Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / La passione demoniaca di Heathcliff è la rivolta dell’infanzia contro la legge del mondo adulto

La passione demoniaca di Heathcliff è la rivolta dell’infanzia contro la legge del mondo adulto

di Francesco Lamendola - 11/03/2011



Parlando in generale, gli adulti tendono a sottovalutare eccessivamente - il che è come dire che tendono a dimenticare, dato che lo hanno vissuto - il trauma che il passaggio all’età adulta comporta per la dimensione sognante, assoluta, “romantica” dell’infanzia.
Si tratta di due mondi inconciliabili: da una parte, una realtà ove tutto è possibile, anche che il cavaliere dall’armatura scintillante giunga all’ultimo istante per salvare la fanciulla incatenata sulla roccia, mentre già il drago emerso dalle onde del mare si accinge a divorarla; dall’altra, una esistenza fatta di “idee chiare e distinte”, per dirla con Cartesio, ossia di lucida ragionevolezza, di ponderata mediocrità, di calcolante furbizia.
Da una parte la generosità assoluta, l’impulso come norma suprema dell’agire, il sentimento fantastico che non conosce ostacoli; dall’altra parte l’equilibrio, la misura, la pacatezza, in una parola: la morale, intesa nel suo significato prettamente sociale.
Come si vede, lo scontro fondamentale è quello fra la dimensione individuale e quella collettiva; fra le tendenze egoistiche, e perciò “immorali” del bambino, e quelle altruistiche, e perciò socialmente apprezzate, dell’individuo adulto, che è divenuto capace di sacrificarsi per gli altri.
Quante volte il bambino si sente ripetere, dagli adulti, che non deve comportarsi da egoista; che non deve credere che il mondo giri solamente attorno a lui; che deve fare spazio agli altri ed aprirsi alle loro esigenze, per esempio dividendo i suoi giocattoli - ossia le cose più intime e preziose che possieda al mondo - con il fratellino o con l’amichetto?
Beninteso, è giusto e necessario che gli adulti educhino il bambino ad uscire dal suo egoismo istintivo e a rendersi conto dell’esistenza dei bisogni degli altri; il problema è - a prescindere dai tempi e dai modi in cui ciò viene fatto - che l’adulto, forse per risarcire se stesso di una perdita irreparabile avvenuta nella propria infanzia, tende a trascurare la circostanza, innegabile e dolorosa, che per mezzo di una tale educazione alla moralità va perduta, per sempre, la fragranza di una dimensione inesprimibile, ineffabile, radiosa dell’età infantile: quel beato senso di assolutezza che fa aderire il mondo esterno all’io del bambino e che trasforma il primo in un felice prolungamento del secondo.
La cosiddetta felicità innocente del bambino è tutta qui: nella spontanea persuasione che fra lui e la realtà esterna non vi sia soluzione di continuità; che il mondo sia nato con lui e che coincida con lui; che con lui viva, respiri, osservi e si stupisca; che gli basti alzare una mano per raggiungere la luna, e che gli basti esprimere intensamente un desiderio per vederlo realizzato. Per il bambino, il diaframma della ragione e della volontà da essa educata, non esiste: sentimento e realtà sono un’unica cosa, e ciò che vi si oppone è il Male, è la “cattiveria”.
Per l’adulto, vale esattamente la regola contraria: il bambino che trasgredisce le norme è “cattivo”: il Bene è la legge - beninteso, la legge razionale del mondo adulto - ed il Male è la sua ignoranza, la sua trascuratezza o la sua trasgressione.
Tutto ciò sembrerebbe chiaro e ben definito; in pratica, invece, la faccenda si complica enormemente, per almeno due ragioni.
