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Il mito della caverna e il bene comune

di Paolo Scroccaro - 26/03/2011

http://www.ilrisvegliodiebe.it/images/notizie/1279198248Mito%20della%20caverna.jpg


I libri VI e VII di Politéia, presentano aspetti centrali della
dottrina dell'essere e della conoscenza, utilizzando anche il
noto "mito della caverna"; le riflessioni sul Bene, e sulla
correlata immagine del Sole, invitano a intuire i significati più
metafisici del mito stesso, superando quelli più facilmente
individuabili. In questo senso, le considerazioni sul Sole-Bene
costituiscono il necessario completamento verso l'alto dei
significati del citato mito. Riassumiamo brevemente i
principali contenuti esposti alla fine del VI libro e all'inizio del
VII: Platone illustra la teoria dei gradi del conoscere,
corrispondenti ad altrettanti oggetti o livelli di realtà e allo
sviluppo delle capacità conoscitive dell'uomo, schematicamente
articolabili in quattro momenti. Senza esagerare però il
valore di certi dettagli, e quindi in sintonia con lo spirito
platonico, vogliamo puntare l'attenzione sul messaggio più
importante che si vuole comunicare, riguardante la struttura
ascensiva ed espansiva dell'esperienza conoscitiva e spirituale
dell'uomo che percorre il sentiero della realizzazione. Platone
dice che il più elementare livello conoscitivo, quello comune
a tutti, può essere inteso come percezione di "ombre"
proiettate sul fondo della caverna; l'immagine dell'ombra
proiettata risulta particolarmente efficace, per vari motivi: essa
suggerisce che siamo in presenza di una realtà relativa e
incostante, dipendente da altro. Tale realtà, quindi, non può
venir considerata "essere" a pieno titolo, e nemmeno
compresa di per sé, dato che un'effettiva comprensionespiegazione
dell'ombra esige il rimando a ciò che fonda la
realtà dell'ombra proiettata. Si badi bene: Platone non
intende negare alle "ombre proiettate" qualsiasi consistenza
di "essere", bensì evidenziarne la precarietà e la necessità
quindi di risalire a livelli più forti di realtà. L'uomo prigioniero
dell'ignoranza metafisica erra non certo perché vede le
ombre, ben di più perché le considera quale realtà esclusiva,
non sforzandosi di veder oltre e di allargare il suo spazio
coscienziale. Non tutti risultano prigionieri di un tale
dogmatismo, la cui struttura di fondo consiste nell'assolutizzazione
del relativo: alcuni si mostrano capaci di una
certa apertura coscienziale, e sono quelli che, per l'appunto,
risalgono dalle "ombre" alle "statuine" di cui le ombre sono
proiezioni. Si dà qui un certo progresso, un certo superamento
della precedente parzialità: ora si è in grado di vedere e
spiegare molto più di prima, ma non basta; l'inerzia intellettuale,
pericolo sempre in agguato, spinge ad assolutizzare il
valore delle nuove conoscenze e dei relativi oggetti, ostacolando
ulteriori avanzamenti. La filosofia, intesa, socraticamente,
come dottrina del risveglio intellettuale-spirituale,
esige ben altri progressi, superando le cristallizzazioni mentali
che di volta in volta tendono a formarsi e a bloccare
l'itinerario della liberazione. Non occorre commentare tutti i
dettagli del mito per capire la direzione dell'insegnamento
che esso veicola: la liberazione procede nel senso di una
maggiore apertura verso la ricchezza dell'essere, coinvolgendo
tutte le nostre facoltà e in modo proporzionato alle rispettive
possibilità. Le facoltà che possiamo chiamare sensi,
immaginazione e ragione permettono di pervenire a certi livelli
di espansione coscienziale: per procedere oltre, è necessario
l'intervento dell'intelletto, il quale concerne dunque la
più alta capacità di apertura metafisica verso l'universale,
quell'universale che non nega, ma valorizza e include le
precedenti parzialità, inserendole nel giusto contesto e assegnando
a esse quel senso che prima sfuggiva1, proprio come
nel caso della relatività delle ombre. Sappiamo che, per
Platone, universali sono le Idee, almeno in un certo senso:
sono tali rispetto agli enti particolari, oggetto di semplice
intuizione sensibile. Tuttavia, l'universalità delle Idee non può
essere assolutizzata, apparendo anch'essa una universalità
relativa, se è concesso usare questo linguaggio
necessariamente imperfetto. Infatti, ogni Idea-Archetipo è
universale in relazione alle cose molteplici delle quali
sintetizza le qualità strutturali (le forme), ma manca di
universalità nella misura in cui è limitata dalle altre Idee-
Essenze: il cerchio archetipico include l'essere dei molti cerchi
empirici, ma non l'essere riferibile ad altre Idee e agli enti
