Sulle tracce di una filosofia ermetica nel pensiero di J. W. Goethe
di Ivan Dalla Rosa - 01/06/2006
E’ ormai prassi accreditata nei più svariati settori della produzione umana quella di lasciar riposare in una sospensione temporale le cose più preziose per poi riscoprirle nuovamente in un rinnovato splendore.
Se ci volgiamo all’ambito culturale questa pratica vale forse più che mai: quante volte si è potuto assistere alla riscoperta di opere che sembravano ormai esaurite nel loro contenuto e accorgerci invece, con piacevole stupore, di quanta verità esse siano ancora capaci, dopo un lungo sonno nelle profonde oscurità della dimenticanza.
In un certo senso questo è avvenuto anche per un particolare lato dell’opera di J.W. Goethe (1749-1832), se consideriamo il rifiorire di studi apparsi sulla scena negli ultimi anni. Quest’interesse però, se da un lato ha riconfermato a giusto titolo la qualifica di Goethe a massimo poeta, dall’altro ha riattualizzato antiche questioni attorno alla sua produzione che ne hanno messo progressivamente in luce alcuni lati che fino ad oggi sono stati tenuti in gran parte in ombra. Un dato certamente rilevante a questo proposito è che oggi si da molto più rilievo rispetto a un tempo alla produzione epistemologica della sua opera, cioè agli scritti scientifici, e questo ha contribuito a portare in superficie tutto quel complesso di elementi filosofici che stanno alla base della sua visione del mondo[1]. Di qui, autori come Mirko Sladek[2] hanno messo in evidenza come l’opera di Goethe sia in sostanza da ritenersi composta da due elementi di fondo in continuo rapporto di reciproca rispondenza, e cioè:
1. un forte interesse verso temi di natura misteriosofica ed ermetica riguardanti la natura e l’esistenza umana.
2. una considerevole propensione verso le scienze naturali e argomenti a carattere schiettamente epistemologico.
Ne deriva che l’asse portante del pensiero goethiano è essenzialmente riconducibile a due basilari categorie filosofiche: metafisico-ontologica la prima, gnoseologico-epistemologica la seconda[3].
Questo duplice versante, apparentemente così diviso, è in realtà unito da un medesimo impianto dottrinale che ne regge dall’interno l’intera struttura. Infatti, non è certo necessaria una lettura specialistica per accorgersi come elementi di una precisa Weltanschauung (forse sarebbe meglio dire con Schopenhauer “Weltdeutung”) siano fra loro concatenati da un filo rosso che percorre l’intero arco della produzione del grande poeta-scieziato tedesco.
Nasce a questo punto la questione di quale sia il retroterra sapienziale al quale Goethe attinge e intorno al quale va a costruire la sua concezione del mondo. Ma soprattutto: quali alternative ed aperture può offrire la sua visione alle irrequietezze conoscitive della mentalità contemporanea.
E’ evidente che per rispondere a domande di questo tipo non basta un’esplorazione esterna e formale della sua opera; è invece necessario chiamare in causa una prospettiva di profondità, sempre che con essa si voglia concepire un modo particolare di filosofare e cioè un filosofare interessato a “toccare” la vita e non soltanto a discutere intorno ad essa.
