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Nella prosa amara di Marek Hlasko la disperata cattiveria dell’uomo alienato da se stesso

di Francesco Lamendola - 29/03/2011




Salvo errori, non è stata riproposta al pubblico italiano, da ormai quasi cinquant’anni, la raccolta di novelle «L’ottavo giorno della settimana» di Marek Hlasko (nato a Varsavia il 14 gennaio 1934 e morto a Wiesbaden, appena trentacinquenne, il 14 giugno 1969), tradotta dalla casa editrice Einaudi nel 1959 e ripresentata nella benemerita collana economica della Mondadori «I libri del pavone», nel 1963.
Sono racconti amari, ispirati ad un realismo crudele, che lasciano un sapore acre in bocca, dopo la lettura; tanto più che i titoli e le stesse atmosfere lasciano sperare in uno squarcio di cieli azzurri che invece, puntualmente, si richiude ancor prima di essersi realmente aperto.
È uno sguardo lucido e disincantato quello che l’autore rivolge alla condizione umana; i suoi personaggi sono accomunati da un medesimo destino e, si direbbe, da una stessa malattia : la perdita della speranza, che  ne fa, alla lettera, delle anime perse: perché quando la luce di un raggio di speranza, fosse anche il più tenue, si spegne nel cuore dell’uomo, ciò che resta non è che oscurità e stridore di denti.
Si parte da situazioni in apparenza minimaliste, sospese fra il patetico e il grottesco: ad esempio, il fatto di non avere una casa, un luogo riservato perché due innamorati possano incontrarsi ed amarsi: motivo conduttore del primo e dell’ultimo racconto del volume, ossia «Il primo passo nelle nuvole» e quello che dà il titolo all’intera raccolta, ed è anche il più lungo: «L’ottavo giorno della settimana»; e da esse si giunge, più o meno rapidamente, ad una dimensione di sconforto assoluto, di totale delusione esistenziale.
L’umanità descritta nei racconti dello scrittore polacco, pioniere della cosiddetta «generazione del ‘56» (l’anno delle prime forti proteste sociali in Polonia e della tragica, misconosciuta e calunniata rivoluzione ungherese) è una umanità abbrutita dalla noia, dal conformismo, da un orizzonte esistenziale straordinariamente opaco ed asfittico; una umanità incattivita dalla perdita di valori morali indotta da un sistema politico brutale e massificante, il quale, in nome dei lavoratori, perpetra un feroce controllo su ogni aspetto della vita individuale, privandola di ogni legittima aspirazione alla personale felicità.
Nel racconto «Il primo passo nelle nuvole», alcuni adulti di Varsavia, fra i quali un paio di pensionati, si divertono a sorprendere due ragazzi che stavano facendo all’amore su di un prato, a deriderli, a insultarli, a provocarli; finché il ragazzo, esasperato, reagisce ed essi lo picchiano selvaggiamente, costringendolo ad allontanarsi, insieme alla sua compagna, umiliato e dolorante, in mezzo alle loro risate.
Tanta cattiveria gratuita nasce in modo quasi inconsapevole, partendo da una situazione di noia, per poi degenerare ed esplodere, al di là - forse - delle stesse intenzioni dei personaggi. Si ricava, anzi, la netta sensazione che, mettendo alla gogna i due sfortunati ragazzi, quegli uomini maturi abbiano voluto sfogare la disperazione nei confronti di se stessi, delle loro vite ormai irrimediabilmente tristi e vuote, nelle quali non c’è più posto per i sogni.
Così, sporcando il sogno d’amore di quei due adolescenti, i quali, probabilmente, per la prima volta si aprivano al mistero della sessualità, e facendo in modo che la bruciante vergogna di quella giornata si rifletta sull’intera loro vita futura, quegli uomini, in fondo, hanno voluto punire se stessi e annegare nella crudeltà il senso di frustrazione e di amarezza per il fatto che il sogno d’amore e di poesia della loro gioventù si è spento da un pezzo, nel grigiore di una vita insulsa.
