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Non Lasciarmi: pellicola raffinata

di Claudio Asciuti - 08/04/2011

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La fantascienza cinematografica si è andata attestando, a partire dagli anni Ottanta, sue due forme complementari: una per il grande pubblico, tutta effetti speciali e divertimento, con una riverniciata di politicamente corretto giusto per non suscitare accuse di escapismo; e una seconda, ristretta a un pubblico di nicchia, sobria ed elegante, più insidiosa e determinata nel dibattere i problemi attuali. Non lasciarmi (Never Let Me Go, 2010) di Mark Romanek appartiene a questa seconda specie e schiera già dalla partenza un soggetto d’eccezione: il romanzo omonimo pubblicato nel 2005 da Kenzo Ishiguro (Non lasciarmi, Einaudi, 2007), autore anglo-nipponico, nato a Nagasaki e trapiantato a Londra da bambino, che scrive in inglese ed è autore del romanzo Quel che resta del giorno, da cui James Ivory trasse il suo fortunato film nel 1993.
Naturalmente portare in pellicola il bildungromance di Ishiguro nello spazio di due ore non era un lavoro semplice, e infatti la sceneggiatura di Alex Garland lascia parecchi punti sospesi e inspiegati, quasi che la proverbiale ambiguità dello scrittore fosse direttamente trasposta in termini cinematografici. Ma nonostante ciò il film funziona egregiamente e procede lungo un asse temporale che spazia per diversi anni, in un mondo che, sebbene lo si capisca solo in seguito (e per chi ha occhio critico dall’inizio: quando una didascalia ci avverte che nel 1967 l’aspettativa di vita media era di 100 anni...) non è il nostro, ma piuttosto un mondo parallelo o come avrebbe potuto essere.
Una ragazza guarda al di là di un vetro un altro ragazzo che viene portato dentro una sala operatoria e i due si sorridono. Inizia così il suo racconto; Ruth (Ella Purnell), Kathy (isobel Meikle-Small) e Tommy (Charlie Rowe) sono tre bambini rinchiusi nel collegio di Hailsham, dove vivono una strana esistenza, staccati dal mondo esterno, tenuti sotto costante controllo; una loro insegnante spiegherà la verità; sono cloni di esseri umani, nati in provetta, destinati a fornire “organi” ricambio per gli originali. Kathy, innamorata di Tommy, si fa infine da parte quando Ruth comincia a corteggiarlo. Un’ellissi ci fa balzare avanti nel tempo; siamo nel 1985 e i tre bambini sono diventati adulti. Ruth (Keira Knightley), Kathy (Carey Mulligan), che riconosciamo come la ragazza dell’inizio, e Tommy (Andrew Garfield), dall’originale collegio vengono mandati in un altro luogo chiamato Cottages, dove vivono con ragazzi provenienti da diverse istituzioni, anch’essi destinati a diventare “pezzi di ricambio”.
Ruth e Tommy vivono la loro relazione, mentre Kathy sta a guardare e attende che i due finiscano di amarsi, ma inutilmente. In questo clima complesso di sospetti, di paura, di speranza (tutti pensano alla voce che gira per i cloni, a proposito della possibilità di ottenere un differimento al loro uso, se per caso si innamorassero di qualcuno), Kathy decide di diventare assistente; di lavorare cioè a stretto contatto con gli altri cloni, nel momento in cui vengono operati e privati di un organo. Ultima ellissi temporale e siamo nel corso degli anni Novanta: Kathy ha scoperto Ruth che ha già operato un paio di donazioni e sta male, ritrova anche Tommy, che ne ha subìto una. I tre tornano assieme, e Ruth chiede scusa per essersi introdotta nel loro rapporto, e fornisce un indirizzo; là potranno trovare la loro vecchia insegnante che raccoglieva i disegni dei ragazzi, Madame (Natalie Richard) che spiegherà come ottenere il rinvio.
Mentre Ruth muore sotto i ferri, i due ragazzi cercano la donna, che trovano assieme alla loro vecchia insegnante, miss Emily (Charlotte Rampling) per scoprire che comunque non era mai stato previsto un rinvio; e che tutto quel che differenziava Hailsham dagli altri luoghi in cui venivano creati bambini clonati, era il desiderio di mostrare la loro “vera” umanità. Si torna così alla scena iniziale: Kathy sta assistendo all’ultima operazione di Tommy, e scopre in seguito di essere destinata pure lei all’espianto. Il finale, dolorosissimo, lascia Kathy a guardare una piana deserta e a riflettere sulla fine degli esseri umani.
Il tema non è un’assoluta novità, basti pensare a The Island (2005) di Michel Bay sul versante fantascientifico, e su quello realistico La custode di mia sorella (2009) di Nick Cassavetes; ma è resta un argomento che scuscita grande interesse se si considerano le teorie neopositiviste che propongono una liberalizzazione delle nascite in provetta e delle clonazioni come materiale biologico a buon prezzo, uno dei nodi più complessi della questione umana; non la liceità dell’uso del trapianto, l’uomo visto come oggetto di espianti, e sopratutto l’idea della dignità umana, non attraverso le predicazioni ecclesiali e la loro deriva, ma nella forma della domanda: qual è l’essere umano? Cosa differenzia un uomo da materiale da laboratorio? La sensazione di angoscia che coglie lo spettatore, il momento in cui realizza che la vita dei cloni passa attraverso la paurosa attesa della prossima operazione, che potrebbe esser quella letale, cede alla fine il passo a questi interrogativi.
Romanek, alla sua seconda regia, seguendo le indicazioni di Ishiguro trasforma un film di fantascienza in un dolente apologo sull’amore e sulla morte; la sua lettura cinematografica, per sua stessa ammissione molto legata alla lezione di Stanley Kubrick (da cui eredita la stessa freddezza e mancanza di partecipazione, ma anche la cura delle immagini), procede in un futuro indefinito, in un mondo indefinito, tutto racchiuso in spazi claustrofobici che poi si aprono all’improvviso in campi lunghissimi. I colori smorti, plumbei, grigi degli esterni, le giornate nebbiose, la pioggia, le maree si alternano con l’asetticità grigia degli ospedali e di Hailsham, nella sua forma di vecchio college inglese, tutto legno e colori che vorrebbero essere caldi ma finiscono con il risultare altrettanto gelidi. L’effetto generale è straniante, perché un film di fantascienza ucronico girato come se fosse un film drammatico e in cui non c’è ombra di effetto speciale appartiene a quella cinematografia autoriale, americana e britannica, molto particolare, che si è trovata man mano a scomparire di fronte alla fantascienza caotica e confusionaria degli ultimi anni. I suoi esseri umani nati in laboratorio, egregiamente interpretati da Garfield, dalla Mulligan (che vinse il British Independent Film Awards 2010 come miglior attrice) e dalla Knightley, come già i “replicanti” del celebre Blade Runner (1982) di Ridley Scott si interrogano sul loro destino “a tempo” e su ciò che li rende umani, l’arte o l’amore; soffrono, amano, piangono, non osano ribellarsi alla loro condizione di esseri umani casualmente artificiali e ci riportano agli stessi interrogativi che tutti ci poniamo, e tutti senza risposta alcuna. Una pellicola di un pessimismo schopenaueriano che ci annuncia, sottilmente, il destino comune senza alcuna via d’uscita, reso ancor più tragico da una scienza e da una tecnologia che hanno completamente dimenticato la loro originaria genesi, essere al servizio dell’uomo.