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Dietro il positivismo evoluzionista di Nietzsche fa capolino il vecchio mito del «buon selvaggio»

di Francesco Lamendola - 01/04/2011

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Che il pensiero di Nietzsche, in fondo, non sia altro che una trasfigurazione poetica, o ditirambica, del naturalismo evoluzionista; che sia una rivisitazione lirica e profetica della filosofia di Herbert Spencer e che, in fondo, l’ingegnere inglese e il professore tedesco di greco siano molto più simili di quel che possa sembrare, era già stato notato, acutamente, dal nostro Giovanni Papini nel suo «Crepuscolo dei filosofi».
Che altro è, in effetti, l’accettazione integrale della vita, compresi le passioni e gli istinti primordiali, se non l’«obbedienza alle cose» predicata da Spencer, in una cornice decisamente meno immaginifica, meno “filologica”, senza Dioniso e senza Zarathustra, ma con altrettanta convinzione e con una sostanziale identità di intenti?
L’inglese ci ha messo il suo spirito pragmatico, il tedesco ci mette il suo afflato poetico e il suo struggimento da antico profeta orientale - proprio lui, che detesta i profeti dell’altrove e dell’aldilà -, ma il loro discorso è non solo parallelo, ma addirittura convergente.
Per Spencer, si tratta di applicare l’evoluzionismo darwiniano alla filosofia morale, senza scosse e senza drammi; per Nietzsche, inguaribilmente malato di filologia, si tratta di inserire questa dottrina in un contesto tragico e lampeggiante, carico di “aurore” e di “meriggi”; per il primo, è chiaro che la vita selezione i più adatti, per il secondo, bisogna che i più forti, ossia i più innamorati della vita come essa è, soppiantino i deboli, ossia i piagnoni e i malinconici, che sognano impossibili riscatti in altre dimensioni.
Eppure, anche Nietzsche è proteso ad un disegno di redenzione dell’uomo: anche per lui, l’umanità non va bene così come essa è, bisogna che vada oltre se stessa, che si allontani dall’uomo, tanto quanto l’uomo si è allontanato dalla scimmia: ed ecco la prima contraddizione. Se la realtà va accettata integralmente, se va accettata infinitamente (secondo la dottrina dell’Eterno Ritorno), allora perché mai non si dovrebbe poter accettare anche l’uomo così come esso è? Perché bisogna rincorrere un fantasma che non è ancora, che non è mai stato?
Seconda contraddizione: se l’uomo deve liberarsi dai miti, dai sogni, da tutto ciò che gli fa velo alla accettazione totale dell’esistente, perché mai egli dovrebbe fidarsi più dell’istinto che della ragione; perché dovrebbe invidiare l’immediatezza dei bambini, dei primitivi, dei ribelli, di tutti coloro che non si adattano all’appiattimento che la ragionevolezza ha introdotto nel mondo moderno?
Non sarà forse l’ennesima edizione, riveduta e corretta, del mito di Rousseau dell’innocenza dei primitivi, del mito settecentesco del “buon selvaggio”?
La contraddizione non è tanto dell’Illuminismo, quanto di una storiografia letteraria che si ostina a misconoscere il fatto che il Pre-Romanticismo, con i suoi miti, compreso quello del “buon selvaggio”, è solo l’altra faccia della medaglia dell’Illuminismo; ovvero che non si tratta di due movimenti pressoché sincronici, bensì di un unico movimento a due facce, che elabora due opposte ma speculari concezioni del reale (così come dal Romanticismo, per fare un altro esempio, si originano due opposte e speculari ideologie politiche: quella conservatrice-reazionaria e quella liberale e democratica, entrambe fondate sul mito della nazione).