La prima è che gli adulti, quasi sempre, ignorano il vero impulso che li spinge a voler spegnere il più presto possibile il mondo beato dell’infanzia. E che altro è questa smania di abolire e desacralizzare il mondo delle fiabe, ivi compresa quella di Babbo Natale; di anticipare l’età scolare, allo scopo di rimpinzare la mente del bambino di nozioni da “grandi” (la lingua straniera, l’informatica); questo voler sovraccaricare l’agenda del bambino di mille e mille impegni, come fosse un piccolo adulto, se non la volontà inconscia, travestita con mille pretesti razionali, di vendicarsi per la violenza da essi medesimi subita, a suo tempo, con l’espropriazione del mondo incantato dell’infanzia?
La seconda ragione è che la polarità fra ciò che è Bene e Male per il bambino e ciò che lo è, al contrario, per l’adulto, scaturisce da una contraddizione che è insita nell’esistenza e, in quanto tale, fondamentalmente ineliminabile: la contraddizione fra il relativo e l’assoluto; da cui la grande difficoltà di trovare una ricomposizione delle loro opposte esigenze.
Ci spieghiamo meglio: il Bene, per il bambino, è ciò che coincide con la soddisfazione dei suoi impulsi, dei suoi desideri non (ancora) mediati dalla coscienza e dalla volontà; il Male è tutto ciò che si oppone alla loro soddisfazione. Il bene del bambino, dunque, è un bene relativo: coincide con ciò che è bene per lui, esclusivamente per lui.
Per l’adulto, il Bene è l’osservanza delle leggi sociali, il cui scopo è assicurare un vantaggio al maggior numero possibile di individui: sacrificando, necessariamente, quella minoranza che non riconosce un tale principio, ma anche - ecco il punto - quella parte di ciascun essere umano, ivi compresi i più accesi sostenitori della morale, che è rimasta bambina anche nell’età adulta e che soffre e protesta, perché avverte che le è stata fatta una terribile violenza.
La cosa diventa particolarmente chiara a proposito dell’amore: e chi ignora come il bambino sia realmente capace di amare, con tutto se stesso e con forza anche maggiore dell’adulto, si può dire che ignora tutto dell’essere umano.
Quando il bambino ama qualcuno, lo ama con la radicale totalità del suo essere; lo ama con la forza primigenia, intrepida, terribile, che nulla sa di ragionamenti e mediazioni: nessuna passione dell’età adulta potrebbe paragonarsi alla sua forza irresistibile.
Tuttavia quell’amore, il più delle volte, si rivela non solo irraggiungibile, ma anche proibito dalle leggi del mondo adulto: vuoi perché indirizzato verso un soggetto non appropriato (un genitore; una sorellina o un fratellino; una maestra o una baby sitter), vuoi perché talmente assoluto, da configgere con tutta una serie di altre norme, obblighi e divieti, primo fra tutti quello di comportarsi ragionevolmente, ossia da “bravo ometto” o da “brava donnina”.
Ciò determina un trauma. Il bambino ama, ma in silenzio; sente in se stesso una potenza misteriosa e fatale, incontrollabile: e tuttavia intuisce che non potrebbe confidarsi con gli adulti, né sperare da loro alcuna comprensione; al contrario, tutto ciò che essi gli chiedono è di fare come se in lui quella passione non esistesse neppure, di mostrarsi sempre ragionevole, collaborativo, vale a dire obbediente e remissivo.
Tutto questo corrisponde a una violenza, che il bambino vive in profondità.
Accade, pertanto, che il bambino violentato dalla Legge del mondo adulto, talvolta si rifiuti di arrendersi e di scomparire; che Pinocchio rifiuti di trasformarsi da burattino capriccioso ed egoista in un “bravo” bambino, serio e posato. Allora, nell’anima dell’adulto continua a bruciare, nascosto, l’incendio dell’amore infantile: un amore disperato, impossibile, perché respinto e condannato dal mondo intero; dunque, un amore autodistruttivo, di terribile potenza.
Tale è stato l’amore - un amore letteralmente diabolico, ma al tempo stesso divinamente tenero e appassionato - di Heathcliff per Catherine, nello straordinario romanzo «Wuthering Heights» («Cime tempestose») della scrittrice inglese Emily Brontë, pubblicato per la prima volta nel 1847, sotto lo pseudonimo di Ellis Bell.
