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Nell'occhio del ciclone, giace la quiete dell'essere

di Eduardo Zarelli - 11/03/2011

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L’ecologia nasce nella seconda metà del XIX secolo su basi positiviste, definendosi come conoscenza delle relazioni dell’organismo con l’ambiente. Indipendentemente dall’evoluzione culturale del termine, il calco scientifico delle origini si conserva nell’ambientalismo contemporaneo ove l’uomo, dualisticamente, preserva se stesso senza mutare l’approccio relazionale con la natura. Tutto passa quindi dal modo di intendere quest’ultima in senso ontologico (il suo essere in quanto tale) e assiologico (il suo bene in funzione dei propri fini). La “natura” ha una essenza relazionata vivente che la eleva a un significato superiore della semplice somma delle parti di cui spiega il nesso. La radice greca del termine phùsis non indica la natura come una somma di fenomeni (flora, fauna, mondo organico ed inorganico) ma come il principio di manifestazione che ne determina la generazione ed il movimento. Il termine ambiente (ambiens, andare attorno), invece, esplica “ciò che sta attorno” all’uomo, e quindi delimita il campo dei fenomeni a ciò che può utilizzare strumentalmente.
Storicamente, la diffusione sociale e politica dell’ecologismo si ebbe tra gli anni sessanta e settanta del novecento, quando le conseguenze dell’inquinamento si fecero esplicite con le produzioni e il consumismo di massa. L’autrice di riferimento fu Rachel Carson, con la denuncia della "primavera silenziosa", riferita alla dissolvenza del frinire nei campi monocolturali dell’agricoltura industriale, irrorati di antiparassitari. Una vera svolta culturale e di consapevolezza esistenziale si avrà però tra gli anni settanta e gli anni ottanta con la cosiddetta ecologia del profondo. È un riferimento generico, che accomuna pensatori eterogenei come Wendel Berry, Edward Goldsmith, Barry Commoner, Arne Naess, Gary Snyder. Con sensibilità diverse, identificano il “valore intrinseco” della natura, criticando la saturazione industriale dell’habitat. L’uomo, è inteso olisticamente come parte di un tutto relazionale, per cui la natura va protetta di per sé, per il suo valore intrinseco, indipendentemente dall’utilità strumentale. Se arrechiamo danni alla natura, danneggiamo noi stessi, occorre quindi agire sulle cause, invece che sugli effetti. In questa consapevolezza non c’è tanto uno slancio utopico, quanto la riattualizzazione dell'antico, dell' arcaico: la comprensione della saggezza della Terra e degli equilibri ecosistemici, del rapporto di simbiosi omeostatica del vivente. Le forme più radicali di tale approccio arrivano ad immaginare la preservazione della natura come sua inibizione all’uomo, subendo nevroticamente il dualismo cartesiano all'origine della stessa modernità, quasi che non esistesse alcun rapporto possibile con la natura, se non quello dello sfruttamento meccanicistico o della contemplazione ascetica, mentre la questione antropologica si pone nella ricomposizione della frattura tra cultura e natura. Il rispetto del vivente non implica l’eguaglianza indifferenziata tra uomo, mondo animale, mondo vegetale e mondo minerale, ma la consapevolezza della diversa ma relazionata manifestazione dell’essere.  
