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Piccola, splendida città sospesa fra le nuvole e l’orizzonte

di Francesco Lamendola - 12/03/2011





Una volta ci eravamo chiesti che cosa voglia dire, esattamente, sentirsi appartenenti a un luogo, a un territorio, a una civiltà, usando quest’ultima parola nel significato più circoscritto, ma forse anche più giusto, di complesso delle tradizioni locali.
Ebbene, la risposta la si può trovare solo nel profondo della propria anima, e non in qualche vocabolario d’italiano o, peggio, in qualche libro di storia o di filosofia; né, orrore degli orrori, in qualche sterilizzato e pragmatico manuale di sociologia.
È difficile da tradurre in parole, ma è chiarissima per quanti sappiano fare silenzio in se stessi e porsi nella condizione adatta per l’ascolto: una condizione molto simile alla devozione, se non al vero e proprio raccogliemmo religioso.
Quando l’insieme delle pietre, delle piante, della luce, dei paesaggi, della lingua, degli odori, dei suoni, della cucina, parla direttamente all’anima; quando tutte queste cose: ricordi, emozioni, sensazioni, pensieri, consapevolezza, memoria, rispetto filiale, affetto sincero e spontaneo, quando tutte queste cose fanno groppo in gola, e la stringono, in uno struggimento che arriva quasi fino alle lacrime: allora sai di aver trovato la risposta.
Certo, è anche la memoria, perché il legame con la terra in cui si è nati è profondo come quello con la propria madre; ma non è solo la memoria: è molto, molto di più; abbraccia il passato, il presente, il futuro, per la vita e per la morte - e anche oltre.
È il profilo di un campanile, che svetta alto nel cielo limpido, visibile da chilometri di distanza nella pianura verdeggiante.
È la linea delle montagne che si innalzano a settentrione, severe, innevate, gloriose, cariche di promesse e di nostalgia.
È il sentiero cosparso di felci del sottobosco, ombroso ed amico come un grembo materno, umido e fresco come se fosse appena uscito dalla mano del Creatore.
È l’immagine di un santo sulla parete di un pilastro, al centro di una chiesa antica di almeno sette secoli, che ti guarda intensamente, come se fosse vivo e presente.
È la cavalcata delle nuvole al tramonto, rosse come fuoco, simili ad un esercito selvaggio lanciato a corsa pazza,verso le ultime scintille dorate del ponente.
È la voce amica del torrente, che corre e canta e ride fra i sassi del greto; una voce che cambia secondo le stagioni e che si potrebbe riconoscere benissimo anche ad occhi chiusi.
È il profumo di polenta calda e di pannocchie abbrustolite che si spande nella sera d’autunno e ti morde e ti fruga l’anima, come la voce di tua madre lontana.
È l’aria fredda dell’inverno che irrompe nei polmoni da misteriose lontananze, portando con sé il ricordo delle montagne, dei tramonti, delle foreste di pini e di abeti.
È un muro di mattoni rivestito d’edera; una vecchia insegna di osteria, sopravvissuta, chissà come, al dilagare del moderno; un cortile interno che si apre d’improvviso, tenero e nascosto.
È una stella che si accende nel crepuscolo di marzo, alta e ammiccante; il profumo caldo di letame che si sprigiona da una stalla, accompagnato dal dolce trepestio degli zoccoli; un lume che si spegne alla finestra del vicolo in discesa.
È il ricordo di una sera lontana, nell’infanzia; di un cartoccio di caldarroste così bollenti, che ti scottano le mani; del profumo di primavera che il vento dell’inverno, chi sa come, porta con sé fugacemente, e ti sembra che sia stata un’illusione.
È un balcone di legno con i vasi dei gerani alle finestre; una taverna piena di uomini e donne che parlano, fumano, scherzano, giocano a carte, sfogliano il giornale; è il pensiero improvviso, folgorante, carico di consolazione, che i tuoi passi ti riporteranno a casa, sempre, per quanto tu ti possa allontanare.
È l’odore intenso della vernice fresca che viene da una casa con le porte aperte; il profumo del rosmarino che si spande da una siepe lungo la strada; il sapore di un buon bicchiere di vino bianco, secco e fresco, maschio come la terra da cui proviene.
