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Dal Big Bang all’illuminazione: meditazione e fisica quantistica

di Matthieu Ricard e Trinh Xuan Thuan - 04/04/2011


Il dialogo fra uno scienziato occidentale, diventato monaco buddista, e di un buddhista orientale, diventato scienziato… la scienza e la spiritualità rischiarano entrambe la vita degli uomini: non potrebbero essere complementari? Sono davvero troppo estranee l’una all’altra perché il loro confronto possa essere diverso da un dialogo tra sordi?

L’universo ha un inizio? La sorprendente sintonia dell’universo è forse un segno che, nel nostro mondo, è all’opera un “principio della creazione”? E in tal caso, significa che esiste un Divino Creatore? L’interpretazione radicale della realtà offerta dalla fisica quantistica è conforme al concetto di realtà buddhista, o no?

Matthieu Ricard (ex ricercatore biologo del prestigioso Isitituo Pasteur, e da trent’anni monaco buddhista in Nepal) e Trinh Xuan Thuan (astrofisico, professore all’università della Virginia) dimostrano che questo antagonismo, quando è animato da sincero desiderio di comprensione reciproca, pian piano si dissolve a profitto delle convergenze e di una riconciliazione durevole.

Ha senso un dialogo tra la scienza e il buddhismo? Può il buddhismo portare un contributo valido là dove i limiti della scienza lasciano un vuoto da colmare? Ed è in grado la fisica moderna di fornire al buddhismo degli elementi per la sua esplorazione della realtà?

Matthieu: È impressionante che tu sia passato dal Vietnam a una vita da astrofisico negli Stati Uniti. Che cos’è che ti ha spinto verso la scienza?

Thuan: Gli anni Sessanta sono stati l’età d’oro dell’astrofisica. La radiazione fossile (il calore residuo del big bang) e i quasar (astri di una favolosa luminosità situati ai confini dell’universo, che emettono l’energia di una galassia intera in un volume poco più grande di quello del sistema solare) erano appena stati scoperti. Al mio arrivo negli Stati Uniti l’esplorazione del sistema solare grazie ai satelliti spaziali aveva raggiunto il culmine. […] Al centro di questo fermento intellettuale, era inevitabile che diventassi astrofisico. […]

E tu? Che cosa non ti soddisfaceva nella tua carriera scientifica? Lasciare un laboratorio di biologia a Parigi per un monastero tibetano in Nepal è perlomeno un percorso insolito!

M. – Per me, questa evoluzione si è svolta in una continuità naturale, nel corso di una ricerca sempre più entusiasmante del senso dell’esistenza. […]

Come condurre la mia esistenza? Come vivere in mezzo agli altri? Che cosa mi è possibile conoscere? Sono i tre interrogativi sui quali l’umanità si è arrovellata nel corso dei secoli. L’ideale sarebbe vivere in modo da conseguire un senso di pienezza che ispiri ogni istante e ci consenta d’essere senza rimpianti al momento della morte. Vivendo in mezzo agli altri dovremmo sviluppare un senso di responsabilità universale. Il nostro sapere dovrebbe rivelarci la natura del mondo che ci circonda e quella della nostra mente.

Questi stessi interrogativi sono al centro della scienza, della filosofia, della politica, dell’arte, dell’azione sociale e della spiritualità. Chiudere in modo artificiale in compartimenti stagni queste attività, come accade spesso ai giorni nostri, significa inevitabilmente restringere la nostra visione dell’esistenza. […]

Dal XVII secolo, l’epoca della rivoluzione scientifica, fino ai nostri giorni, un crescente numero di persone ha considerato la scienza come sinonimo di sapere. La crescita esponenziale di informazioni che si accumulano, alimentata dalla scienza, non accenna a rallentare. Parallelamente, la pratica religiosa ha subìto un declino all’interno delle società laiche e democratiche e si è spesso radicalizzata nelle società rette da religioni di Stato. […] Sia che avessero carattere dogmatico o esperienziale, le grandi tradizioni spirituali offrivano, oltre alle loro concezioni metafisiche, regole etiche che costituivano punti di riferimento, talvolta illuminanti, talvolta vincolanti. Al giorno d’oggi, essendosi a poco a poco attenuati questi riferimenti, la maggior parte degli uomini non fonda più i propri pensieri né i propri atti su precetti religiosi, anche se, per tradizione, aderisce a una religione. Si fida più volentieri dei “lumi” della scienza e dell’efficacia della tecnologia, che permetterà, così spera, di risolvere tutti i problemi futuri. Alcuni ritengono tuttavia che la pretesa della scienza di conoscere tutto di tutto sia illusoria: la scienza è fondamentalmente limitata al campo di studio che essa stessa ha definito. E se la tecnologia ha portato immensi benefici, ha  provocato danni perlomeno altrettanto grandi. […]

