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Lo stile di vita, la responsabilità e il bene comune

di Eduardo Zarelli - 25/03/2011

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Siate critici, andate controcorrente: salvate la Terra da un degrado irreversibile. Non sono parole scontate quelle pronunciate da Benedetto XVI: «la crisi economica in atto va presa in tutta la sua serietà», ammonisce «essa ha numerose cause e manda un forte richiamo ad una revisione profonda del modello di sviluppo economico globale». Il discorso del Pontefice riprende alcuni punti fondamentali dell’enciclica Caritas in veritate. Ma nel condannare gli «stili di vita improntati ad un consumo insostenibile» che nei «Paesi di antica industrializzazione» si «incentivano malgrado la crisi» e risultano «dannosi per l’ambiente e per i poveri», Benedetto XVI approfondisce con accenti sorprendenti il tema della coltivazione della terra: «mi pare il momento per un richiamo a rivalutare l’agricoltura non in senso nostalgico, ma come risorsa indispensabile per il futuro». Il Pontefice spiega che «il processo di industrializzazione ha talvolta messo in ombra il settore agricolo», e se certo l’agricoltura ha tratto «a sua volta beneficio dalle conoscenze e dalle tecniche moderne», in realtà «ha comunque perso di importanza, con notevoli conseguenze anche sul piano culturale». Non si tratta di indicazioni che si possono recepire solo in parte ma che vanno accettate – o rifiutate – nella loro interezza. Prese nel loro insieme, infatti, identificano un sistema di pensiero, e di comportamento, opposto a quello dominante. In sintesi: la crisi è la diretta e inevitabile conseguenza del modello di sviluppo; bisogna quindi farla finita con gli stili di vita che spingono al consumismo, che non è solo deprecabile sul piano etico ma è insostenibile su quello pratico.
I potenti della terra, nel G20 di Seul, luogo politico dove si dovrebbero prendere decisioni globali, hanno dimostrato però assoluta inconcludenza ad affrontare le emergenze del pianeta lasciando tutto il potere al mercato, alle multinazionali, ai gruppi finanziari, al FMI, al WTO, alla Banca Mondiale, che hanno il solo interesse di fare profitti e di continuare ad espandere una economia di tipo distruttivo. Fino a che punto quindi Ratzinger porterà alle estreme conseguenze il suo pensiero? Si evoca infatti il tema della sostenibilità ambientale criticando il sistema economico, ma non è ancora espressa l’incoerenza dello sviluppo in sé – per definizione illimitato – rispetto a risorse finite, che è il cardine dell’inadeguatezza del modello industriale.
Di fronte alla crisi economica e sociale del modello di sviluppo occidentale diventa realistico criticare la ragione stessa dell’economicismo moderno: lo sviluppo illimitato e la mercificazione dell’esistente.  Si tratta di cominciare a far “decrescere” l’idea che lo “sviluppo” degli scambi mercantili sia una legge naturale della vita. Il messaggio che pubblicità e media diffondono continuamente è che il benessere passa attraverso il consumo, ovvero attraverso l’appropriazione continua di una quantità sempre maggiore di oggetti. L’assimilazione di tale messaggio dalle coscienze equivale ad una vera e propria colonizzazione dell’immaginario simbolico, dunque non a torto si può parlare di un mutamento antropologico (l’uomo concepito esclusivamente come produttore-consumatore). Per rompere con il primato dell’economia, è necessario imparare ed essere capaci di dire: “mi basta ciò che ho” piuttosto che “voglio sempre di più!”. Nel linguaggio corrente il termine sviluppo è fonte di un equivoco teorico, in quanto il concetto espresso con questa parola è l'aumento dei beni materiali attraverso il processo produzione-vendita-consumo. È evidente che, con questo significato, lo sviluppo richiede l'aumento dei consumi. In altre parole, il termine sviluppo significa oggi la crescita economica illimitata. Gli abituali indicatori dello sviluppo sono sostanzialmente quantitativi. Di conseguenza si pensa che questa crescita aumenti il benessere dell’umanità e non si prende in considerazione la possibilità che l'aumento dei consumi sia incompatibile con il funzionamento della biosfera, anche perché è venuta meno la consapevolezza che l'uomo sia parte della natura. La crescita economica continua, illimitata, è un processo che impedisce il funzionamento della biosfera perché ne disarticola i cicli: è quindi un fenomeno fisicamente impossibile.