Queste cose sentivo l’altra sera, nell’ultimo raggio di luce di un giorno di marzo ancora umido e freddo, dopo una lunghissima camminata incominciata nelle prime ore del pomeriggio, fra cari luoghi e cari ricordi.
Mi trovavo a percorrere i vicoli e le stradine in discesa che snodano il loro intrico medievale dietro la mole solenne del duomo della piccola, splendida città friulana, sospesa fra le nuvole e l’orizzonte, nel magico momento che precede il crepuscolo.
Forse i suoi abitanti si risentirebbero della definizione di “piccola”: ma è un termine affettuoso; beata una città che non supera, o supera di pochissimo, le cinquantamila anime, perché le è consentito di conservare un volto umano.
Eppure sono in molti quelli che, venendo da fuori e vistandola superficialmente, ne restano delusi; dicono: «Tutto qui? Ci avevano descritto chissà cosa; invece, non è nulla di speciale. Anzi, per dirla tutta, l’abbiamo trovata pure un po’ bruttina».
Sì, è vero: cresciuta molto in fretta, forse troppo, per l’esplosione industriale degli anni Cinquanta e Sessanta, è diventata capoluogo di provincia quasi di colpo; non ha letteralmente avuto il tempo di farsi bella.
Eppure, bisogna imparare a girarla bene, a saper vedere la sua bellezza un po’ nascosta, un po’ recalcitrante, come quella di certe ragazze, scontrose per pudore e timidezza.
Allora si potranno scoprire i suoi tesori inaspettati, grandi e piccoli: le facciate dei palazzi, i portici, i balconi, le botteghe lunghe e strette con i due banconi ai lati, i giardini, i laghetti, le fontane, le sponde alberate e verdeggianti del suo fiume che portano il respiro fresco della natura fin quasi dentro il cuore cittadino.
Ci vogliono pazienza, e soprattutto amore: come per conoscere un essere umano, se non lo si vuole giudicare in fretta; se si spera di riuscire a gettare almeno un fuggevole sguardo verso le profondità abissali della sua anima.
E poi, lo confesso, percorrendo le sue strette stradicciole presso il fiume, mi giungeva come l’incanto profumato di un altro tempo, di un’altra città, carissima al mio cuore, più grande e più lontana, che giace laggiù, a oriente, e che da tanti anni non ho più rivisto, non ho più voluto rivedere, temendo di trovarla troppo cambiata, irriconoscibile.
Muri antichi, pavimenti acciottolati, portici e cortili: ed ecco, d’improvviso, lo slargo e la facciata nobilmente austera del glorioso edificio sacro, che si innalza di qualche metro sul piano della contrada maggiore, là dove essa prende quasi la rincorsa per scendere  precipizio verso la riva del fiume, ove sorgeva il porto, ora scomparso, che la collegava all’Adriatico lontano e che le diede il nome.
L’interno del duomo è bianchissimo, di uno stile settecentesco sobrio e tuttavia elegante, in linea con la classica essenzialità delle superfici esterne.
Dall’organo maestoso che svetta sulla controfacciata, al pulpito di legno scolpito, dipinto anch’esso di bianco,  alla cappella del Santissimo, sempre bianca, piena di stucchi che non l’appesantiscono, ma, al contrario, le conferiscono una sveltezza ed una levità quasi aeree: ovunque lo sguardo si volga, non incontra che forme e superfici incantate, opere di pura bellezza e di robusta fede.
Il grande pittore che ha dipinto la stupenda pala della Misericordia e che ha affrescato il pilastro ottagonale, ha rappresentato su quest’ultimo anche se stesso, sotto le spoglie di un San Rocco dalla figura atletica e dal sorriso accattivante.
Esco dal tempio divenuto anch’io più leggero, come se tutto quel biancore, tutta quella grazia, mi avessero tolto un po’ della pesante materialità quotidiana.
C’è ancora tempo per vedere o rivedere tante cose; anche per un tuffo fra i quadri e le sculture del museo civico; anche per una corsa lungo i saloni del museo di storia naturale, fra un mammut a grandezza naturale e una serie di diorami affascinanti.
