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L’Idealismo Magico

di Luciano Pirrotta - 05/06/2006

 

 

Idealismo Magico è la formula che meglio definisce la stagione filosofica evoliana, compresa, se si guarda alle date di pubblicazione, nel lasso temporale 1925-1930, vale a dire fra i due estremi dei Saggi sull’idealismo magico (pubblicato dall’Editrice Atanòr) e la Fenomenologia dell’Individuo Assoluto (uscito per i tipi di Bocca). In realtà, al di là delle vicissitudini editoriali, stando alle ricerche di alcuni attenti esegeti del pensatore tradizionalista (Melchionda, Del Ponte, Di Vona) il periodo potrebbe dirsi concluso entro il primo dei due termini, salvo successive incursioni occasionali di estensione molto contenuta.

Evola ultima il suo teorema filosofico nella fase giovanile della propria vita (nel 1925 ha ventisette anni), con tutte le insofferenze, le impazienze, gli entusiasmi tipici di chi ha parecchie novità da annunciare ma manca ancora della sistematicità e della prudenza necessarie ad esporle equilibratamente. Qual è il bersaglio elettivo preso di mira dal giovane Evola nel lustro citato? È l’idealismo ufficiale post hegeliano che si dibatte tra la padella dello storicismo crociano e la brace dell’attualismo gentiliano. Per l’acerbo enfant terrible esponente di circoli artistici e sodalizi esoterici, traduttore di Lao-Tse, collaboratore di riviste d’impronta iniziatica (Atanòr, Ignis, Bilychnis), si tratta di due volti di un’unica impotenza: quella dello specialismo accademico prigioniero di forme concettuali astratte, di sterili speculazioni rinviantisi vicendevolmente in una sorta di vano prisma rifrattorio.

Per Evola il soggetto è libertà infinita; solo la sua autolimitazione (che diviene autoprivazione) ne rende possibile la soggezione al mondo “oggettivo”. Se l’idealismo costituisce il vertice della costruzione filosofica (laddove la ratio stessa si colloca alla stregua di ancella, avendo fondamento ultimo su presupposti indeducibili) occorre però che esso sia pensato sino in fondo, ossia che dal concetto, che analizza teoreticamente l’essenza, si passi alla potenza, territorio precipuo operativo dell’esistenza, ovvero che l’intelletto, strumento prezioso per approntare una mappa topografica di percorso, lasci luogo - svolto il primo tratto - alla volontà (una volta riconosciuto che solo l’Io è scaturigine prima, di ogni cosa, e, dunque, della sconfinata pluralità dei fenomeni).

Ma, perché l’uomo possa effettuare siffatta trasformazione “attiva”, egli deve ricondurre tutto a sé, nulla lasciando al di fuori, neppure i suoi simili (ridotti a mere rappresentazioni da un Io pervenuto a codesto grado di consapevolezza). L’Individuo Assoluto prefigurato da Evola appare colui che - parafrasando Stirner - ha “posto la sua causa” in un’identità autocentrata: niente prima di sé, niente dopo di sé, niente fuori di sé. Il cammino, per un simile conseguimento, passa attraverso la terra desolata del nichilismo, allorché gli ancoraggi consueti (valori, affetti, certezze) dileguano e si schiude il deserto, la tremenda solitudine intollerabile a molti arrivati a questo stadio. È il nichilismo “passivo” che - esempi paradigmatici - travolge Nietzsche, Michelstaedter, Weininger.

Ammettere invece siffatto status come voluto, emanante dall’Io sciolto da qualsivoglia condizionamento, viverlo, riassorbirlo, superarlo, esercitando sulle molteplici parvenze del reale un dominio incondizionato: questo è il compito dell’Individuo protagonista di un nichilismo “attivo”, divenuto “Signore del sì e del no”, autarca che, lungi dall’essere influenzato dall’esterno o dall’interno, ne fruisce gli aspetti sotto le specie di contingente gioco di determinazioni.

L’idealismo evoliano quindi, viste le premesse, non può non sfociare in prassi volontaristica; non è una delle tante filosofie della prassi, ma il viatico ad un autentico magistero iniziatico, di cui la valenza “magica” assume naturale ruolo propedeutico. Si capirà ora perché egli delinei qui un tentativo - coraggioso certo e per pochi - di traghettare, mediante apparati filosofici, istanze e princìpi transfilosofici, appartenenti ad un ordine “altro”, dove il filosofare dei “professori” non ha accesso né cittadinanza. Evola vuole mostrare che il lessico e la fraseologia filosofici possono essere utilmente impiegati per condurre il discorso in limine, fino al punto di rottura oltre il quale il tragitto deve essere affrontato con ben diversi mezzi, requisiti e qualificazioni. A tale grado, l’incidenza argomentativa, le sottigliezze dialettiche devono esser identificate per ciò che sono: uno specchietto per allodole filosofiche. Benché vi compaiano via via riferimenti a Novalis (sua l’espressione “idealismo magico”) Hamelin, Boutroux, Braun, l’oltreuomo nietzscheano, il persuaso michelstaedteriano, l’unico stirneriano, lontani sono i veri modelli ispiratori del telos evoliano.