L’obiezione umanitarista si sposa, volenti o nolenti, con le lusinghe del progresso economico, sostenendo che lo sviluppo porta miglioramenti “a chi non ha”, ma a tal riguardo basta considerare che la forbice fra “ricchi” e “poveri” si è allargata in proporzioni direttamente proporzionali con la crescita economica, raggiungendo all’oggi un solco incolmabile. Inoltre, i concetti stessi di ricchezza e povertà sono una proiezione economicistica distorta dell'occidentalizzazione. Lo “sviluppo economico” appare come un processo che: sancisce la sopraffazione della nostra specie su tutte le altre forme viventi, sugli ecosistemi e in generale sul mondo naturale distruggendo la diversità biologica; impone universalisticamente a tutta l'umanità di vivere secondo il modello occidentale; mette strade, macchine, impianti, dove c'erano campi, foreste, paludi, savane.  L’idea di una crescita senza fine e di un progressivo arricchimento delle condizioni di tutti i popoli della Terra, è stata introdotta ufficialmente nel mondo dal discorso d’insediamento del presidente statunitense Truman, il 20 gennaio 1949. Fu lui, al comando della più imponente potenza economica mai apparsa sul nostro Pianeta, a parlare per la prima volta di sviluppo come gioco globale a “somma positiva” e in quel preciso istante tre miliardi di abitanti della Terra diventarono di colpo “sottosviluppati”. Decenni dopo, la civiltà occidentale è ancora fondata su quell’assunzione, ma le condizioni in cui si trova il nostro Pianeta ne hanno già da tempo segnalato il fallimento. La fede nel progresso e nella tecnologia supporta il culto dello “sviluppo” e gli economisti sono i grandi sacerdoti di questa nuova religione positiva e razionale che accompagna l’espansione senza precedenti dell’Occidente. Il potere di autorigenerazione della natura è stato rimosso, distrutto a beneficio di quello del capitale e della tecnica. La globalizzazione sta completando l’opera di distruzione perché la concorrenza spinge i Paesi industrializzati a manipolare la natura in modo incontrollato e i Paesi in “via di sviluppo”, stretti nella morsa debitoria, a esaurire le risorse non rinnovabili. Nell’agricoltura, l’uso intensivo di concimi chimici e di pesticidi, l’irrigazione sistematica, il ricorso agli organismi geneticamente modificati hanno per conseguenza l’impoverimento dei suoli, il prosciugamento e l’avvelenamento delle falde freatiche, la desertificazione, la diffusione di parassiti indesiderabili, il rischio di devastazioni microbiche. Tutti i Paesi sono coinvolti in questa spirale suicida, ma nelle realtà subalterne, essendo in gioco i bisogni primari, la riproduzione degli ecosistemi è completamente sacrificata. In pratica, ciò che è comunemente inteso dalle economie occidentali come “sviluppo” è un’ingannevole allucinazione, un drammatico fallimento. Lo sviluppo economico continuo è un fenomeno impossibile sulla Terra, perché incompatibile con il suo funzionamento. L'unico “sviluppo” che consente la vita della biosfera è un processo completamente non-materiale, una metamorfosi di cultura, arte, spiritualità. Se lo sviluppo economico prosegue a oltranza si concretizzerà un mondo annichilito, con gli ecosistemi naturali scomparsi, specie estinte o degenerate, foreste distrutte, l’atmosfera irrespirabile.
Se la scelta di un'etica personale diversa, come quella della sobrietà volontaria, può incidere sull'attuale tendenza e minare l'immaginario del sistema e altrettanto vero che, senza una sua radicale contestazione, il cambiamento rischia di rimanere limitato al piano della coscienza individuale. È quindi compito del politico ricomporre la partecipazione pubblica in forme comunitarie votate al primato dell'interesse generale e del bene comune.