che le imitano (nel primo senso è universale, nel secondo è
limitato). Di qui il problema: è possibile accedere ad un
ulteriore livello di universalità, che non abbia i limiti sopra
indicati? Si tratta di un interrogativo che riguarda la sfera
della metafisica pura, e anche qui la risposta viene fornita in
gran parte tramite il mito e la nota immagine simbolica del
Sole, equiparato al Bene; infatti, «ciò che nel mondo
intelligibile il Bene è rispetto all'intelletto e agli oggetti
intelligibili, nel mondo visibile è il sole rispetto alla vista e
agli oggetti visibili» (Politéia, VI, 508c). Nel mito della
caverna, l'ex prigioniero che uscendo si è distaccato dalle
ombre, dopo aver assimilato i vari livelli dell'essere, ai quali
ha saputo aprire le sue capacità di visione, incontra
l'abbagliante luce solare, alla quale non è ancora preparato,
nonostante i precedenti successi. Ha ancora bisogno di
disciplina ed esercizio, e solo alla fine «potrà osservare e
contemplare quale è veramente il sole, non le sue immagini
nelle acque o su altra superficie, ma il sole in se stesso nella
regione che gli è propria» (Politéia, VII, 516b). In che cosa
consiste la visione della luce solare, cioè del Bene? Platone
non offre una sistematica definizione concettuale del Bene:
«Lasciamo stare per il momento che cosa sia mai il Bene in sé»
(Politéia, VI, 506 e); ciò nonostante, occorre arrivare a
conoscere la relazione delle cose con il Bene, e infatti
«sarebbe un custode ben scadente chi ignorasse tale
relazione» (Politéia, VI, 506a), dato che «l'idea del Bene...
conferisce agli oggetti conosciuti la verità e a chi conosce dà
la facoltà di conoscere... e devi pensarla causa della scienza e
della verità... gli oggetti conoscibili non solo ricevono dal
Bene la proprietà di esser conosciuti, ma ne ottengono ancora
l'esistenza e l'essenza, anche se il Bene non è essenza, ma
qualcosa che per dignità e potenza trascende l'essenza»
(Politéia, VI, 508e-509b). In queste righe c'è una notevole
densità di pensiero, ridotta in termini assai essenziali: il senso
vero delle cose (la loro essenza, il loro piano di esistenza) va
colto tramite il Bene, fondamento ultimo del vero conoscere;
infatti, se la comprensione delle ombre in definitiva rinvia ai
modelli archetipici o essenze, qui emerge la necessità di un
ulteriore rinvio a qualcosa che trascende anche le essenze,
dato che ogni essenza risulta essere una determinazione
formale, cioè una limitazione, rispetto all'Universale totale. Il
Bene è la dimensione che oltrepassa ogni essenza, cioè ogni
determinazione: se, usando un simbolismo spaziale, l'oggetto
empirico è al di sotto, per così dire, delle Idee, il Bene ne è al
di sopra, e questa trascendenza viene espressa nel Fedro con
i termini «incolore, informe e intangibile, contemplabile solo
dall'intelletto» (Fedro, 247e), termini che, nonostante alcune
incertezze linguistiche presenti nell'opera, risultano efficaci in
quanto mettono in risalto l'assenza o meglio il superamento
di qualsiasi determinazione (colore e forma, in particolare,
sono evidenti indizi della determinazione, non solo tra i
Greci)2. Potremmo quindi dire che il Bene corrisponde
all'Infinito metafisico di altre tradizioni. Il Bene, infatti,
essendo "informale", a differenza delle Idee è l'Universale
totale: come tale, esso costituisce l'infinito orizzonte che
circonda e include Idee e cose, terra e cielo, condizione del
loro significato più autentico e della loro effettiva
conoscibilità. Si può perciò comprendere, ora, il detto di
Platone secondo cui «solo chi conosce l'Intero è filosofo»,
detto che compendia bene il significato più alto cui intende
volgersi l'itinerario delineato nel mito della caverna3.
NOTE
1 Questo modo di procedere è utilizzato, per analogia, in molte altre situazioni, per
esempio nell'Alcibiade secondo, quando si discute il rapporto tra le conoscenze inferiori
e quelle superiori in questi termini, precisati da Socrate: «...il possesso di molte scienze,
quando non sia accompagnato dalla scienza di ciò che è il meglio sempre in ogni caso,
poche volte è utile e il più delle volte danneggia ... bisogna che la città o l'anima, che
voglia vivere rettamente, si tenga stretta a questa scienza ... E chi per altro possiede un
sapere enciclopedico o eruditivo, ma sia privo di questa scienza e sia spinto di volta in
volta da ciascuna delle altre conoscenze, si troverà giustamente e senza metafora in gran empesta...» (147 a). Come ben si vede, anche qui vi è un'evidente allusione alla scienza del Bene e alla
sua superiorità rispetto a tutte le altre scienze, che nei confronti di essa vanno considerate
relative.
