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La tradizione sapienziale nella filosofia antica

di Paolo Vicentini - 06/06/2006

 

 

 

 

 

 

 

In anni recenti, alcuni illustri studiosi della filosofia occidentale antica (p. es. J. Dománski, P. Hadot, A.-J. Voelke, M. Foucault) hanno messo in luce importanti aspetti di essa prima trascurati quasi del tutto. In particolare, hanno sottolineato la valenza pratica e spirituale, e non semplicemente astratta e speculativa, dell’insegnamento filosofico antico, evidenziando come questa fondamentale caratteristica costituisse un tratto comune a tutte le scuole filosofiche al di là delle specifiche differenze dottrinarie. In genere, però, questi stessi studiosi non hanno posto sufficiente attenzione sulla continuità fra la tradizione filosofica greca e la tradizione religiosa che l’aveva preceduta, continuità che alcuni filologi classici e storici della religione antica (p. es. G. Colli, N. D’Anna, P. Kingsley, A. Tonelli) hanno ammesso solo limitatamente al periodo presocratico. Spesso, anzi, si è voluto vedere nella nascita della filosofia un processo di abbandono e progressiva razionalizzazione del dato mitologico e religioso ad opera dell’astrazione speculativa, nel corso di quello che è stato abitualmente definito “passaggio dal mythos al lógos”.

In realtà, lo studio delle fonti antiche rivela come la differenza fra la dimensione filosofica e quella religiosa fosse in Grecia molto meno marcata di quanto si possa credere e come la prima rappresentasse uno degli aspetti più interiori e profondi della seconda. Lo stretto rapporto fra tradizione filosofica e tradizione iniziatica greca (orfico-dionisiaca e misterica) lo sta abbondantemente a dimostrare. Non è un caso che uno studioso attento come Victor Magnien abbia potuto utilizzare i testi prodotti entro le scuole pitagoriche e platoniche per ricostruire la progressione delle iniziazioni e delle realizzazioni nell’ambito dei misteri eleusini. Per tali scuole, infatti, la filosofia rappresentava l’insegnamento vòlto alla realizzazione di una sapienza divina caratteristica di quello che la tradizione misterica greca definiva come il sommo grado dell’iniziazione (epopteía).[1] Non solo, ma per trasposizione il termine “filosofia” (spesso inteso come amore per la sapienza ed educazione ad essa) poteva essere considerato come equivalente di “sapienza” (sophía) e “filosofo” come equivalente di “sapiente” (sophós). Del resto l’amore (philía) della sapienza può essere inteso sia come aspirazione a qualcosa che non si possiede, sia come esercizio di qualcosa che si è realizzato, di qualcosa che si “è”. Proprio per questo i grandi filosofi antichi sono considerati più che umani, cioè esseri divini. La sapienza che incarnano e che il loro insegnamento permette di realizzare non è solo “saggezza umana”, ma sapienza divina. Sono molteplici i passi, da Platone ed Aristotele fino a Seneca, che rimandano a questa visione delle cose. Basterebbe solo considerare attentamente questo brano di Aristotele: “non bisogna dunque dar retta a coloro che esortano a esercitare una sapienza umana perché si è uomini, e una sapienza mortale perché si è mortali, ma bisogna, per quanto è possibile, rendersi immortali” (Et. Nich. X.7.1177 b 30).