Le tesi che oggi considerano la produzione di Goethe come un insieme sono finalmente maggiori rispetto a quelle che si ostinano a ritenere la sua opera scientifica come opera di second’ordine, priva di dignità scientifica, e ascrivibile nell’orbita di quella Naturphilosohie idealistico-romantica, in cui si cimentavano gli eruditi dell’epoca. Vittorio Mathieu ha recentemente sottoscritto questa tendenza con il suo interessante libro Goethe e il suo diavolo custode in cui riconosce al nostro autore una rilevante portata filosofica nella concezione della natura e del cosmo[4]. Ciò non di meno, lo sbarramento che fino ad oggi ha osteggiato questa tendenza ha sicuramente contribuito a rallentare la comprensione dell’orizzonte intellettuale goethiano e ciò principalmente per il fatto che l’osservazione della natura e l’indagine scientifica, hanno impegnato il poeta di Weimar per gran parte della sua vita e sono forse da considerarsi come le attività principali, sulle quali gravita la quasi totalità dei suoi interessi. Per mettere nel giusto rilievo questo punto potremmo paragonare il destino letterario del nostro poeta a quello di un altro grande personaggio, L. Tolstoij, di cui è quasi totalmente ignorata invece l’opera religiosa. A detta dello stesso Tolstoij, le sue opere narrative erano da lui ritenute trascurabili rispetto agli scritti a carattere religioso e filosofico:
“Gli uomini, che mi odiano per le loro opinioni quasi-religiose che io ho distrutto, mi amano per quelle sciocchezze (Guerra e pace e simili), che sembrano loro importanti» (Diari, 6 dicembre 1908). [Tolstoij] Riteneva infatti che quelle opere narrative fossero servite solo ad attirare l’attenzione su quanto avrebbe scritto dopo. E soleva dire, scherzando, che le sue vecchie opere erano tutte chiacchiere da imbonitore da fiera davanti al baraccone e che servivano unicamente ad attirare la gente, là dove sarebbe stato mostrato qualcosa di ben diverso. (Sklovshij, Op. cit. p. 558)”.[5]
Gli scritti scientifici di Goethe sono quindi da considerarsi come parte integrante di un intero, e come tali sono imprescindibili per la completa comprensione della sua opera. Anzi, il versante scientifico si presenta come polo esperenziale di quella medesima aspirazione conoscitiva che si ritrova anche alla base delle concezioni proprie dei trattati letterari, i quali, a loro volta, si palesano come una rivisitazione di dottrine a carattere prettamente ermetico, completando così il quadro dinamico di una specifica cognizione del mondo. Infatti, la dottrina che sta alla base del primo gruppo di lavori non è in sostanza dissimile da quello che si ritrova nel secondo: in entrambi domina come esigenza principale quella di conoscere “Was die Welt im innersten zusammenhält”, ossia ciò che nel suo intimo tiene insieme il mondo.[6] Di particolare rilievo è questo “im innersten”, questa “intimità” e profondità del dato mondano il cui rimando alla radice ontologica è del tutto evidente. Basterebbe questo breve verso del Urfaust per riconoscere il Grundton della ricerca goethiana e per quale cammino essa si instradi.
Un altro punto importante per il tema della nostra indagine è il ricorrente riferimento di Goethe alla dottrina della sympatheia universale delle cose, secondo cui legami misteriosi uniscono e collegano tutti gli elementi del cosmo, inanimato e animato. Pensiamo per esempio alle Affinità elettive e come in questo scritto siano già presenti le idee fondamentali che egli aveva della scienza alchimica.
Il pensiero goethiano ha sicuramente degli antecedenti nella filosofia presocratica, non manca a questo proposito la testimonianza dei libri nella sua vasta biblioteca di Weimar, oltre alle indicazioni sulle letture che lui stesso ci ha lasciato nella sua opera biografica Dichtung und Wharheit. Queste indicazioni ci informano però solo in minima parte sul grado di approfondimento con cui Goethe si è avvicinato alle differenti correnti che ha esplorato. Per saperne di più è necessario ricavare direttamente dalla lettura delle sue pagine le fonti da cui può aver attinto, cercando di dare così un volto al tessuto dottrinale che si intravede in controluce.
