Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / L’equanimità verso il passato è la condizione per vivere armoniosamente il presente

L’equanimità verso il passato è la condizione per vivere armoniosamente il presente

di Francesco Lamendola - 04/03/2011


Chi non sa fare i conti con il proprio passato è condannato a trascinarsi per tutta la vita il peso dei rimorsi, dei rimpianti, delle contraddizioni irrisolte; a dare la colpa al mondo intero per i propri insuccessi e per i propri fallimenti; a ripetere sempre gli stessi errori.
Vi sono molte persone che vivono così.
Ve ne sono anche parecchie che si affidano alle stregonerie a pagamento degli psicanalisti, questi lugubri sacerdoti di una forma di magia nera i quali, il più delle volte, sono essi stessi preda di ossessioni e contraddizioni irrisolte, cui si sommano quelle evocate nel corso dei loro sinistri riti che chiamano, con pomposa impudenza pseudoscientifica, “terapie”.
Ma innanzitutto, domandiamoci: che cos’è il nostro passato? E quando diciamo “nostro”, che cosa intendiamo esattamente?
Certo, non si tratta di un qualcosa che si possa definire “nostro” nel significato di possesso: perché il passato, per definizione, è il tempo che più non ci appartiene, dunque non è più “nostro” se non nel ricordo, ossia nell’esercizio, volontario o involontario, della memoria.
È involontario quando una esperienza del passato torna a perseguitare colui che l’ha vissuta; o quando basta rivedere un luogo, una persona, riudire una musica, perfino una singola parola, perché quella persona venga sopraffatto dal flusso incontrollato dei ricordi.
Il ricordo, peraltro, non è la stessa cosa di ciò che denominiamo “memoria”: la memoria è la facoltà del ricordare, mentre il ricordo è l’oggetto, ossia il contenuto di quella facoltà. Il ricordo sta alla memoria come l’acqua sta alla corrente del fiume. Noi vediamo la corrente del fiume, non l’acqua in se stessa; se l’acqua evaporasse, infatti, o se la siccità prosciugasse il corso del fiume, noi non vedremmo più l’acqua, ma tuttavia sapremmo per certo che, in quel letto, scorreva un fiume.
Similmente, quello che noi ricordiamo non è l’evento passato in se stesso, ma l’idea che di quell’evento ha elaborato la nostra memoria: noi ricordiamo la memoria, non il ricordo. Il ricordo è la cosa in sé, e nulla potrà restituircela così come essa era.
Di più: nemmeno quando l’evento ci era presente, nemmeno quando noi eravamo presenti ad esso, l’evento era per noi una realtà oggettiva: se avessimo confrontato le nostre impressioni con quelle di altri a proposito del medesimo evento, ci saremmo resi conto, già allora, che noi non avevamo sperimentato la realtà, ma la nostra interpretazione di essa.
Dunque, la memoria è l’interpretazione del passato e non ci restituisce il passato così com’era (posto e non concesso che una tale esperienza sia mai stata possibile), ma soltanto come noi lo abbiamo rielaborato: non è un passato “ingenuo”, ma sovraccarico delle mille e mille modificazioni che, nel frattempo, si sono prodotte a causa della distanza temporale e della evoluzione della nostra coscienza.
Ma esiste, poi, una coscienza? Esiste un “io”?
Probabilmente no, e hanno ragione i Buddisti Theravada quando affermano che noi non possediamo un “io”, ma solo un gruppo di operazioni mentali sempre mutevoli; e aveva ragione anche Pirandello, quando sosteneva che, sotto la forma impostaci dalle “maschere”, in noi non vi è che un flusso continuo e una incessante trasformazione di temporanei stati della coscienza - anche se egli si è malignamente compiaciuto di trarre da ciò delle conseguenze molto maggiori della premessa, tutte di segno distruttivo e nichilista.
Il fatto che una coscienza permanente, un “io” unitario e coeso forse non esistano, o, comunque, siano indimostrabili (a dispetto del “cogito” cartesiano, che non ci dice affatto che un “io” permanente esiste, ma soltanto che vi è una coscienza la quale, in questo preciso istante, sta dubitando), non significa che non si possa istituire alcun legame fra “noi” e i “nostri” ricordi, usando queste due parole, “noi” e “nostri”, in senso convenzionale e puramente pratico. Significa soltanto che non bisogna intendere ciò in senso rigido, in senso possessivo: perché se noi non possediamo, a rigor di termini, un “io”, ancor meno possediamo un passato.