Non bisogna dimenticare - tralasciata la “gabbia” delle date - che egli pubblica nel ’26, sulla scorta di Woodroffe (A. Avalon), L’uomo come potenza, il volume dedicato alle tecniche sessuali tantriche volte all’ottenimento di poteri paranormali; che lo studio delle “scienze occulte” procede intenso accanto a paralleli interessi profani. Indizi di attenzione costante verso dottrine psicomisteriosofiche si colgono, palesi o meno, in vari passi, dei quali non sempre vengono citati gli ispiratori: Coué e il suo “agire senza agire”, Crowley la cui definizione di magia (“scienza di produrre cambiamenti sul reale conformemente alla volontà”) calza a pennello alla direttiva dell’Individuo Assoluto e, con buona probabilità, Gurdjieff, il mago caucasico che insegnava a “costruirsi l’anima”.

Significativo a quest’ultimo riguardo un brano dei Saggi: “… sta di fatto che più che esser noi a pensare attivamente il pensiero, sarebbe da dirsi che in massima è il pensiero che pensa noi … risulta, per un’attenta considerazione, che l’Io si comporta in modo essenzialmente passivo” (pp. 43-44).

Il giovane Evola, parimenti alla maggior parte degli occultisti, sembra attratto dall’obiettivo primario del perseguimento della “potenza”, la shakti, “infinita potestas dell’Individuo assoluto” che nella negazione di ogni eteronomia (e l’intero universo vi rientra) compie l’“azione sufficiente o azione secondo potenza”, ed essendo causa incondizionata non è più limitato neppure dalla propria esistenza, divenuta soltanto un’opzione nella gamma delle tante possibili. Occorrerebbe poi vedere su chi tale soggetto, superati i confini delle individuazioni particolari e assurto alla dignità di pantocrator cosmico, potrebbe esercitare il suo smisurato dominio una volta che l’intera manifestazione sia stata da lui a sé ricondotta. E quale criterio di verità ne impronterà la decisione, se verità ed errore designano esclusivamente differenti gradi “dell’affermazione e del possesso”, dove “un’affermazione abbozzata, debole e incerta è errore, un’affermazione assoluta e a sé stessa interamente sufficiente è verità” (Saggi …, p. 53).

Si profila qui il grande baratro pronto a inghiottire l’essere asceso al rango divino: il solipsismo, cioè la chiusura in un castello illusorio di vacua autoreferenzialità. Evola risponderà sprezzantemente che il solipsismo è lo “spauracchio dei semifilosofi” e che nel “presupposto gnoseologico dell’idealismo magico, è implicito il solipsismo” (Saggi …, p. 101), ma è già predisposto, grazie allo scandaglio del patrimonio teurgico-sapienziale del passato - tramite l’incontro col Guénon - all’approdo rassicurante, negatore di ogni individualismo, nel porto sovrapersonale della Tradizione.

L’uscita presso le Edizioni Mediterranee della quarta edizione riveduta e corretta dei Saggi sull’Idealismo Magico, giunge opportuna almeno per due motivi; perché consente di avvicinarsi meglio, con il supporto di adeguati corredi critici e bibliografici, alla lezione definitiva di uno dei testi più ostici dell’autore (a torto tralasciati a favore di più accessibili scritti politico-ideologici) riscoprendone lo stile magnetico e la perenne validità; perché permette, a ottant’anni dalla prima stampa, di esaminarne con maggior distacco e imparzialità pregi e limiti, senza riserve preconcette sull’artefice. Lo riprova l’attenta introduzione premessagli da Franco Volpi che testimonia lo “sdoganamento” (inaugurato da Massimo Cacciari) di scrittori e intellettuali “scomodi” del ’900 da parte della cosiddetta intellighentsia accademica “di sinistra”.

Si comincia ad ammettere che, similmente ai riconoscimenti accordatigli nel campo delle arti figurative, deve finire l’ostracismo per il “filosofo proibito” anche negli altri settori in cui egli ha condotto la sua ricerca e dato il suo contributo. Merito dovuto, nondimeno, alla iniziale ristretta schiera di coloro che da decenni si battono su posizioni isolate, controcorrente, per spezzare la cortina di silenzio e il muro di gomma eretti per troppo tempo intorno alla figura sulfurea del pensatore siciliano.