Paesi islamici. E il pur contorto via libera dell’Onu (risoluzione 1386) arrivò prima, non dopo la guerra. (…) La missione in Afghanistan, lasciata a metà dagli Usa per volgersi contro Baghdad, risulta ancora oggi incompiuta con Bin Laden libero e attivo. Tanto più che in Afghanistan è presente quella comunità internazionale alla quale vogliamo appartenere (Francia, Germania, Spagna) e un ritiro unilaterale comporterebbe per l’Italia una frattura strategica ben più grave e onerosa di quella che si produrrà con il rientro dall’Iraq”.
E’ la presenza delle truppe che crea instabilità. Senza le truppe straniere l’Afghanistan precipiterebbe nel caos, scrive Rampoldi. Peccato che nel caos l’Afghanistan ci sia già oggi, nonostante la presenza delle truppe straniere, e anche a causa della loro presenza. Quattro anni di occupazione militare straniera (Usa e Isaf) non sono serviti a rafforzare l’autorità del governo del Karzai, che non si è mai estesa al di fuori di Kabul e dei principali capoluoghi di provincia. Nel resto del Paese hanno continuato a comandare e a imperversare i signori della guerra e dell’oppio, e le condizioni di vita della popolazione non hanno conosciuto miglioramenti. Anche per colpa di una ricostruzione inesistente, di cui hanno beneficiato solo le aziende appaltatrici statunitensi e i corrotti politici del governo Karzai.
Nel sud i talebani, fuggiti ma mai sconfitti, sono tornati dal Pakistan e hanno ripreso il controllo delle aree extraurbane delle province di Kandahar, Helmand, Uruzgan, Zabul e Kunar, lanciando un’offensiva contro le truppe straniere e governative che ha causato 6.500 morti in quattro anni (1.300 solo negli ultimi 5 mesi), con centinaia di civili afgani uccisi nei bombardamenti aerei Usa (una trentina solo lo scorso 22 maggio nel bombardamento di un villaggio vicino a Kandahar).
Questi massacri di innocenti, le violenze e gli abusi delle truppe Usa nel corso dei rastrellamenti dei villaggi, le torture nelle Abu Ghraib afgane dei carceri militari di Bagram e Kandahar, il generale atteggiamento aggressivo e sprezzante delle truppe Usa nei confronti della popolazione: tutto ciò ha fatto montare negli afgani, alcuni di loro inizialmente abbastanza ben disposti verso la presenza militare straniera, un risentimento sempre maggiore nei confronti delle truppe d’occupazione e il governo Karzai. La rivolta di Kabul dell’altro giorno è stata una dimostrazione eclatante. Questo montante odio popolare non fa distinzione tra soldati Usa o di altri paesi Nato: per gli afgani non c’è differenza tra un marines e un alpino, e le colpe dei primi ricadono sui secondi in maniera del tutto automatica. Per la stragrande maggioranza degli afgani – che conoscono a mala pena la geografia del proprio Paese – italiani, inglesi, tedeschi, spagnoli, europei, americani sono la stessa cosa: “stranieri”. Stranieri di cui non si fidano più, stranieri di cui hanno le tasche piene.
Come le hanno del governo cosiddetto “democratico” di Karzai, in cui all’inizio molti hanno sinceramente creduto, ma che ormai considerano un traditore, un fantoccio degli stranieri, un potere lontanissimo dai bisogni della gente. In questa situazione di frustrazione, rabbia e disillusione, è comprensibile che la società afgana torni a guardare con speranza ai talebani e al loro movimento armato, che trova un terreno di propaganda e proselitismo sempre più fertile e un sostegno popolare sempre più forte. E’ vero che l’Afghanistan rischia di esplodere e di tornare in mano ai talebani, ma proprio grazie al catalizzatore della presenza militare straniera.
La legalità della missione è tutt’altro che scontata. La missione Italiana in Afghanistan è legittima, contrariamente a quella in Iraq, scrive Venturini. Peccato che, se si guarda alla storia di questa missione, emerga chiaramente non solo l’ambiguità della sua originaria legittimità internazionale, ma soprattutto i metodi antidemocratici con cui il governo italiano ha portato – e mantenuto per oltre quattro anni – l’Italia in guerra: violando la Costituzione italiana, violando la condizione alla quale il Parlamento aveva votato la partecipazione alla guerra, ampliando il coinvolgimento militare italiano facendolo passare con stratagemmi legali tutt’altro che trasparenti, evitando ogni dibattito sul cambiamento della natura della missione Isaf, sulle nuove regole d’ingaggio, sulla decisione di inviare aerei caccia-bombardieri.
In violazione all’articolo 11 della Costituzione repubblicana con cui l’Italia “ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”, il nostro Paese è entrato in guerra in Afghanistan il 7 novembre 2001, con l’approvazione bipartisan (esclusi solo Pdci, Prc e Verdi) di una risoluzione parlamentare
che autorizzava la partecipazione italiana all’operazione bellica Usa Enduring Freedom – a sua volta ‘legittimata’ dalla vaghissima risoluzione Onu n. 1368 del 12 settembre 2001 che, senza nemmeno citare l’Afghanistan, autorizza a “combattere con tutti i mezzi la minaccia del terrorismo” facendo riferimento al “diritto di autodifesa individuale o collettivo” stabilito dall’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite. Il Parlamento approvò quella risoluzione a un patto: “impegnando il Governo a riferire tempestivamente al Parlamento circa gli sviluppi significativi degli eventi, nonché a sottoporre ad esso eventuali nuove decisioni che si rendessero necessarie nel prosieguo del conflitto”. Cosa che non è mai accaduta.