Si tratta di un’opera che non finisce di stupire anche lo smaliziato lettore della post-modernità, per la sua straordinaria potenza drammatica e per la capacità di penetrazione psicologica mostrata dall’autrice, tanto più che fu scritto da una fanciulla che visse quieta e isolata, apparentemente ignara del mondo e della sua sottile, inestricabile complessità.
Lo scrittore, filosofo e antropologo francese Georges Bataille (1897-1962) aveva le idee ben chiare sul significato ultimo del dramma di Catherine e di Heathcliff: per lui, era - come nel teatro tragico greco - la trasgressione della legge; e, in particolare, la trasgressione della legge del mondo adulto, che la società identifica con il Bene, da parte dell’io bambino, libero e selvaggio, che rifiuta le convenzioni e le costrizioni e che vorrebbe prolungare indefinitamente la propria felice innocenza che, in ultima analisi, coincide con le ragioni della poesia, romanticamente intesa.
Scriveva, infatti, Bataille, a proposito del senso ultimo dello straordinario romanzo di Emily Brontë (da: G. Bataille, «La letteratura e il male», Parigi, Editions Gallimard, 1957, traduzione italiana di Andrea Zanzotto, Milano, Rizzoli, 1973; cit. in E. Brontë, «Cime tempestose», Milano, Rizzoli, 1978, 1991, pp. IV-XI):

«Se si eccettuano le forme sadiche del vizio, il Male, come si incarna nel libro di Emily Brontë, appare forse nella sua forma più perfetta. […]
Per rappresentare meglio il quadro del Bene e del Male, risalirò alla situazione fondamentale di “Wuthering Heights”, all’infanzia, da cui prende inizio nella sua interezza l’amore  di Catherine e Heathcliff. È la vita, passata in corse selvagge nella landa,  dei due ragazzi abbandonati a se stessi, liberi da ogni costrizione, e da ogni convenzione (eccettuata quella che vieta i giochi della sensualità: ma, nella sua innocenza, l’amore indistruttibile dei due ragazzi  si poneva su un altro piano). E forse questo amore non era altro che la decisione di non rinunciare alla libertà di un’infanzia selvaggia, non corretta dalle norme della socievolezza e dell’educazione convenzionale.  Le condizioni di questa vita selvaggia (al di fuori del mondo) sono elementari. Emily Brontë ce ne rende sensibili: sono le condizioni stesse della poesia, di una poesia senza premeditazione,, alla quale i due ragazzi non vollero negarsi. La società oppone al libero gioco dell’innocenza  la ragione che si fonda sul calcolo interessato, e la società si ordina in modo da renderne possibile la durata. La società non potrebbe sussistere se questi impulsi primordiali  dell’infanzia (quelli che avevano legato i due ragazzi  in un sentimento di complicità) potessero imporsi.  La costrizione sociale avrebbe richiesto a quei giovani liberi di perdere la loro innocente sovranità, di piegarsi alle convenzioni ragionate  degli adulti, cioè calcolate  in modo tale che ne risulti l’utile della collettività. […]
Il tema del libro è la rivolta dell’uomo maledetto, che il destino caccia dal suo regno, e che niente può ostacolare nel suo desiderio bruciante di ritrovare il regno perduto. Rinuncio a riportare nei particolari la successione degli episodi, che sono di una intensità affascinante. Mi limito a ricordare che non c’è legge, né forza, non c’è sentimento di pietà, né convenzione che freni per un istante il furore di Heathcliff: neanche la morte, perché Heathcliff, nella sua passione priva di rimorsi, è causa della malattia e della morte di Catherine,  che tuttavia egli pensa gli appartenga.
Mi soffermerò sul significato morale  della rivolta nata nella fantasia e nel sogno di Emily Brontë.