Così operando, nell’osservare obbiettivamente il contesto presuppositivo entro cui si svolge il suo pensiero, non sarà difficile riconoscere da un lato un chiaro riferimento sia alla tradizione neoplatonica - e alle sue derivazioni rinascimentali - e dall’altro un altrettanto chiaro interesse verso le più recenti acquisizioni della moderna ricerca filosofico-scientifica. Tra le grandi figure del passato egli si ispira sicuramente a Plotino per la concezione della conoscenza intuitiva e per la visione dinamica del concetto di idea; a Eraclito, a Bruno, a Paracelso, a Böhme, a Spinoza e naturalmente alla tradizione ermetica. In una lettera a Langer del 1770, così si esprime:
“... caro Langer, è una vera gioia quando si è giovani e si è compresa l’insufficienza della maggior parte dell’erudizione, incontrare un tale tesoro. Oh, la lista è lunga... dalla Tavola di Ermete Trismegisto al Musarion di Wieland.”[7]
A questi autori e correnti Goethe si accosta, oltre che dottrinalmente, anche per un altro verso: per il modo di concepire e di fare [filo]sofia non di scuola. Tra i contemporanei invece si avvicina a Herder e a Schelling (ovviamente con tutti i distinguo e le puntualizzazioni del caso). Da Kant ereditò l’esigenza di una conoscenza non svincolata di dati dell’esperienza, ma si separò nettamente da lui riguardo alla visione finalistica della natura. Soprattutto si distanziò da quel trascendentalismo gnoseologico che si sviluppò da una certa radicalizzazione del pensiero kantiano, animante tutta la Naturphilosophie di impianto idealistico-romantico. In sintesi possiamo affermare che se da un lato il nucleo concettuale del pensiero di Goethe si fonda su categorie filosofiche attinte dal corredo di tradizioni antiche, quali per esempio le nozioni di “idea”, di “forma”, di “archetipo”, di “forze formative sperimentabili” e di “polarità”; dall’altro, l’intera sua dottrina conoscitiva poggia sulla base osservativo-empirica del moderno metodo delle scienze della natura. Lungo questa via Goethe riattualizza un modo particolare di porre i problemi centrali relativi alla conoscenza, caratteristico del filosofare di stampo antico ripensandoli però mediante lo spettro categoriale del pensiero scientifico moderno. Questo gli permette di configurare le sue intuizioni nel quadro strutturale di una epistemologia formalmente adeguata. Per questa particolare impostazione possiamo dire che il Poeta si pone sulla linea filosofica che vede in Bruno uno dei massimi e più rappresentativi capiscuola moderni.
Ho avvicinato il nome di Goethe a quello di Bruno e la cosa potrebbe sembrare forse un po’ forzata. Questo accostamento è però meno difficile da operare di quanto a prima vista possa sembrare; anzi, se vogliamo parlare di una filosofia ermetica in Goethe non è errato affermare che egli ne abbia proprio una concezione per certi versi rinascimentale e bruniana in particolare. Per Bruno infatti la filosofia acquista significato solo se viene posta come fondamento in grado di “effettuare la perfezione de l’intelletto”[8], ovvero, la perfezione dell’io conoscente, cosa che in Goethe si concretizza nel esercizio di quell’ “Anschauen” che gli permetterà, come fa dire al suo Faust, di afferrare con lo spirito “le cose più alte, le cose più profonde”.[9] Per entrambi si tratta in sintesi di realizzare un filosofare come contemplazione naturale dell’unità in grado di fondare ontologicamente l’atto conoscitivo individuale. A questo fine è però necessaria un’ascesi. Un ascetica intesa nel suo originario significato di “esercizio” additante quindi una tonalità schiettamente pratica e operativa di scienza sperimentale. Così configurata questa scienza non rimanda ad una semplice constatazione teorica della verità, bensì introduce la possibilità di un radicale rinnovamento della dimensione conoscitiva dell’uomo, tendente a coinvolgere non solo la parte logica ma l’intera sua sfera vitale. In sostanza essa rimanda ad uno sforzo di perfezionamento dell’essere, che si traduce in una conversione (revulsione) del suo stesso pensiero in un vero e proprio percepire pensante, avviandolo così verso un nuovo rapporto di causazione tra sé e il mondo. Questa nuova dimensione appercettiva coincide appunto in Goethe nell’ “Anschauen”, in quel vedere con gli “occhi dello spirito” che nei Furori bruniani equivale a scorgere Diana nella sua pura nudità.[10] Come si può notare anche se cambiano i termini la sostanza rimane essenzialmente la medesima.
Di questo modo di intendere la filosofia vi sono ovviamente testimonianze in pensatori anche più vicini al nostro tempo. Riporto il passo di uno di essi che mi sembra tra tutti il più appropriato per la nostra discussione e la cui connessione con Goethe non è affatto casuale.