Gli scienziati non sono né migliori né peggiori degli altri individui e cozzano, come tutti, contro i problemi etici sollevati dalle loro scoperte. La scienza non genera saggezza. Ha dimostrato di poter agire sul mondo, ma solo le qualità umane virtuose possono guidarci a far buon uso del mondo. Ora, queste qualità possono nascere solo da una “scienza spirituale”, o da ciò che qui chiameremo “spiritualità”. Una tale spiritualità non è un lusso, ma una necessità.

Nel corso degli ultimi vent’anni si è instaurato un dialogo tra la scienza e il buddhismo, caldeggiato dal Dalai Lama e da altri pensatori buddhisti. A partire dal 1987, per volontà dell’uomo d’affari Adam Engle e del neurobiologo Francisco Varela, sono stati organizzati periodici incontri tra il Dalai Lama ed eminenti scienziati (neurologi, biologi, psichiatri, fisici e filosofi). […]

La differenza più grande fra la scienza e il buddhismo risiede nelle loro finalità. Per il buddhismo, l’acquisizione di conoscenze avviene prima di tutto per uno scopo terapeutico. Si tratta di liberarsi dalla sofferenza, la cui causa è una forma particolare di ignoranza: una concezione erronea della realtà esterna e un asservimento al punto di vista dell’“io”, che immaginiamo risieda al centro di noi stessi. Il buddhismo pone l’accento sull’importanza di ottenere una visione chiara della natura della mente attraverso un’esperienza contemplativa diretta. […]

Per quanto profonde siano le scoperte del buddhismo, è importante tenere presente, leggendo quest’opera, che l’insegnamento del Buddha non è dogmatico. Si presenta piuttosto come un diario di viaggio che permette di camminare sulle orme di una guida. […]

Le conversazioni che seguono non hanno come obiettivo quello di imprimere alla scienza un’andatura propria del misticismo né di fornire conferme al buddhismo attraverso le scoperte della scienza. Si tratta di collocare la scienza in una concezione più vasta della vita che tenga conto del ruolo essenziale dell’esperienza soggettiva. Si tratta anche di collegare l’apparenza e l’essenza delle cose, mostrando che il buddhismo è in grado di risolvere l’opposizione tra il realismo, che ritiene che i fenomeni esistano nel modo solido e reale in cui sembrano esistere, e le scoperte della scienza moderna (soprattutto nel campo della fisica), che vanno contro questo attaccamento tenace alla realtà intrinseca delle cose. Esso può offrire, proprio da questo punto di vista, un inquadramento di pensiero e di azione coerente per il nostro tempo. […]

Questo dialogo riflette anche due spaccati di vita: quello di un astrofisico nato in una famiglia buddhista che desidera mettere a confronto le sue conoscenze scientifiche con le fonti filosofiche della sua tradizione, e quello di uno scienziato occidentale diventato monaco buddhista e indotto dall’esperienza personale a mettere a confronto due diversi approcci alla realtà. […]

Uno degli interrogativi da sempre più affascinanti per la scienza, e allo stesso tempo denso di implicazioni etiche e religiose, è se l’universo abbia o meno avuto un inizio.

Thuan: Allo stato attuale delle conoscenze, la teoria che meglio descrive l’origine dell’universo è quella del big bang. Si pensa che l’universo sia nato circa quindici miliardi di anni fa in una folgorante esplosione a partire da uno stato di inimmaginabile piccolezza, calore e densità, che avrebbe dato origine anche allo spazio e al tempo. Da allora l’universo è in espansione ed è diventato sempre meno denso e meno caldo. […]

All’inizio la teoria del big bang ha fatto fatica ad imporsi. Tuttavia, alcuni scienziati avevano preso sul serio l’idea di un’esplosione primordiale.