Al termine della scena cattiva e umiliante con cui si conclude la “spedizione” ai danni dei due ragazzi, gli uomini, incrociando alcune battute per tentare di scaricarsi l’un l’altro la responsabilità del loro indegno comportamento, lasciano trasparire un rimorso soffocato e persino un’ombra di pietà per quel sogno d’amore così brutalmente infangato:

«”Tempo pesante, non pioverà”, disse Heniek. Poi sospirò: “Era una bella ragazza. Perché le hai dato della puttana? Non lo sai mica? Come potevi saperlo?”
“Non sono stato io a dirglielo, sei stato tu”, disse Maliszewski.
“Io? Ma se non la conoscevo!”
“Io la conoscevo”, disse Maliszewski. “Non era la prima volta che li vedo da queste parti. Si vogliono bene davvero”.
“Cosa faranno adesso?”, chiese il signor Gienek.
“Non lo so, ma so che andavano insieme da un bel po’, e che oggi era la prima volta”.
“Come fai a saperlo”, chiese stancamente il signor Gienek.
“Ho sentito che lui la pregava: avevano paura tutti e due,  e cercavano di rassicurarsi uno con l’altro. Avevano paura di avere un bambino, dicevano.  Ma forse era piuttosto per tutto il resto. Lui, poi, le diceva delle cose  così strane…”.
“È sempre così, la prima volta”, disse Heniek. “Anch’io avevo paura”.
“Tutti hanno paura la prima volta”, disse Maliszewski. “Ma perché l’hai conciato così?”
“Sei tu che l’hai voluto.”
“Non sapevo che sarebbe finita così… Proprio strano, quello che le diceva.”
“Ma che cosa?”
“Non ricordo.”
“Si annuvola”, disse il signor Gienek.
“Ah, ecco”, disse il signor Maliszewski.  “Ho sentito che le parlava delle nuvole. Forse una poesia. Ve lo dico io, quei due si amano davvero”.
“Adesso non si ameranno più”, disse il signor Gienek. “ Ne avranno abbastanza per sempre. Dopo una storia così non oseranno più guardarsi in faccia. Non avrebbe dovuto finire così”.
“Lui”, continuò Maliszewski, “le diceva che sarebbe stato il loro primo passo nelle nuvole, se lei avesse voluto; e lei piangeva e diceva soltanto: “Ho paura, paura.”
“Aveva forse paura che le facesse male…”
“Non credo”, disse Maliszewski. “ Di certe cose se ne ha paura più tardi: della vita, della gente, dei pettegolezzi.  Ma la prima volta è proprio come nelle nuvole. Gli innamorati non vedono più nulla.”
“Neppure noi”, disse Heniek.
“Adesso non si ameranno più”, disse il signor Gienek.
“Già”, disse Heniek. “Adesso non si ameranno più. Anche a me è successa una cosa del genere, una volta, e poi non ho più amato la ragazza.”
“A tutti è successo qualche cosa del genere”, disse Maliszewski. “Ma perché gliele hai suonate così forte?”
“È stato lui a picchiare per primo. Andiamo a berci una birra?”
“Andiamo. Credo che quella ragazza non verrà più qui.”
“No, non verrà più”, disse il signor Gienek. “Ma perch l’avete chiamata a quel modo?”
“Anche la mia ragazza, una volta, la chiamarono a quel modo”, disse Maliszewski, “e parola d’onore, non ho mai capito perché…”
“Che storia stupida”, disse Heniek. “Si rannuvola”, aggiunse guardando il cielo. “Come diceva, quello?”
“Mi pare che parlasse di due passi sotto la pioggia, o qualcosa di simile. Pioggia o burrasca, non ricordo…  Andiamo a bere questa birra?”
“Andiamo”, disse Heniek. “credo proprio che domani pioverà”.
“La domenica piove sempre”, disse il signor Gienek”, e d’un tratto si ritrovò a pensare alla bruttezza della moglie, al tedio della giornata di domani, alla bella ragazza dalle lunghe gambe abbronzate  e dai piccoli seni, dalla bocca fresca, dagli occhi verdi spaventati. Fece una smorfia e ripeté balbettando, tanto per dire qualcosa: “La domenica piove sempre…”»

Nelle parole e nelle riflessioni del signor Gienek si rivela una intima disperazione, che, per essere quieta e quotidiana, non è però meno straziante, e che può aiutare a comprendere l’invidia, la cattiveria che lo hanno spinto, insieme agli altri, a comportarsi a quel modo verso i due ragazzi: in una vita totalmente senza sole, anche l’accanirsi su degli innocenti può dare una forma i sollievo, per quanto illusorio.