Fuori dalle risoluzioni di matrice dichiaratamente religiosa P. Florenskij ci dà una magistrale spiegazione di ciò che la filosofia è. Nella sua opera principale così si esprime:
“La filosofia non è in grado di dedurre il fatto della verità; ma, se questo è un dato immediato della filosofia, questa ha il compito di indagare la proprietà, la composizione, la natura dell’uomo, cioè della verità data sì da Dio, ma nell’umanità e all’umanità. In altre parole, la questione della composizione formale della verità, della sua configurazione razionale è giustificata quando il contenuto sia la Verità stessa. [...] Per rispondere alla questione della struttura logica della verità, bisogna ricordare che la verità è verità intorno alla Verità e basta, cioè che è in qualche corrispondenza con la Verità. [...] la verità - prosegue il filosofo russo - deve necessariamente essere l’emblema di una qualche proprietà fondamentale della Verità, [...] - e - benché al di qua, deve essere in qualche modo al di là; con i colori del relativo deve disegnare l’assoluto; [...] Le opinioni umane cambiano da paese a paese di anno in anno, ma la verità è una sempre e dappertutto, e uguale a se stessa. [...] Ogni verità deve essere una formula non relativa”.[11]
Così, nell’ottica goethiana “pensiero” e “fenomeno”, “idea” e “dato dell’esperienza”, vengono considerati come elementi costitutivi e funzionali dell’ordine e della struttura stessa del reale e non separati dal rigido e devitalizzante schema di una metafisica dualistica come la lezione kantiana ha voluto intendere. Risulta da sé come da una visione di questo tipo discenda automaticamente la necessità di individuare uno spazio nuovo per il riconoscimento della verità, aprendo così il varco su quella problematica del pensiero goethiano che riguarda il complesso tema della simbolica. Il simbolo infatti si offre come chiave indispensabile per la comprensione di certi temi e nodi metodologici della sua opera che risulterebbero altrimenti impenetrabili al solo approccio logico-formale. In questo senso E. Zolla ha colto perfettamente nel segno quando suggerisce:
“A chi volesse cogliere nel vivo come si percepiscono simbolicamente le materie chimiche, consiglierei le conversazioni delle Affinità elettive di Goethe”[12].
Siamo quindi distanti dalla mentalità matrialistico-positivistica venuta prevalere nella cultura filosofica occidentale e una qualsiasi interpretazione del pensiero goethiano a partire dagli schemi cognitivi che questa stessa mentalità ha introdotto, rende vano ogni tentativo ermeneutico. Come ha ben evidenziato Pierre Hadot, un’interpretazione corretta può attuarsi solo nel momento in cui si è individuato il corpo di dottrine da cui il pensiero esaminato emana e il genere letterario al quale quest’ultimo appartiene.[13]
Ora, se la filosofia è anche e soprattutto una “testimonianza sul mondo spirituale”[14], allora Goethe, per quanto si è visto, rientra a pieno titolo nell’antico modo di fare filosofia. Ed è proprio da questo modo che bisogna partire per comprendere il nucleo fondativo del suo pensiero, stando però attenti a non confondere questo “fare filosofia” con una semplice retrocessione nostalgica a un tipo di riflessione che per molti versi non ci appartiene più. Il problema non è ragionare come ragionava Pitagora, ma ragionare come ragionerebbe Pitagora se fosse qui oggi.[15] Questa è la posta in gioco, e per quanto riguarda Goethe è bene metterla subito in evidenza.
Come abbiamo visto in lui c’è sicuramente una ripresa della problematica filosofico-ermetica, ma nell’istante stesso in cui viene accolta è immediatamente ripensata e sapientemente meditata alla luce della maturata esperienza moderna: Goethe è un pensatore antico che pensa modernamente. Così, se da un lato la sua filosofia si connota nell’accezione originaria del termine “[filo]sophia”, dove la sophia non viene frantumata nell’ansia discorsiva di un pensiero logico-dialettico ma cerca invece - come dice E. Garin a proposito del Pico - la fondata persuasione” in cui, “le muse [della filosofia] cantano nell’anima e parlano alle anime”; dall’altro essa è attenta a tutte le esigenze del pensiero moderno. Ecco come Goethe, nella magistrale capacità espressiva che lo contraddistingue, si inserisce nel pieno del dibattito culturale del suo tempo, esponendo le sue concezioni e le sue idee del mondo ora come termini di paragone per commentare il nascente programma scientifico-meccanicistico, ora per fondare i significati di una più vitale visione del reale.