Il pensatore transalpino Alain de Benoist è molto sensibile alla critica ecologista della società dei consumi. La sua visione pluralistica e differenzialista nasce per reazione all’omogeneizzazione totalitaria della modernità. La difesa delle identità culturali e della dignità della persona, aggredite dall’omogeneizzazione tecnologica e dalla mercificazione utilitaristica, fa tutt’uno con l’esortazione a modelli di sobrietà etica e sostenibilità economica. Da questa angolazione de Benoist si distingue da un indistinto “biocentrismo” panteista, che risalta nelle posizioni del radicalismo naturalistico. Non introducendo alcun elemento di differenziazione all’interno del mondo vivente, ossia nel cosmo, esso tende, in effetti, a cancellare tutte le specificità umane per riversarsi in una nuova forma di universalismo astratto. Alain de Benoist ritiene altresì centrale la dimensione “politico-antropologica” dell’agire umano. Il semplice fatto che l’uomo sia in grado di porsi il problema delle sue responsabilità nei confronti della natura dimostra che egli occupa un posto particolare, e non indistinto, nel mondo vivente. Nessun’altra specie è in grado di porsi un tale problema. L’uomo se lo pone non tanto perché egli è il solo a mettere in pericolo la natura, quanto perché è il solo a cogliere le remote conseguenze delle proprie azioni grazie a una coscienza riflessa che costituisce in lui una "seconda natura" e la fonte della sua proiezione sociale. Denunciare l’antropocentrismo, e con esso l’idea che la natura sia altro da una risorsa interamente destinata all'avidità umana, è dunque fondamentale, ma ignorare le modalità specifiche della presenza umana nel mondo ci fa cadere nell’eccesso opposto. In tal senso si può intendere la dichiarata riconoscenza di de Benoist al pensiero dell’ultimo Heidegger, nella misura in cui esso porta a riconoscere allo stesso tempo il primato del dato naturale e la sua alterità culturale. La "natura" non è né la stessa cosa dell’uomo, né qualcosa che si oppone all’uomo. Essa è, si potrebbe dire, l’Altro dall’uomo - questo Altro che partecipa della definizione dell’uomo senza riassumerlo interamente. La cultura non esiste senza natura, ma al tempo stesso se ne differenzia appropriatamente finché ne riconosce la matrice. Fondamentale quindi è intendere il ruolo della tecnica. La meditazione di Martin Heidegger in merito è ancora di straordinaria attualità in quanto tende a configurarsi come un pensiero non tecnico sulla tecnica, avente quindi per oggetto l’essenza "non-tecnica" della tecnica.
Heidegger distingue la tecnica pro-duttiva - degli antichi Greci - la quale favorisce il corso/flusso della natura, senza forzarla, impiegando l’energia senza ostacolarla, dalla tecnica pro-vocativa -quella moderna - che sfrutta la natura forzandola, in quanto estrae energia da accumulare e impiegare dissipandola. L’essenza della tecnica è quindi Gestell (letteralmente "scaffale"), la totalità del porre tecnico e dei suoi processi di ordinamento. Se asservita alla volontà di potenza antropocentrica, spinge l'uomo a porre le cose come oggetto di manipolazione, in un circolo nichilistico alienato (deietto) e illimitato. Ma Heidegger non si sottrae bucolicamente dall'incedere del reale e ritiene che la tecnica sia anche "disvelamento", porta cioè alla luce qualcosa che prima era celato, non dipendendo da un’iniziativa titanicamente volontaristica, ma dall’essere e il suo destino. Lo smarrimento dell’essenza della tecnica è quindi dovuto all’atteggiamento dell’uomo, che forza soggettivisticamente la realtà, in cui l’essere viene disconosciuto, rinunciando alla sua essenza di pastore dell’essere e custode della verità. Al tempo stesso, proprio perché la tecnica è disvelamento, se ritrova l’appropriatezza all’essere, si manifesterà in modo veritativo, compiuto e aderente al suo destino. Quando si evoca un mutamento paradigmatico, una metanoia per ricomporre il divorzio tra natura e cultura, stiamo quindi parlando - più o meno consapevolmente - in termini affini alla riflessione Heideggeriana sull'oltrepassamento della linea orizzontale del nichilismo occidentale. Per oltrepassare la tecnica è indispensabile lasciare che la tecnica si dispieghi in tutte le sue potenzialità. In questo destino della tecnica, paradossalmente, si raccolgono le risorse ancora integre, per poter mantenere l'equilibrio nel vortice che la mobilitazione della tecnica ha scatenato. Vi è un motore immobile nella spirale del divenire, che può ridare limite e appropriatezza nella prospettiva dell'essere.