Il mito del buon selvaggio compare nel 1672, con «la conquista di Granada» di John Dryden, prosegue con le relazioni di viaggio dei navigatori europei nell’Oceano Pacifico - Cook, Bougainville, La Pérouse - e culmina nell’«Émile» di Rousseau, in cui viene teorizzata la necessità di educare i bambini lontano dalla civiltà “cattiva”; per poi trovare il proprio coronamento nei romanzi «Paul et Virginie» di Bernardin de Saint-Pierre, pubblicato nel 1787, ed «Atala» di René de Chateaubriand, apparso nel 1801.
Quanto a Nietzsche, egli lo riprende senza alcun vaglio critico e se ne trova invischiato senza neppure averne la percezione: crede di esaltare, insieme agli istinti, la natura, e quindi se la prende con l’intellettualismo; ma non si accorge che la base di tutta la sua concezione è di matrice razionalista e settecentesca, più ancora che darwiniana o spenceriana; esattamente come tutto il suo furore anticristiano non gli permette mai di lasciarsi sfiorare dal dubbio che molto del suo Zarathustra è cristiano, anzi, perfino veterotestamentario. E non parliamo solo dello stile biblico e delle immagini tipicamente ebraiche, ma proprio dei contenuti: non è forse venuto Cristo a combattere tutto ciò che mortifica ed umilia la dignità della vita?
Tale contraddizione lo pone in una situazione straordinariamente ambigua, dalla quale esce, o crede di uscire, nella misura in cui se ne rende conto, più con i voli della fantasia poetica, che con la forza e la coerenza del ragionamento.
Come aveva notato ancora il Papini, ad esempio, che cosa vuol dire esaltare la vita, dicendola “piena”, “ricca” e via di seguito, con una lunga serie di aggettivi altamente seducenti? Stranamente, questo cantore del Superuomo non ha mai trovato una parola per definire il concetto di “vita”: eppure la sua filosofia si basa su di esso, egli non fa che ripetere che la vita dev’essere integralmente accettata, amata, voluta, non una, ma infinite volte.
Ma che cos’è, dunque, la vita: il dato biologico, il dato emozionale, il dato volontaristico? Che cosa significa la «volontà di potenza», se non che la vita, così com’è, non va bene, non gli piace; che egli non la accetta, che la vorrebbe diversa, che la vorrebbe migliore?
Né trova una parola da rivolgere, questo esaltatore della vita, a coloro ai quali è toccata in sorte, e non per “colpa” loro, una vita mutilata, imperfetta, tribolata: proprio lui, che tanto amava Torino, da dichiararla la sua città ideale, e che non sembra essersi mai accorto dell’esistenza di un istituto come il «Cottolengo», che all’epoca aveva più di mezzo secolo di storia e che si occupava, come se ne occupa oggi, delle persone contrassegnate da gravi handicap fisici o mentali. Anche queste persone devono amare la vita incondizionatamente, così com’è? Oppure solo alla “bestia bionda” è affidato codesta missione?
Papini, nel suo «Il crepuscolo dei filosofi», coglie perfettamente queste aporie, queste debolezze del pensiero nietzschiano, come si vede anche dai seguenti passi (Firenze, Vallecchi, 1953, pp. 231-39, passim):

«Il pensiero di Federigo Nietzsche ci offre lo spettacolo singolare  di una quasi completa unità di dottrina, attraverso tutte le fioriture di una immaginazione, di una rettorica, di un’arguzia perpetuamente instancabili nel preparare nuovi costumi. Dalla “Geburt der Tragödie” (1871) - e anzi ancor prima, dall’”Homer als Weltkämpfer (1867) - fino al “Wille zur Macht” (1867) che avrebbe dovuto essere il gran testamento dottrinale, Nietzsche è vissuto sotto l’ossessione di tre o quattro idee, ch’egli ha ripetute, dimostrate, commentate, amplificate, miniate e niellate senza riuscire mai a cambiarle o ad accrescerle.