M. – Ma come si è prodotto un tal inizio?

T. – I fisici ci dicono che l’universo è nato dal vuoto. Ma non si tratta del vuoto calmo e tranquillo, privo di ogni sostanza e attività, che potremmo immaginare: il vuoto quantico è ribollente di energia, pur essendo completamente sprovvisto di materia. […]

M. – Un dotto amico tibetano al quale l’ho esposta, ha esclamato: «L’universo, il tempo e lo spazio che cominciano con un grande “bum”, ex nihilo, senza una causa? Ma così si ritorna a postulare l’esistenza di un Creatore che è causa di se stesso!»

Secondo il buddhismo, il tempo e lo spazio sono solo concetti legati alla nostra percezione del mondo fenomenico, e non hanno esistenza propria. In altri termini, non sono “reali”. L’idea di un inizio assoluto del tempo e dello spazio è quindi difettosa secondo il buddhismo: nulla, neppure l’inizio apparente del tempo e dello spazio, si può manifestare senza cause e condizioni, o per dirla in altro modo, nulla può cominciare ad esistere o cessare di esistere. Quindi il big bang può solo essere un episodio all’interno di un continuum senza inizio né fine.

T. – Sollevi la sconcertante questione di cosa sia successo “prima” del big bang. “Prima” tra virgolette, perché se il tempo è apparso con il big bang, questo concetto non era definito.

La scienza ci permette di risalire fino all’istante della creazione? La risposta è no. Per ora esiste un muro della conoscenza che chiamiamo il “muro di Planck”, dal nome del fisico tedesco che per primo si è dedicato ad esaminare questo problema. Il muro di Planck non costituisce un limite fondamentale alla conoscenza: è solo il segno della nostra incapacità di rendere compatibili la meccanica quantistica e la relatività. Dietro il muro di Planck si nasconde una realtà ancora sconosciuta ai fisici: alcuni pensano che la coppia spazio-tempo, così solida nel nostro mondo attuale, vada in frantumi; che il tempo cessi di esistere, e che i concetti di “prima”, “adesso” e “dopo” perdano ogni significato. Lo spazio, separato da quel suo compagno che è il “tempo”, è solo una schiuma quantica informe.

M. – Il buddhismo vede la realtà dell’universo in una prospettiva molto diversa, ritenendo che i fenomeni non siano veramente “nati”, nel senso di passare dall’inesistenza all’esistenza. Essi esistono solamente secondo la nostra verità “relativa”, ma sono privi di realtà ultima o assoluta. La verità relativa, o convenzionale, corrisponde alla nostra esperienza empirica del mondo, al modo ordinario in cui lo percepiamo, e cioè attribuendo alle cose una realtà oggettiva. Per il buddhismo questa percezione è ingannevole. In ultima analisi, i fenomeni sono privi di esistenza intrinseca, e questa è la “verità assoluta”. In questo caso, il problema della creazione è un falso problema, o perlomeno non si pone in termini così acuti come nel caso di una creazione ex nihilo di un universo dotato di esistenza propria. La creazione diventa un problema solo quando reifichiamo i fenomeni.

Questa posizione non esclude tuttavia il dispiegarsi del mondo dei fenomeni. È evidente che i fenomeni non sono non esistenti, ma se esaminiamo il modo in cui esistono, ci accorgiamo che non possiamo considerarli come una serie di entità autonome esistenti di per sé.

Dal punto di vista della verità assoluta, non c’è né creazione, né durata, né cessazione. […]

Possiamo concepire il big bang come un’apparizione del mondo dei fenomeni che sorge da una potenzialità infinita ma non manifesta (che il buddhismo chiama in modo immaginifico “particelle di spazio”). Quest’espressione non designa delle entità concrete, ma una potenzialità dello “spazio”, che si potrebbe forse accostare al vuoto dei fisici, a condizione di non reificare questo vuoto. Ma non può esserci creazione ex nihilo. […]

T. – Allora quale spiegazione dà, il buddhismo, di come sia apparso l’universo? Ha una sua cosmologia?

M. – Sì, senza che questa descrizione sia presentata come un dogma. […]

È importante tenere presente che il concetto di formazione dell’universo appartiene alla verità relativa, al campo delle apparenze. In termini di verità relativa, quindi, il buddhismo parla di “particelle di spazio” intese non come oggetti, ma come potenziale di manifestazione. Si parla poi dell’espressione di questo “vuoto pieno” sotto forma di cinque “venti” o energie (prana in sanscrito), che si manifestano sotto forma di cinque luci colorate che si materializzano a poco a poco in cinque elementi: aria, acqua, terra, fuoco e spazio. La loro combinazione genera un “brodo”, un oceano di elementi che, scosso per effetto dell’energia iniziale, produce i corpi celesti, i continenti e le montagne, e infine gli esseri viventi. Ecco quindi come si forma un universo, nell’infinità di quelli esistenti. Non è prevista una creazione iniziale, perché l’idea di una causa unica è insostenibile.