Il 20 dicembre 2001, la risoluzione Onu n. 1386 dà vita – ex Capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite – alla missione di “peace enforcing” Isaf (International Security Assistance Force), cui l’Italia aderisce automaticamente, formalizzando la sua partecipazione il 10 gennaio 2002, con la firma a Londra, assieme ad altre 15 nazioni, di un Memorandum of Understanding. L’unico passaggio parlamentare riguardante la missione Isaf avviene il 27 febbraio 2002, con l’approvazione della “legge n. 15/2002 di conversione, con modificazioni, del decreto-legge 28 dicembre 2001, n. 451, recante disposizioni urgenti per la proroga della partecipazione italiana ad operazioni militari internazionali”. La “modificazione” riguarda l’inserimento nel testo del decreto di un riferimento alla missione ISAF “connessa a Enduring Freedom”.
Con lo stesso discutibile sistema delle “modificazioni” aggiunte nelle leggi di conversione di decreti-legge, il Parlamento ha approvato a posteriori la partecipazione dell’Italia a altre due missioni di guerra della Nato “connesse a Enduring Freedom” e iniziate il 21 ottobre 2001 con l’applicazione – per la prima volta nella storia Nato – dell’articolo 5 del Trattato dell’Alleanza Nord-Atlantica che stabilisce che ogni attacco a uno stato membro è da considerarsi un attacco all'intera alleanza. L’11 agosto 2003 (legge n. 231/2003 ) viene approvata la partecipazione alla missione Active Endeavour, e il 12 marzo 2004 (legge n. 68/2004) quella alla missione Resolute Behaviour, entrambe e svolte da unità navali, rispettivamente, nel Mediterraneo orientale e nel Mare Arabico. Nell’agosto 2003, la missione Isaf passa sotto comando Nato, ovvero di un’alleanza militare formalmente in guerra con l’Afghanistan. Pochi mesi dopo, il 13 ottobre 2003, la risoluzione Onu n. 1510 stabilisce l’espansione della missione Isaf dalla sola Kabul a tutto il territorio nazionale afgano, prevedendo una progressiva espansione anche nelle zone meridionali e orientali dove le forze Usa continuano a combattere la resistenza talebana. Questa decisione è legata allo scoppio della guerra in Iraq, dove le forze Usa sono così impegnate da doversi disimpegnare dal fronte afgano, che viene ‘passato in consegna’ agli alleati della Nato, proprio nel momento in cui la resistenza talebana torna a farsi sentire con maggior violenza. Dopo un 2004 relativamente tranquillo (700 morti), il 2005 registra una drammatica escalation dei combattimenti con oltre 2 mila morti. Questo preoccupante cambiamento della situazione, proprio alla vigilia della “fase 3” di espansione della missione Isaf nel turbolento sud del Paese (prevista per la primavera 2006), impone alla Nato l’esigenza di “irrobustire” le regole d’ingaggio dei militari impegnati nella missione, che di fatto muta la sua natura da missione di pace a missione di guerra. Tra la fine del 2005 e l’inizio del 2006 questo delicato argomento genera polemiche e accesi dibattiti, anche parlamentari, in tutti i Paesi europei. Non in Italia, dove il 23 febbraio 2006 il governo Berlusconi, pur di non affrontare un dibattito in aula sulla mutata natura della missione dei nostri 2 mila soldati impegnati in Afghanistan (e sul progetto di invio di sei caccia-bombardieri Amx dell’Aeronautica Militare), decide di inserire l’autorizzazione al rifinanziamento delle missioni afgane Isaf e Enduring Freedom nel maxiemendamento (legge n. 51/2006) alla Finanziaria del dicembre 2005, imponendo la fiducia e approvandola con i soli voti della maggioranza. La legge autorizza fino al 30 giugno 2006 la spesa di 13.437.521 di euro per la proroga di Enduring Freedom, Active Endeavour, Resolute Behaviour e quella di 148.935.976 per la partecipazione all'Isaf. Più altri 3.349.403 per le “piccole spese”. In totale 165.722.851 per sei mesi. Il che significa, in prospettiva, una spesa di oltre 320 milioni di euro l’anno: soldi nostri, che potrebbero essere destinati a scopi ben più utili, sia in Afghanistan che qui in Italia. Per un dibattito politico onesto sulla missione in Afghanistan. Gli italiani hanno il diritto di scegliere se continuare o meno a spendere i propri soldi e a mandare a morire il propri figli per una missione di pace in un paese in guerra, una missione sempre più pericolosa e avversata dalla popolazione locale, all’unico scopo – qui Venturini è stato onesto – di evitare una “frattura strategica” con gli alleati della Nato, Stati Uniti in testa. L’Afghanistan ha bisogno di ospedali, scuole, strade e pozzi, non di blindati, fucili, elicotteri e caccia-bombardieri. |