In certi libri le ha espresse più timidamente e in altre più liricamente - in certi periodi  le ha volute affermare colla fredda sottigliezza del dialettico, in certi altri le ha volute imporre colla sferza fischiante del satirico- le ha sussurrate colla glaciale ironia dei cinici ragionatori del “dixhuitième siecle”, e le ha gridate e cantate con tutta l’emozione immaginosa  di uno di quei rapsodi coronati d’oro di cui parla Platone. Tolti i modi d’espressione, i cambiamenti teorici sono  stati ben pochi – si sono limitati tutt’al più, a svolgimenti d’idee appena accennate in principio o ad attenuazioni  d’idee appena un po’ troppo frettolosamente  proclamate e applicate. […]
I cristiani e i pessimisti hanno torto, la vita ha ragione.
Non è vero che la vita sia cattiva e che bisogni fuggirla e rinnegarla.  Soltanto, per renderla degna d’essere vissuta, bisogna ACCETTARLA completamente com’è: e non cercare di limitarla, di costringerla, di migliorarla. Bisogna dire di SÌ alla vita, ma a TUTTA la vita. Non bisogna rigettare niente, neppure quelle che si chiamano le cattive passioni o gli istinti pericolosi. Anzi l’istinto è il vero sapiente. L’istinto non fallisce mai. Tutto ciò che facciamo per istinto è buono.  “Alles Gute ist Instinkt” (VIII, 93). L’uomo, qualunque cosa faccia, non pecca mai. L’importante è di non reprimere le nostre tendenze naturali, e di rispettare il corpo, ch’è il nostro vero signore, invece di occuparci del miglioramento del’anima o della fantastica vita dello spirito.  Il nostro corpo è sacro e ogni morale dev’essere rinnegata dinanzi alle sue esigenze. I veri saggi non sono i moralisti ma sono gli uomini primitivi, gli uomini dell’istinto, i fanciulli, i satiri, i selvaggi i barbari, e anche - perché no? - anche coloro che cercano d’insorgere contro l’ingreggiamento progressivo, i delinquenti Noi dobbiamo ricercare, esaltare e realizzare la vita piena completa, ricca esuberante, traboccante, tropicale, ascendente e dobbiamo perciò perseguitare, esiliare, sopprimere tutto ciò che tende a impoverire, ad abbassare, a limitare, a imprigionare la vita. Noi dobbiamo perciò dir di sì anche alla guerra, alla rapina, all’asservimento, all’aggressione, a tutto quello che si dice cattivo o pericoloso, e dobbiamo invece dir di no  a tutte le morali, a tutti i costumi, a tutte le regole, a tutti gli imperativi.
E non solo dobbiamo accettare tutta la vita ma anche tutto il mondo, tutte le cose, tutta la natura. Noi dobbiamo amare le cose come sono, effimere, passeggere,  mutevoli, e fuggevoli, diverse fra loro nello spazio, diverse fra loro nel tempo e dobbiamo odiare tutto ciò che vuole impoverire il mondo, come fa la filosofia coi suoi concetti astratti; tutto ciò che vuole incatenare il mondo, come fa la logica ch’è una specie di morale della natura; tutto ciò che tende a disprezzare il mondo presente  e vivente affermando ch’esso non è il mondo vero, il mondo reale ma ch’esiste dietro di esso il mondo dell’unità, dea stabilità, della più vera verità, della più reale realtà.
Dunque, per serrare ancora di più le formule, ACCETTAZIONE di ciò che vive e SOPPRESSIONE di ciò che impedisce la libera espansione di ciò che vive.
Ma la liberazione dell’uomo e del mondo, dell’uomo dalla morale, del mondo dalla filosofia, non potrà essere che un momento transitorio, un  ponte di passaggio, una posizione iniziale. È necessario creare una nuova legge, incidere le nuove tavole dei valori”, preparare l’avvenire della nuova vita più libera, più ricca, più alta. Questo sarà il compito della nuova razza, dell’attesa stirpe dei superuomini che invererà il suo virile e mistico ideale e sarà il fiore dell’umanità redenta.