Ma allora, che cos’è quel passato con il quale bisogna imparare a fare i conti, che bisogna saper accettare e metabolizzare, per poter vivere serenamente il presente? E, soprattutto, di chi è, se non lo possiamo considerare veramente come “nostro”?
Il passato, in quanto tale, non è nemmeno un ente, è una realtà al negativo: un tempo di cui si può solamente dire che non è, che non è più e che non tornerà mai più ad essere. Invece il passato in quanto ricordo è, sì, un ente, ma “nostro” solo in senso convenzionale: “nostro” nel senso che la nostra memoria tende ad appropriarsene e a considerarlo tale. Neppure la memoria, a stretto rigor di termini, è veramente “nostra”: dunque, tanto meno si può dire che essa ci restituisca il “nostro” passato.
Ma che cosa ci rimane, allora? E perché noi abbiamo un bisogno vitale di riconciliarci con quello che chiamiamo il passato, il nostro passato, se vogliamo vivere pienamente il presente?
Alla prima domanda rispondiamo che a noi rimangono una serie di operazioni mentali in continuo movimento; e il fatto che la nostra evoluzione interiore ci porti a riconsiderare incessantemente il nostro passato, a vederlo sotto una luce sempre nuova, è la migliore dimostrazione che noi non siamo alle prese con un ente, “il nostro passato”, ma con un fantasma, che muta continuamente forma ed aspetto a seconda degli stati di coscienza che lo considerano e, per così dire, lo osservano (che poi quegli stati di coscienza siano “nostri”, lo diciamo in senso puramente pratico, per non sottoporre il linguaggio ad uno sforzo continuo ed eccessivo).
C’è un racconto di Karel Chapek Chod che parla di come un equivoco abbia cambiato, in negativo, la vita di un essere umano. Un bambino, mentre giace a letto ammalato, si accorge che è scomparso il suo amatissimo album di francobolli: tutti gli indizi accusano un compagno, quello che lui credeva il suo  migliore amico. Tornato a scuola, non lo affronta apertamente, ma gli mostra il massimo disprezzo: e, a partire da quel momento, incomincia a chiudersi con tutti, a divenire sospettoso e diffidente, a inaridirsi precocemente. Cresce senza più amici, si sposa senza amore, rinchiuso in una gabbia di amarezza che il suo atteggiamento, senza rendersene conto, tende a giustificare, poiché gli altri si discostano da lui, avvertendo il suo rancore profondo e la sua amarezza. Un giorno, per caso, ritrova l’album dei francobolli: glielo aveva nascosto suo padre, credendo di agire per il suo bene, dato che il ragazzo sottraeva troppo tempo allo studio per la passione della filatelia. Così, il protagonista si rende conto di aver sprecato e avvelenato la sua intera vita per un fatto inesistente: il supposto tradimento del più caro amico.
Questa novella offre un buon esempio di come il passato, in se stesso, non sia qualcosa di reale, ma una sorta di magazzino nel quale noi mettiamo tutto quel che vogliamo, consciamente o inconsciamente. In un certo senso, è il nostro presente che costruisce il passato e non viceversa: perché noi “vediamo” il passato, sino a gioirne o a soffrirne atrocemente, in base a ciò che è il presente della coscienza che lo rivisita. Possiamo arrivare ad abbellire o ad imbruttire il passato a volontà, e, di fatto, lo facciamo, mano a mano che il tempo scorre ed i contenuti del pretesto “passato” sfumano nella lontananza, obbligando la memoria a compiere uno sforzo sempre più grande per tentare di recuperarli.
Ma la memoria non ci restituisce mai il passato, bensì l’idea, attuale, della coscienza che lo rivisita. E tale idea muta continuamente, insieme alla coscienza stessa, che diciamo “nostra” solo per comodità. Tutto questo può sembrare bizzarro e molto cerebrale; invece, a ben guardare, è quello che noi facciamo abitualmente, ma senza consapevolezza, ogni volta che ci accostiamo al passato. Lo rielaboriamo, vi aggiungiamo o vi togliamo qualcosa, lo rivestiamo di una tonalità affettiva ed emozionale che gli è estranea.