Meglio di qualunque altra sintesi, un passo di Teone di Smirne ci consente di intravedere l’autentico senso dell’iniziazione filosofia antica: «La filosofia è, possiamo dire, una iniziazione (μύησιν) alla vera perfezione (ὰληϑοῦς τελετὴς) e una trasmissione dei veri misteri (ὰληϑῶς μυστηρίων παράδοσιν). Vi sono cinque parti dell’iniziazione (μυὴσεως). La prima è la purificazione (καϑαρμός) [...]. Dopo questa purificazione, viene la trasmissione dell’iniziazione (τελετὴς παράδοσις). La terza viene chiamata visione (ἐποπτεία). La quarta, che è la perfezione della visione (τέλος τῆς ἐποπτείας), è la fasciatura (ἀνάδεσις) e l’imposizione della corona (στεμμάτων ἐπίϑεσις), con la quale si è in grado di trasmettere agli altri le iniziazioni (τελετάς) acquisite, sia attraverso il portare le fiaccole (δᾳδουχίας) sia attraverso il mostrare le cose sacre (ἱεροϕαντίας) o qualche altro ufficio sacerdotale (ἱερωσύνης). Al quinto e ultimo posto, risultato di tutto quanto precede, troviamo la felicità (εὺδαιμονία) che deriva dall’essere amato da Dio (ϑεοϕιλὲς) e dalla vita con gli dei (ϑεοὶς συνδίαιτον)» (Teone di Smirne, Expositio rerum mathematicarum ad legendum Platonem, pp. 14-15 Hiller = pp. 20-23 Dupuis).

Scendendo più in profondità nell’esame delle fonti antiche è possibile ricostruire le tappe principali del percorso conoscitivo misterico. Dopo un primo grado di iniziazione, definibile come “iniziazione secondo Hestia” e che rientra nell’ambito della polis, vi è il conferimento dei “piccoli misteri”. Questi corrispondono alla prima fase di reale purificazione e permettono di conseguire l’iniziazione vera e propria (teletè), o almeno il suo primo grado superiore. Seguono quindi i “grandi misteri” (epopteía), che vengono poi perfezionati attraverso una serie di dignità sacrali al culmine delle quali sta la vita beata: la felicità (eudaimonía). In ambito pitagorico-platonico, strettamente connessa a questa progressione sapienziale vi è la pratica delle virtù cardinali. Una buona sintesi di tutto ciò si può trovare in alcuni passi delle Sentenze sugli intellegibili di Porfirio. Porfirio spiega chiaramente come le quattro virtù cardinali possano essere praticate secondo quattro progressivi gradi di profondità (in base ai quali esse vengono definite via via “virtù politiche”, “virtù catartiche”, “virtù contemplative”, “virtù paradigmatiche”) che equivalgono a relative categorie di realizzazione, denominate da Porfirio “uomo onesto”, “uomo demonico”, “Dio”, “Padre degli dei” (Sent. 32 = 39 Della Rosa). Questa progressione corrisponde pressoché esattamente a quella dei misteri e non a caso il termine Padre (Pater) indicava nel mitraismo il grado sommo della gerarchia iniziatica in cui non si era più soggetti al ciclo delle rinascite (cfr. Porfirio, De abst. IV.16).   

 



[1] Cfr. Plutarco: «E’ sempre puro il principio, non può essere mescolato ciò che è primo e intelligibile. [...] E l’intuizione (νόησις) dell’intelligibile, del puro e del semplice, che lampeggia attraverso l’anima come un fulmine, permette talvolta di toccarlo (ϑιγεῖν) e di contemplarlo (προσιδεῖν) tutto d’un tratto (ἅπαξ). E’ per questo che Platone e Aristotele chiamano epoptica (ἐποπτικὸν) tale settore della filosofia: alludendo cioè al fatto che quanti siano riusciti a superare con la ragione (τῷ λόγῷ) il mondo dell’opinabile, del composto, del multiforme, si slanciano verso ciò che è primo (τὸ πρῶτον ἐκεῖνο), semplice e immateriale; e se giungono a toccare direttamente (ϑιγόντες ἁπλῶς) la verità pura riguardo ad esso, ritengono di possedere la filosofia come nel sommo grado dell’iniziazione (οἶον ἐν τελετῆι τέλος)» (De Iside et Osiride 382 d-e).

 

presentazione della conferenza tenuta a Treviso

sabato 19 marzo 2005 al convegno su  La nascita dello spirito. 

Iniziazione alla saggezza tra Oriente e Occidente  organizzato  dall’AEF

in collaborazione con l’Associazione Perennia Verba ONLUS