E poi, se il primo incontro d’amore di due adolescenti è stato sporcato per sempre, questo pareggia i conti della vita: anche nel passato di Heniek c’è stata una simile umiliazione, una simile profanazione ad opera degli adulti. Strappare il velo della poesia a una giovanissima coppia di innamorati, così, diventa una rivalsa contro la vita, che ha strappato il velo della poesia anche a loro, in anni ormai lontani; che lo strappa a tutti e a ciascuno, spietatamente, senza rimorso, in un perenne circolo vizioso.
Una volta Gesù disse che sarebbe meglio, per chi dà scandalo a un bambino, se si legasse una pietra da macina al collo e si gettasse nel mare: parole durissime, quali non aveva mai adoperato nemmeno contro i peccatori più incalliti. Ma strappare l’innocenza a dei bambini è davvero imperdonabile; e, in un certo senso, ciò che hanno fatto quegli uomini alla periferia di Varsavia è quasi altrettanto grave.
Anch’essi hanno strappato l’innocenza a due adolescenti che, mentre facevano all’amore per la prima volta, con trepidazione e struggimento, erano indifesi e innocenti come dei bambini; la delicatezza ed il sublime incanto di quella prima esperienza amorosa avrebbero meritato il massimo rispetto, mentre quegli uomini, per deliberata cattiveria, senza neppure l’ombra di un pretesto, hanno voluto far sì che la conclusione traumatica di quella esperienza rimanesse impressa a fuoco nelle loro anime, per tutta la vita.
Un sociologo potrebbe chiamare in causa lo sconvolgimento e il disorientamento morale prodotti dal passaggio forzato da una società rurale e patriarcale ad una società urbana e industriale, per di più sotto la ferrea cappa del socialismo di Stato di marca staliniana; un moralista potrebbe dilungarsi sul compiacimento del male che sa di essere tale, e nondimeno indugia ad infierire quanto più possibile, «leccando come bestia che si liscia», per dirla con il padre Dante.
Restano lo squallore e la bruttezza di un comportamento gratuitamente malvagio da parte di un gruppo di adulti verso due giovanissimi; resta il vuoto desolante di una radicale mancanza di senso, di una vita che cerca nel male altrui un temporaneo sollievo alla noia e alla tristezza.
Eppure, nella pagina di Marek Hlasko si direbbe che il sentimento prevalente, intuibile fra le righe come lo è la compassione di Verga verso i suoi “vinti”, non sia lo sdegno, ma la compassione: compassione per tutti, vittime e carnefici: perché anche i carnefici sono, in fondo, delle vittime, oppure lo sono stati.
Quegli adulti che incrudeliscono su dei ragazzi, così, per  puro divertimento, sono dei disgraziati e degli infelici; e, se ciò non li scusa, né li giustifica (ma chi ha il diritto di scusare o di giustificare?), getta però una luce diversa su di loro, più umana, per quanto sgradevole.
In fondo, quel giorno era sabato: e, come nel leopardiano «Sabato del villaggio», essi sapevano bene che la domenica non avrebbe portato alcun refrigerio nell’arsura delle loro esistenze spente ed alienate: soltanto una pioggia noiosa, deprimente, quasi un preannuncio della nuova settimana di monotona tristezza, come tante altre, come infinite altre.
Ecco, allora, che i racconti dello scrittore polacco possono offrire uno strumento di riflessione sulle conseguenze dell’alienazione dell’uomo moderno rispetto a se stesso; sugli effetti devastanti, forse irreparabili, di una massificazione che è anche fonte di deresponsabilizzazione morale: perché a muovere gli adulti, ne «Il primo passo nelle nuvole», è lo spirito gregario e vigliacco del branco, dove ciascuno si lascia trascinare dalla propria parte peggiore, senza che vi sia una presa di coscienza della propria responsabilità individuale.
E tutto questo, per piccoli passi, impercettibilmente, sprofonda l’umanità nell’inferno del male.