Nel romanzo «Senilità», di Italo Svevo, il protagonista, un assicuratore trentacinquenne di nome Emilio Brentani, finisce per trasfigurare il ricordo della ragazza che aveva amato, Angiolina  - una popolano scaltra, volgare ed egoista - in una sorta di creatura eterea e dolcemente pensosa, perfino in una donna angelo, associandole, inoltre, alcuni caratteri della propria sorella defunta, Amalia: la sollecitudine, l’istinto materno, la mitezza e lo spirito di abnegazione. E con quel falso ricordo Emilio si accinge ad affrontare tutto il resto della propria vita, ben deciso a vivere in esso anziché nel presente, che lo ha deluso e ferito irreparabilmente.
Così, ora siamo pronti a rispondere alla seconda domanda che ci eravamo posta: perché sia tanto importante fare i conti con il passato e riconciliarsi con esso. La risposta, arrivati a questo punto, è intuitiva: perché ne va del nostro presente, che è tutto quello che possediamo; ne va della nostra vita, della nostra pace, del nostro equilibrio, di tutto quello che può consentirci di realizzare la nostra chiamata, nel modo migliore di cui siamo capaci.
Un rapporto erroneo con il passato, o con quello che riteniamo essere tale, può compromettere seriamente il nostro qui ed ora, costringendoci a una vita amareggiata da inutili fantasmi o da assurdi rimpianti.
Eppure, quanti di noi si abbandonano a questo errore; e, come se non bastasse, vi aggiungono l’errore di credersi irrimediabilmente “malati” e, per conseguenza, di affidarsi, per ottenere la sospirata “guarigione”, ad ogni sorta di stregone mercenario.
Che cosa bisognerebbe fare, dunque, quando si è ossessionati dal passato; in che modo bisogna porsi di fronte all’incalzare crudele delle sue ombre dolorose?
Prima di tutto, riconoscerne la reale natura: esso non è un qualcosa di reale, ma un prodotto della nostra immaginazione; o, per dir meglio: una proiezione delle nostre attuali paure, delle nostre attuali brame, della nostra attuale confusione. Chi riesce a stabilire un rapporto limpido con se stesso, automaticamente spezza il cerchio stregato del passato e si libera dal peso opprimente dei ricordi, che gli impediscono di vivere un presente sereno.
Questo non va interpretato alla lettera: non si tratta, per esempio, di cancellare il ricordo delle persone care che hanno lasciato questa vita; tutt’altro: semmai, di comprendere che non vi è nulla da rimpiangere, perché esse non se ne sono andate per sempre, non ci hanno lasciato soli, ma sono passate su un altro piano di esistenza, dal quale continuano a seguirci, ad amarci, a proteggerci per quanto possibile.
Liberarsi dal peso del passato significa non che dobbiamo cancellare o rimuovere i suoi contenuti (cosa due volte impossibile, dato che questi, come abbiamo già detto, non sono mai stati “nostri” e nulla sappiamo realmente di essi), ma che dobbiamo ristabilire la giusta gerarchia fra l qui ed ora e l’altrove: e il passato, come il futuro, appartiene all’altrove. È assurdo subordinare il qui ed ora all’altrove; a meno che si tratti dell’Altrove assoluto, che, da lontano, ci richiama al senso più profondo della nostra esistenza e ci invita a ritornarvi.
Il passato è come uno spaventapasseri in un campo di grano. Il vento muove le cordicelle e fa tintinnare le scatolette che pendono da esso, per spaventare i passeri e indurli ad allontanarsi. Noi non dobbiamo comportarci come i passeri ingenui, ma come i passeri esperti, i quali, dopo un certo numero di prove, si sono resi conto che quel fantoccio non è veramente un essere umano, e che né lui, né il rumore metallico prodotto dal vento, costituiscono un reale pericolo. Possiamo continuare a nutrirci dei semi di grano del nostro presente, dunque, liberandoci una volta per sempre da paure e turbamenti ingiustificati.
Certo, per riuscire a fare questo, dobbiamo anche imparare a guardare meglio in noi stessi. Sono le nostre paure di adesso e le nostre brame di adesso che ci portano a creare l’immagine di quel fantoccio, di quello spaventapasseri; sono esse che gli danno la forza di perseguitarci a distanza di anni, come un brutto sogno che non se ne vuole andare.
Non esistono ricette miracolose al riguardo e chiunque affermi il contrario è soltanto un cialtrone o un furbastro che trae qualche vantaggio dai nostri terrori e dalle nostre insicurezze.
L’unica strada efficace è quella che ci guida, attraverso cadute e riprese, lungo il sentiero della consapevolezza di noi stessi, da cui discende la consapevolezza di tutto il resto, compreso il passato che diciamo nostro.
Coraggio, dunque: il Sole è ancora alto, e c’è tanta strada da fare.