Nel tracciare la sua “dottrina della metamorfosi”, il Poeta ha senz’altro arricchito la teoria della conoscenza di un’immagine dinamica della natura (soprattutto del mondo vegetale), che permette di coglierla come essere “sensibile-sovrasensibile”. Nel fare ciò egli ha però anche affrontato il problema cruciale dell’uomo moderno che, a partire dalla filosofia kantiana, diviene di principale attualità: l’esperienza del mondo e l’autocoscienza dell’io. Problema che Goethe affronterà in modo diverso, rifuggendo sempre rigorosamente dai metodi dei sistemi speculativi comuni alla filosofia del suo tempo. L’oggetto della sua ricerca non era il “divenuto”, ma era il “divenire”; non il “formato”, ma ciò che forma; non il caduco, ma ciò che è permanente. La legge formatrice, il divenire delle forma, il vivente primordiale, l’essere, questo interessava Goethe.[16]
A tale riguardo la critica ha spesso visto nelle sue tesi scientifiche la presenza di un elemento irrazionale. Questa osservazione poteva avere una sua ragione nel clima di una nascente scienza positivistica, ma oggi è necessario guardare a questo problema da un’altra prospettiva. In realtà Goethe opera quello che ermeticamente potremmo definire un “salto logico”, cioè l’attuazione di quel famoso lampo intuitivo (Excessus mentis), capace di cogliere nell’istante infinito l’unità nel molteplice. Questa facoltà è talmente connaturata e assolutamente aderente all’intima struttura della sua anima che egli probabilmente non riteneva opportuno doverne dare una qualche giustificazione filosofica. Come per noi è naturale afferrare qualcosa con le mani senza sentire l’esigenza di giustificarne il fatto teoricamente, così per lui è naturale volgersi all’intuizione di profondità del fenomeno senza con questo sentirsi in obbligo di spiegarne il meccanismo. Ciononostante, se vogliamo comprendere come Goethe realmente, e non fantasticamente, vedesse gli Urphänomena nel mondo, non possiamo esimerci dall’accennare, anche solo brevemente, a questo determinante passaggio (ermetico) del suo pensiero. Per l’impostazione di questo tema mi riaggancio nuovamente a Florenskij che dall’alto della sua genialità è in grado di sintetizzare meglio di ogni altro la questione. La chiarezza dottrinale di questo magnifico neoplatonico contemporaneo ci fornirà così la chiave per risalire all’assunto teorico che sta alla base di tutta l’attività conoscitiva del nostro poeta-scienziato. Trascurerò però di riportare le varie formule logico-matematiche e la lunga introduzione al problema, rimandando, per un maggiore approfondimento, al testo originale La Colonna e il fondamento della verità.
Nell’affrontare il grande problema della distinzione tra “ragione” e “raziocinio” il filosofo russo si ancora in più punti al pensiero di Goethe, soprattutto dove è maggiormente ribadita l’incapacità da parte del raziocinio di cogliere la “vita”.
“Ragione e scienza, suprema potenza dell’uomo”, sosterrà Goethe con vigore nel Faust.[17]
Ma “la ragione - afferma Florenskij - è contraria al raziocinio”[18]; di qui la distinzione tra una “filosofia del concetto” (raziocinio), cioè una “filosofia della cosa e dell’immobilismo senza vita”, e una filosofia “dell’idea e della ragione, cioè la filosofia della persona e dell’eroismo creativo”.[19]
Divenendo il concetto “criterio supremo” si rende “superflua ogni manifestazione di vita. Anzi, siccome non c’è vita commisurabile ad un concetto, ogni moto vitale inevitabilmente trascende i confini tracciati dal concetto e appare quindi dannoso, intollerabile”.[20]
Se così stanno le cose, se ne ricava immediatamente che l’idea di Urphänomen, che per Goethe esprime un’esperienza eminentemente vitale, non può essere di certo rappresentata mediante un contenuto concettuale preso a prestito dal mondo esterno. Per il suo valore, infatti, non ha alcuna importanza trovare un concetto che la significhi, quanto invece un simbolo che lo incarni.