La biblioteca non è più dov’era un tempo, nel palazzo del vecchio Monte di Pietà; ora è stata trasferita in una sede più ampia e più centrale, in un grandioso edificio tutto bianco che, un tempo, era il convento dei padri domenicani.
Quante cose cambiano, quante cose passano.
Nelle vie del centro, ad eccezione della Calmaggiore, si stenta a riconoscere l’aspetto di un tempo non troppo lontano: il progresso, il benessere, hanno steso ovunque una patina di modernità e di consumismo.
Mi chiedo quante di queste persone, che si affollano davanti alle vetrine e nei negozi alla moda, conservino la memoria delle proprie radici; e quante, invece, siano state contagiate dalla smania di cambiare tutto, di rinnovare tutto, di tagliare i ponti col passato, quasi fosse un parente povero di cui ci si vergogna un poco e che non si ama nominare a tavola.
Nonostante l’aria fredda, qualcuno siede persino ai tavolini all’aperto dei locali, sorseggiando l’aperitivo.
Tutto il centro è stato trasformato in una grande isola pedonale e, se questo rende più riposante il passeggiare, conferisce però all’insieme un’aria sonnolenta e quasi trasandata, come di una villa i cui inquilini se ne siano andati, lasciando aperti, chissà perché, le porte ed i balconi.
Nel complesso, sembra che ci sia qualcosa che non quadra; Ungaretti direbbe: come in una decomposta fiera o come in un circo, che ha il languore che precede o che segue l’animazione dello spettacolo.
È ormai buio e tira un venticello fresco, mentre mi allontano verso la periferia; la luna è già alta nel cielo, ma velata dalla foschia, come in quadro di Caspar David Friedrich.
Le automobili sfrecciano veloci lungo il viale ancora intirizzito dall’inverno, con i rami spogli che attendono lo chiudersi delle prime gemme.
Quest’arietta umida e frizzante, che s’insinua sotto il bavero del giaccone, ha la simpatica e inattesa gagliardia delle ultime settimane invernali, quasi volesse far sentire a tutti la sua forza tutt’altro che esaurita, prima di andarsene quando lo vorrà, da gran signore.
E questa sera fredda, che pur sembra già voglia annunciare la bella stagione non lontana, mi ricorda un’altra sera di tanto tempo fa: quando, col cuore leggero di bambino, una sensazione altrettanto forte e indefinibile, altrettanto rara e struggente, m’invadeva l’anima.
Era la sensazione di appartenere a questi luoghi, a questa terra, a questa gente, per sempre: da prima della nascita e anche dopo la morte.
Allora come oggi: una ondata di piacere e quasi di fierezza, mista a una dolce malinconia, a una affettuosa complicità: come il legame che si crea con la persona che si ama e che si continuerà ad amare sempre, anche quando avrà i capelli bianchi, anche dopo che molto- forse - ci avrà delusi e fatto soffrire.
È un senso di fedeltà profonda, essenziale, che scende giù, fino alle radici dell’essere; il senso che noi siamo poca cosa, senza il legame con quei luoghi, con tutte quelle persone che ci hanno visto crescere: quelle che sono ancora quaggiù e quelle che sono ormai di là.
Noi possiamo anche andare in capo al mondo, ma sempre apparteniamo e sempre apparterremo a quei luoghi e a quelle persone: sempre, qualunque cosa accada.
Non li dimenticheremo mai, mai, perché essi vivono in noi, nel più profondo della nostra mente e del nostro cuore.
L’uomo moderno, vagabondo per necessità e per capriccio, si sposta da una casa all’altra, da una città all’altra, da un continente all’altro, come se fosse la cosa più naturale del mondo; ma naturale non lo è affatto.
Ben lo sapevano i nostri nonni che tornavano dai luoghi più lontani, magari dopo venti, trenta, quarant’anni di assenza: per costruirsi la casa, per essere seppelliti al paese natio.
Lo chiamavano il «il mâl dal madón», il «male del mattone»: con una nota di dolcezza nella voce.