T. – Nonostante il linguaggio immaginifico, questa descrizione dell’inizio del mondo ha delle risonanze sorprendenti con le idee moderne sulla nascita dell’universo. Siamo lontani da una concezione del mondo come risultato degli amori e degli odi degli dèi. Sono particolarmente incuriosito dalla somiglianza fra la nozione di “vuoto pieno” della scienza e quella del buddhismo.

M. – Certo, ma attenzione: c’è una differenza molto importante. La scienza parla di un universo-oggetto. Per il buddismo l’universo non è indipendente dalla coscienza, e senza cadere per questo nell’idealismo (secondo il quale il mondo sarebbe solo una proiezione della coscienza), diremo che il soggetto e l’oggetto si plasmano a vicenda.

L’accumulazione di concetti e informazioni permette di raggiungere la conoscenza assoluta? Potrebbe, la scienza, rispondere un giorno a tutte le nostre domande sul mondo, e rivelare la “verità assoluta”? Come differisce l’approccio razionale e analitico della scienza dai metodi della scienza contemplativa buddhista?

T.: Nella scienza, i metodi fondamentali delle scoperte sono la sperimentazione e la teoria fondata sull’analisi. Se il buddhismo certo non ignora la ragione e l’analisi, sembra tuttavia che il suo metodo principale sia la contemplazione. Puoi dirmi se la parola “conoscenza” ha lo stesso senso per un buddhista e per uno scienziato? Il tipo di conoscenza che si acquisisce con la meditazione è della stessa natura di una conoscenza razionale? Il contemplativo non deve forse abbandonare il processo analitico della conoscenza scientifica e purificare la sua mente da ogni forma di pensiero e concetto? Non deve forse ridurre il pensiero al silenzio, per arrivare a cogliere la realtà in modo non mediato?

M.: In base ai trattati buddhisti, il termine “logica” (pramana in sanscrito) significa “mezzo di conoscenza corretto”. Questa logica si impone in quasi tutti gli aspetti della conoscenza, scientifici o contemplativi. Si distingue però una conoscenza valida cosiddetta “convenzionale” da una conoscenza valida ultima, o assoluta. La prima ci informa circa l’apparenza delle cose (e ci permette di distinguere uno specchio d’acqua da un miraggio, una corda da un serpente), ma soltanto la seconda ci permette di cogliere la natura assoluta dei fenomeni (la vacuità, l’assenza di esistenza propria). Sono entrambe valide nel loro rispettivo registro.

La logica e la ragione sono anch’esse strumenti che vengono usati nella meditazione analitica, quando si osserva il funzionamento dei pensieri e si mettono in evidenza i meccanismi della felicità e della sofferenza. Si tratta allora di riconoscere il modo in cui funziona la mente: come procede, per percepire una cosa ed elaborarne un’immagine mentale? Quale tipo di eventi mentali favoriscono la nostra pace interiore, e aprono agli altri la nostra mente? Quali processi avranno invece un effetto distruttivo? Questa analisi ci conduce a capire come i pensieri si concatenino per, alla fine, incatenare noi. […]

T.: L’Illuminazione rappresenta forse un livello di conoscenza ancora più elevato?

M.: Vi sono diverse differenze fra l’Illuminazione e la conoscenza ordinaria. Per cominciare, l’Illuminazione non è una conoscenza della molteplicità dei fenomeni esterni e degli eventi mentali, bensì della loro natura essenziale. Anche la modalità conoscitiva è diversa: scompare il dualismo fra soggetto e oggetto, e l’intelletto raziocinante lascia il posto a una coscienza diretta, chiara e risvegliata che si mescola alla natura assoluta delle cose tanto da diventare una con essa. […]

Per essenza, la conoscenza assoluta (l’Illuminazione) è al di là dei concetti. Gli altri mezzi di conoscenza sono tutti incompleti. Una teoria può descrivere solo un aspetto della realtà, giacché si serve di proposizioni limitate dalla natura stessa del pensiero concettuale. Questo limite non ti ricorda il famoso teorema dell’incompletezza del matematico austriaco Kurt Gödel?