Ora, movendo dallo spaccato delle due filosofie (quella del raziocinio e della ragione), Florenskij, dopo aver costatato che per il raziocinio la “verità è un’antinomia”, approda per forza logica alla dottrina della sua autonegazione.
L’unità - egli sostiene - può essere solo presagita dal raziocinio che sa soltanto teoricamente che c’è, ma non vi può in alcun modo accedere. Perché questa possa essere posseduta come realtà concretamente viva, è necessario che il pensiero varchi la soglia dell’attività razionale spostandosi verso il suo limite ideale in cui può incontrare la propria sorgente: l’Io.
E’ questa un’operazione del pensiero in cui, nel fornire esso stesso il terreno per la propria esperienza, si autosupera nel suo lato raziocinante e discorsivo per assidersi nel suo punto d’origine, cioè alla fonte stessa della propria sorgente.
Questo atto assoluto, come ha dimostrato Florenskij, è per sua natura un’attività inafferrabile per il razionalismo, perché è un’attività che di per sé è un atto “creativo” (nous pneumatico degli gnostici) in quanto si afferma come aggiunta “al dato di ciò che non è ancora dato”. E’ così che in quest’azione il pensiero supera le aporie della ragione elevando se stesso oltre la propria legge d’identità.
Da quanto è emerso possiamo quindi facilmente riconoscere che, distanziandosi radicalmente da ogni forma concettualistica, la visione goethiana si inserisce pienamente nella corrente di quella logica immaginativa che ha nella tradizione ermetica la sua espressione più originaria.
A questo proposito è senz’altro paradigmatico riportare l’episodio dell’incontro con Schiller alla “Società di scienze naturali” di Weimar.
Uscendo dall’edificio Schiller osservò come gli scienziati procedessero nelle loro argomentazioni mediante una logica frammentaria e sconnessa che rendeva difficile ogni tentativo di seguirli. Goethe, che fino a quel momento non aveva mai intrattenuto rapporti personali con lui, fu colpito da questa osservazione e propose una descrizione della propria visione della scienza. “C’è un altro modo - disse - per capire la natura, un modo attivo e vivente, partendo dal tutto per passare alle parti...”. Ma quando giunse ad esporre il nucleo fondamentale della propria dottrina spiegando come tutte le piante si sviluppino da un’unica “pianta originaria”, Schiller scosse la testa, e osservò: “Questa non è un’esperienza empirica, è solo un’idea”.[21] Ed è proprio in questo luogo, nelle concezioni di “idea”, di “archetipo” e di “fenomeno originario” (Urphänomen) che si nasconde uno dei punti nodali ed ermeticamente più interessanti delle teorie di Goethe.[22] Come si è visto, queste categorie non sono da lui intese come un’astrazione concettuale della mente, bensì come un aspetto radicale ed esperibile del reale. In questo modo possiamo considerarle come un’estensione della dottrina platonica delle idee interpretata però in senso dinamico. Ma in Goethe c’è anche una percezione dell’idea come essenza formale della cosa concepita nell’atto conoscitivo. Come viene in evidenza, da questa seconda angolazione Goethe si avvicina di più alla tradizione peripatetica. In sintesi, nel suo metodo le “idee” assumono un doppio carattere: esse funzionano sia come modello delle cose sia come oggetti conoscitivi qualificati. Questo modo di intrecciare le due tradizioni (platonica e aristotelica) non è certo nuovo in filosofia[23] e nel fare ciò, ancora una volta, il suo pensiero può essere coerentemente inquadrato lungo il solco della tradizione inaugurata da Bruno e risalente ai grandi maestri del neoplatonismo e del ermetismo classico.