2 Cfr. ad esempio Katha Upanisad, I, III,
3 II Neoplatonismo, come è noto, ha ripreso ed elaborato la tematica del Bene
sviluppandola in due direzioni che a prima vista potrebbero sembrare non facilmente
conciliabili: considerandolo come l'Infinito sovraformale e come l'Uno, elaborazione
che per altro si ritrova in tutte le espressioni della metafisica pura. Le citate prospettive,
lungi dal contraddirsi, si completano vicendevolmente. Infatti il Bene, in quanto realtà
assoluta, è Realtà-Una che non ammette dualità (l'esistenza di due realtà assolute
implica infatti una contraddizione insostenibile: perciò l'Assoluto non può che esser
Uno). Inoltre, nulla vi può essere al di fuori del Reale-Assoluto, pena il ritorno della
contraddizione: perciò il Bene è anche Totalità onnicomprensiva o Infinito sovraformale
(è oltre qualsiasi essenza-determinazione, dice Platone: infatti ogni determinazione
formale costituisce una limitazione che negherebbe l'assolutezza del Bene, il quale
quindi non può che essere sovraformale).
F. Schuon ha ben condensato questo punto, scrivendo che «parlare della realtàuna
equivale a dire che è insieme unica e totale. L'Unità è l'in sé, o la quiddità, del
Reale assoluto; ora quando questo viene da noi considerato nell'aspetto di Trascendenza e
nei confronti delle contingenze, appare come Unicità giacché esclude tutto ciò che non
è lui; e quando viene considerato nell'aspetto di Immanenza e nei confronti delle sue
manifestazioni, appare come Totalità, giacché include tutto ciò che lo manifesta, quindi
tutto ciò che esiste» (Sulle tracce della religione perenne, Mediterranee, 1988, p. 103).
La Realtà assoluta può anche essere indicata con il termine Vuoto, come suggerisce
una certa versione del Buddhismo: in questo caso il linguaggio, quando non si riferisce
semplicemente alla vuotezza delle cose, intesa come loro impermanenza, in un'altra ben
più significativa accezione tende a sottolineare ancora una volta l'oltrepassamento di ogni
forma-essenza-determinazione, oltrepassamento che concerne l'Incondizionato. Non a
caso nel Dhammapada è sentenziato che «chi non si identifica in nessun nome e forma,
chi non piange per ciò che non esiste, si chiama bhikkhu (asceta)» (XXV, 367), e inoltre:
«Sperimentando la rimozione dei sankhara (impulsi individualizzanti), o brahmano,
realizzerai l'incondizionato» (XXVI, 383).
Considerazioni non dissimili si ritrovano nell'Iti vuttaka: «Per mancanza di
conoscenza, ecco il mondo con i suoi dèi, ancorato a nome e forma! Esso immagina che
questo sia reale» (11, 41). «Coloro i quali hanno ben compreso la sfera del formale, sono
ben saldi negli stati informali; ma quegli esseri che si emancipano nell'estinzione sono
15.
5 Vittoriosi sulla morte» (III, 51). «Colui che ha realizzato il distacco dai desideri e il
superamento delle forme, conseguendo l'acquietamento di tutti i sankhara, sempre
zelante, certo quel bhikkhu dalla retta visione ottiene per questo la liberazione» (III, 72).
Dunque: mentre le cose si distinguono e si qualificano proprio perché sono "piene" di
determinazioni formali, l'Assoluto brilla per l'assenza di esse (cioè per il "vuoto" di esse).
Ovviamente, tale Vuoto non comporta qualcosa di negativo, al contrario: il Vuoto di
determinazione-limitazione (cioè la negazione di qualcosa di negativo) implica una assoluta
positività. La dottrina buddhista del Vuoto non aggiunge nulla alla metafisica pura, né si
diversifica da essa, come pretendono certi eruditi: piuttosto, essa insiste su un notevole
aspetto dottrinario, ben comprensibile qualora si consideri, anche in base alle precedenti
citazioni, che lo scopo principale è quello di combattere qualsiasi attaccamento alla formalimitazione
scambiata ingannevolmente per realtà assoluta. La visione-realizzazione del
Vuoto, in quanto negazione delle limitazioni, è la sperimentazione del superamento di tale
attaccamento imprigionante: perciò il Vuoto, proprio come la visione platonica del Bene,
comporta la realizzazione spirituale ai più alti livelli. A ciò allude anche Śankaracarya
quando, a proposito dell'intelletto, dice: «Infine, distaccato dall'espressione manifesta
contenuta nella forma delle impressioni mentali e raccolto in sé quale pura consapevolezza,
(che) di fatto ha la natura del Vuoto [perché priva di sovrapposizioni]...»*.
*Ātmajñānopadeśavidhi, III 9, in Opere Minori, vol. I. Edizioni Āśram Vidyā.