T.: Il teorema di Gödel implica che effettivamente esistano, se non altro in matematica, dei limiti al ragionamento razionale. In generale, questo teorema viene considerato come la più importante scoperta logica del XX secolo. […] Nel 1931, propose un teorema che è forse il più straordinario e il più misterioso di tutta la matematica. Mostrò che un sistema aritmetico coerente e non contraddittorio contiene inevitabilmente degli enunciati “su cui non si può decidere”, ossia degli enunciati matematici di cui non si può dire, fondandosi sulla logica, se sono veri o falsi. D’altra parte è impossibile dimostrare che un sistema è coerente e non contraddittorio solo sulla base di assiomi (proposizioni prime, ammesse senza dimostrazione) contenuti in quello stesso sistema. Per dimostrare la coerenza e la non contraddittorietà, bisogna “uscire dal sistema”, e imporre assiomi supplementari che sono esterni a esso. In tal senso, il sistema può solo essere incompleto in se stesso. Ecco perché il teorema di Gödel è molto spesso chiamato anche “teorema dell’incompletezza”. […]

M.: Il buddhismo ha spesso affermato che il pensiero lineare e la logica discorsiva hanno limiti intrinseci; la via dell’Illuminazione non rifiuta la ragione, ma ne trascende i limiti. La ragione non basta per esprimere la verità assoluta, giacché i limiti inerenti alla struttura del ragionamento impediscono una conoscenza diretta dell’assoluto. Per avere una comprensione reale della natura della mente, bisogna spezzare il guscio dei nostri costrutti mentali. L’Illuminazione trascende il pensiero discorsivo che funziona nell’ambito di una dualità soggetto-oggetto.

T.: Lo straordinario risultato di Gödel ha dimostrato che c’è un limite naturale nella conoscenza scientifica; per trascendere questo limite, credo che dovremo fare appello ad altri modi di conoscenza, come quelli che stai descrivendo. […]

T.: La scienza non è effettivamente così obiettiva nell’analisi quanto la descrizione ideale del metodo scientifico potrebbe lasciarci credere. Lo scienziato lavora all’interno di una società e di una cultura e, consciamente o no, è influenzato dalle visioni metafisiche di questa società e di questa cultura. Nell’interpretare i risultati, è influenzato dalla sua formazione professionale: l’apprendistato a fianco dei suoi maestri, le interazioni con i colleghi, la lettura delle opere pubblicate. Dunque, una volta realizzate le osservazioni del mondo esterno e gli esperimenti, l’analisi e l’interpretazione avvengono alla luce dell’universo interiore, fatto di concetti e di teorie, proprio di ogni scienziato. […]

Ma i pregiudizi scientifici non sono tutti negativi. Possono anche essere una grande fonte di ispirazione per il lavoro di uno scienziato. Effettivamente, senza opinione preconcetta, in assenza di qualsiasi paradigma, come potrebbe scegliere, lo scienziato, fra le molteplici informazioni che la Natura gli invia, e decidere quali sono più cariche di significato, quali sono più probabilmente capaci di rivelare leggi e principi nuovi? Questo smistamento della realtà costituisce una tappa essenziale nell’approccio scientifico. I più grandi scienziati sono quelli che hanno saputo esercitare meglio quest’arte, in modo di andare all’essenziale e trascurare ciò che è insignificante. […]

Per uno scienziato, la felicità intellettuale nata dalla scoperta, quando un piccolo lembo del velo che nasconde i segreti della natura si solleva, rivelando aspetti dell’universo fino a quel momento sconosciuti, è molto stimolante. Ma questo non basta a riempire una vita umana. Quegli istanti in cui la verità si svela sono folgoranti, ma brevissimi. Fin dalla nascita della scienza moderna, nel XVI secolo, la nostra conoscenza ha conosciuto una crescita esponenziale, ma non ci ha resi più saggi. La scienza contemplativa può aiutarci ad acquisire questa saggezza. La situazione è urgentissima, perché ora l’uomo ha il potere di disturbare l’equilibrio ecologico del pianeta intero, e persino quello di autodistruggersi; i problemi etici oggi si pongono in modo molto più acuto (soprattutto nel campo della genetica), mentre la differenza fra i poveri e i ricchi non fa che aumentare…

Estratto dall’omonimo libro

Di Matthieu Ricard e Trinh Xuan Thuan