[1] Come quelli apparsi dagli atti del convegno su Goethe scienziato.(Cfr. Giulio Giorello e Agnese Grieco, a cura di, Goethe scienziato, Einaudi editore, Torino 1998).
[2] Mirko Sladek, La Stella di Hermes, Mimesis Ermesiana, Milano 2005
[3] E’ bene precisare fin da subito che il termine “metafisica” non è qui inserito nell’ambito di una metafisica di tipo astrattivo. Quando si parla di metafisica in Goethe il termine deve essere riferito a una metafisica di tipo “concreto”.
[4] Vittorio Mathieu, Goethe e il suo diavolo custode, Adelphi, Milano 2002
[5] G. Gazzeri, Come Tolstoi leggeva se stesso, in L. Tolstoi, Il Regno di Dio è in voi, Publiprint (Tn) - Manca Editrice, Genova 1988, p. XXIX
[6] J.W. Goethe, Urfaust, in J. W. Goethe, Faust e Urfaust, Feltrinelli Editore, Milano 1999, vol. II., p. 674
[7] J. W. Goethe, Lettera a Langer, in Mirko Sladek, La Stella di Hermes, Mimesis Ermesiana, Milano 2005, p. 127, n. 4
[8] G. Bruno, De la causa, principio et uno, in Dialoghi italiani I, Sansoni edit., Firenze 1985
[9] J.W. Goethe, Faust e Urfaust, Feltrinelli Editore, Milano 1999, vol. I, p. 87
[10] Va ricordato che al di là degli aspetti mutuati dalla tradizione greca (identificazione di Diana con Artemide), che fanno di Diana la dea della caccia, per i latini essa è soprattutto la dea della luce come del resto è rivelato dal suo stesso nome “che contiene la medesima radice della parola dies”. (Cfr.Anna Ferrari, Dizionario di mitologia classica, TEA, Milano 1998, voce “Diana”, p. 95)
[11] Pavel Florenskij, La colonna e il fondamento della verità, Rusconi, Milano 1998, p. 192-3
[12] E. Zolla, Le meraviglie della natura, Marsilio, Venezia, 1991, p. 550
[13] Pierre Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, Einaudi, Torino 2005
[14] Pavel Florenskij, Le Porte Regali, Adelphi, Milano 1997, p. 174-5
[15] In ultima analisi ci è richiesto di operare lo stesso giro ermeneutico che gli antichi filosofi hanno compiuto nei confronti delle loro fonti misteriche: solo così è possibile mantenere vivo attraverso i tempi il corpo dottrinale di una sapienza. Autori come Rudolf Steiner e Massimo Scaligero hanno centrato gran parte della loro opera su questo tema mettendo in evidenza l’“adattamento” di un sapere antico al progressivo sviluppo animico dell’uomo. Questo è un nodo importantissimo cui prestare la massima attenzione perché anche se siamo di fronte a una scienza che per definizione è considerata perenne, ciò non significa che bisogna viverla in modo retrospettivo. Lo stesso Kremmerz condivide questa posizione quando sostiene di esplicare la magia “come concezione antica in rapporto alle conoscenze modernamente diffuse [...]” (G. Kremmerz, La Porta Ermetica in Opera Omnia, Editrice Universale di Roma, Roma 1954, vol. II, p. 219)
[16] Per il rapporto di Goethe con le forze magiche agenti in natura si veda l’interessantissimo libro di Ludwig Klages, Goethe come esploratore dell’anima, Mimesis, Milano 3003
[17] J.W.Goethe, Faust e Urfaust, Feltrinelli Editore, Milano 1999, vol. I, p. 91
[18] Pavel Florenskij, La Colonna e il fondamento della verità, Rusconi, Milano 1998, p.65
[19] Ivi, p.121
[20] Ivi, p. 38
[21] Rudolf Steiner, La concezione goethiana del mondo, Tilopa, Roma 1991, p. 17
[22] Considerato il carattere introduttivo di questo scritto, non mi è possibile approfondire in questa sede l’argomento dell’Urphänomena. Mi riservo di entrare più nello specifico in un prossimo studio
[23] Anche in Dante se ne ha un mirabile esempio