Questa rivolta è quella del Male contro il Bene. Essa è formalmente irragionevole. Che cos’è questo regno dell’infanzia, al quale la volontà demoniaca di Heatchcliff non vuol rinunciare? Non possono essere che L’IMPOSSIBILE e la morte. Contro questo mondo reale, dominato dalla ragione, fondato dalla volontà di sopravvivere, ci sono due possibilità di rivolta. La più comune, qui presente, si traduce nella contestazione del suo carattere “ragionevole”. È facile constatare che il principio di questo mondo reale non è  veramente la ragione, ma la ragione che si compone con l’arbitrario,  nato da violenze o da impulsi infantili del passato. Questa rivolta rende esplicita la rivolta del Bene contro il Male,  che è rappresentato da quelle violenze e da quei vani impulsi.  Heathcliff giudica il mondo cui si oppone: non può certo identificarlo col Bene, poiché lo combatte. Ma lo combatte, seppure rabbiosamente, con lucidità: s che esso rappresenta il bene e la ragione.  Odia l’umanità e la bontà, che eccitano in lui lo spirito sarcastico.  […]
In questa sua rivolta, non vi è legge che Heathcliff non si compiaccia d trasgredire. Egli si accorge che la cognata di Catherine è invaghita di lui:  senza esitazione la sposa, per poter procurare al marito di Catherine il maggior danno possibile.  La porta con sé e, subito dopo le nozze, se ne fa gioco; infine senza averne il minio riguardo, la riduce alla disperazione. Giustamente Jacques Blondel ravvicina le seguenti due fasi di Sade e di Emily Brontë. Sade fa dire a uno degli aguzzini di Justine:  “Che azione voluttuosa la distruzione! Non ne conosco altre che solletichino in modo più delizioso: non c’è estasi paragonabile a quella che si prova quando ci si abbandona a questa divina infamia”. Emily Brontë da parte sua fa dire a Heatchliff:  “Se fossi nato in un paese in cui le leggi sono meno rigorose e i gusti meno delicati, mi concederei la gioia di procedere a una lenta vivisezione di questi due esseri, per passare una serata divertente”. […]
L’invenzione, da parte di una buona ragazza, morale e senza esperienze, di un personaggio così perfettamente  consacrato al male, rappresenterebbe di per sé un paradosso. Ma ecco il motivo per il quale, soprattutto, l’invenzione del personaggio di Heathcliff è conturbante.  La figura di Catherine Hearnshaw è essa stessa morale in modo assoluto. Lo è fino  morire per non potersi distaccare da colui che amava fin da bambina. Ma pur sapendo che il Male è profondamente radicato in lui, lo ama al punto da dire di lui la frase decisiva: “I AM HEATHCLIFF” (io sono Heathcliff”). In tal modo il Male, considerato autenticamente, non è soltanto il sogno del malvagio, ma è in un certo senso il sogno del Bene. La morte è la punizione cercata, accettata, di questo sogno privo di senso., ma nulla può impedire che questo sogno venga sognato. Ciò avvenne a Catherine Hearnshaw; e bisogna dire che, nella stessa misura, avvenne a Emily Brontë. Non vi è dubbio che Emily Brontë, morta per avere vissuto gli stati psicologici che ha descritto,  si è in un certo modo identificata con Catherine Hearnshaw. […]
In “Wuthering Heights” come nella tragedia greca, la legge non è denunciata per se stessa, ma ma ciò che essa interdice non è una zona estranea all’uomo.  La zona è interdetta è quella tragica, o meglio sacra. L’umanità la  esclude, è verro, ma per magnificarla. Essa subordina questo accesso all’espiazione - alla morte - ma resta ugualmente come invito, oltre che come ostacolo. “Wuthering Heights”, la tragedia greca - e, in modo più ampio, ogni religione - insegnano l’esistenza di un impulso di divina ebbrezza, che il mondo ragionato del calcolo non può sopportare.  Questo impulso è il contrario del Bene. Il Bene è fondato  sulla preoccupazione dell’interesse comune ed implica quindi, in modo essenziale, che si prenda in considerazione il futuro. La divina ebbrezza, che è imparentata con lo slancio primordiale” dell’infanzia,  è invece tutta nel presente. […]