E neppure basta accettare il mondo com’è, non basta accettarlo una sola volta, ma è necessario accettarlo e desiderarlo con gioia  per centinaia e migliaia di volte, per una infinità di volte, sempre eguale al’infinito, come insegna la terribile dottrina dell’Eterno Ritorno.
Amore della vita, odio del pessimismo e della morale: amore della diversità e odio dell’intellettualismo e della filosofia: ecco la prima parte del sistema. Aspettazione e desiderio della ripetizione perpetua del mondo: ecco la seconda. Nietzsche non è mai uscito di qua.»

Così come il “buon selvaggio” del XVIII secolo è molto parigino, molto raffinato, molto ricco di buone maniere, allo stesso modo l’anti-intellettualismo di Nietzsche è molto intellettuale, molto elaborato, molto nutrito di filologia; ed è ben strano che il filosofo tedesco non si sia mai reso conto, almeno in apparenza, che la sua definizione dell’uomo come di «una corda tesa fra la scimmia e il superuomo» fa a pugni con il suo precetto in base al quale si deve accettare la realtà così come essa è, integralmente e incondizionatamente.
Quanto alla staticità della filosofia di Nietzsche, da Papini giustamente evidenziata, esistono pochi altri casi, crediamo, di un pensiero che sia rimasto altrettanto immobile sulle proprie posizioni; o, per dire meglio, di un pensiero altrettanto circolare, che non riesce ad avanzare di un millimetro rispetto alle proprie premesse, se si fa eccezione per la stramba dottrina dell’Eterno Ritorno dell’Uguale - che, peraltro, non è una invenzione di Nietzsche, poiché risale ai Pitagorici.
Nietzsche sostiene di averne avuto l’intuizione folgorante mentre passeggiava sulle rive del lago di Silvaplana, presso Sils-Maria, in Engadina; ma, ovviamente, non è così, dato che si tratta di una dottrina antichissima che egli, al massimo, può aver RICORDATO, non certo “inventato”; il suo racconto fa un po’ venire in mente quello del chimico F. A. Kekulé, il quale avrebbe addirittura “sognato” la struttura esagonale del benzene, sotto forma di un serpente che si mordeva la coda, mentre invece la conosceva da dodici anni (si confronti il libro di F. Di Trocchio, «Le bugie della scienza», Mondadori, 1994).
Non vogliamo peraltro negare l’importanza di Nietzsche nella storia della filosofia moderna; senza contare la sua importanza nella storia della letteratura e della poesia tedesche, che - lo diciamo senza alcuna ironia - è ancora più grande.
Egli ha posto sul tappeto delle questioni centrali, a cominciare da quella della redenzione del passato, di cui abbiamo altra volta parlato (cfr. il nostro articolo «La redenzione del passato, culmine dell’”eterno ritorno” di Nietzsche», sempre sul sito di Arianna Editrice), che ci permettono di confrontarci con il presente sotto una luce nuova.
E tuttavia, è difficile sottrarsi all’impressione che l’originalità del pensiero di Nietzsche, per tutta una serie di ragioni storiche e contingenti, sia stata enormemente sopravvalutata; senza parlare delle debolezze intrinseche del suo metodo dialettico, della staticità della sua concezione complessiva, della sua ripetitività, della sua sovrabbondanza retorica e della sua radicale incomprensione di quei pensatori e di quei sistemi di valori, primo fra tutti il Cristianesimo, che incontravano la sua violenta disapprovazione.
Forse, le ragioni per le quali la filosofia di Nietzsche è divenuta ormai così famosa, al punto che è praticamente impossibile non sentirla continuamente citata, a proposito e a sproposito, risiedono più in ciò che essa ha di meno vitale, di meno originale, di più vuotamente altisonante (come la sua pretesa di «filosofare a colpi di martello»), che non in ciò che essa ha di realmente attuale e di realmente perenne.