All’origine della sfida morale che IN PRIMO LUOGO è il senso di Wuthering Heights”, vi è una ipermorale.  […] Jacques Blondel dimostra di avere il giusto senso di questa relazione. “Emily Brontë - scrive - si rivela capace di un affrancamento che la libera da ogni pregiudizio di ordine etico e sociale.  Così si sviluppano diverse vite, come in un fascio, e ciascuna, se si pensa ai principali antagonisti del dramma, traduce una totale liberazione di fronte alla società e alla morale.  C’è una volontà di riottura col mondo, per meglio cogliere la vita nella sua pienezza  e scoprire nella creazione artistica ciò che la società rifiuta. È il risveglio, la vera utilizzazione di virtualità ancora insospettate.  È incontestabile che questa liberazione è necessaria ad ogni artista; ESSA PUÒ ESSERE PROVATA IN FORMA PIÙ INTENSA DA COLORO NEI QUALI I VAORI ETICI SONO PIÙ TENACEMENTE RADICATI.” Infine questo accordo intimo tra la trasgressione della legge morale e l’ipermorale è il SIGNIFICATO ULTIMO di “Wuthering Heights”. […]
Nel cristianesimo vi è un equivoco fra Dio e la ragione, equivoco che del resto suscita un senso di malessere;  da cui lo sforzo in senso contrario, per esempio, del giansenismo.  Ciò che, al termine del lungo equivoco cristiano, prorompe nell’atteggiamento di Emily Brontë, sull’attivo sfondo di una solidità morale intangibile, è il sogno di una violenza sacra che nessuna composizione, nessun accordo con la società organizzata potrebbero attenuare.
Si ritrova in questo modo, NELL’ORRORE DELL’ESPIAZIONE,  la via del regno dell’infanzia i cui impulsi nascono dalla semplicità e dall’innocenza.
E si ritrova la purezza dell’amore nella sua verità intima che, come ho detto, è quella della morte.
La morte e l’ISTANTE di una ebbrezza divina coincidono ne fato che ambedue si oppongono alle intenzioni del Bene, fondate sul calcolo della ragione.»

Anche se il ragionamento di Bataille, per certi versi, tende a schematizzare troppo gli elementi in gioco, ci sembra il filosofo francese, nel complesso, abbia saputo vedere molto a fondo nelle dinamiche che si creano sotto le spinte contrastanti del senso morale e dell’esigenza di soddisfare i propri impulsi più imperiosi, specie in campo sessuale.
Ma là dove ha saputo vedere più lontano, non è tanto nell’analisi della personalità, tutto sommato lineare e coerente, di Heathcliff, quanto in quella più complessa di Catherine, e, più in particolare, nel corto circuito che viene a crearsi tra la sua fedeltà incondizionata all’amore per Heathcliff, di cui pure ha riconosciuto il lato diabolico, e il bisogno di auto-punizione per aver ceduto a quel richiamo e aver trasgredito alla legge del Bene: un rimorso che finisce per distruggerla.
Nel delineare il dramma di Catherine, più ancora che in quello di Heathcliff, Emily Brontë - che, senza dubbio, si è identificata con la sua eroina, ma, in parte (Jung avrebbe detto: con il suo “animus”), anche con Heathcliff - è stata superba: lei, la figlia del curato di campagna, zitella e inesperta della vita, morta di tubercolosi a soli trent’anni.
E anche Bataille è stato eccezionalmente acuto nello scandagliare quel dramma nascosto, quel dramma cifrato, simile ad un messaggio infilato in una bottiglia e affidato alle onde del mare, affinché qualcuno, prima o dopo, lo trovasse, lo leggesse e riuscisse a comprenderne tutta la sconvolgente portata.