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Siamo condizionati a recitare ciecamente, sino in fondo, un ruolo che non è il nostro?

di Francesco Lamendola - 15/04/2011




Dieci anni fa, l’11 giugno del 2001, a Verona, nello Stato di New York, ebbe luogo un evento sportivo per certi aspetti sensazionale: la sfida sul ring, per la categoria dei pesi supermedi, fra la trentanovenne Jacqui Frazier-Lyde, madre di tre bambini, e la ventitreenne Laila Alì, due pugili professioniste.
Che cosa c’era di spettacolare e di altamente drammatico in tale incontro, peraltro nell’ambito di una disciplina sportiva - la boxe femminile - che non aveva, e non ha, conquistato mai grandi consensi presso il pubblico americano? Il fatto che si trattava delle figlie dei due celeberrimi campioni del mondo dei pesi massimi, Joe Frazier e Muhammad Alì (all’anagrafe Cassius Clay), protagonisti, fra il 1971 e il 1975, di un’epica rivalità che li vide per tre volte incrociare i guantoni, entusiasmando fino al delirio le platee di tutto il mondo.
Per completare il quadro psicologico dell’incontro, bisogna aggiungere che Joe Frazier e Muhammad Alì non si erano mai considerati come degni avversari l’uno dell’altro: il loro era sempre stato un rapporto rancoroso e vendicativo; in breve: non si erano mai potuti soffrire. E perfino a distanza di oltre un quarto di secolo, trovandosi di nuovo insieme per assistere al match delle rispettive figlie, avevano evitato di stringersi la mano e addirittura di salutarsi, continuando a scoccarsi velenose dichiarazioni per mezzo dei giornalisti presenti.
Lo sport cavalleresco: roba d’altri tempi…
Nulla di strano, comunque, nel fatto che i figli siano spronati a seguire le orme dei padri; anche se, in questo caso, si tratta di figlie femmine che intraprendono una carriera durissima, come quella della boxe professionistica; e anche se i padri in questione sono stati dei giganti dello sport mondiale, dei miti pressoché irraggiungibili per qualunque figlio.
Quello che lascia pensosi, in situazioni come questa, anche al di là del caso specifico relativo alla carriera delle due campionesse, è il peso del condizionamento che i giovani subiscono dall’ambiente familiare nell’indirizzare la propria vita, nell’elaborare mete e valori, nell’ereditare simpatie e antipatie, odî ed amori.
Le fotografie di quel match sono eloquenti: nei volti tesi delle due antagoniste, trasformati, via via che lo scontro si faceva sempre più duro, in smorfie di sofferenza, di aggressività, di furia distruttiva, sino a diventare delle autentiche maschere di sangue e rabbia, tumefatte, stravolte, quasi irriconoscibili, sembra concentrarsi un destino, una fatalità inesorabile, come quella dell’antica tragedia greca, di un Edipo e sua madre Giocasta, o dei due fratelli Eteocle e Polinice.
Che cosa è la nostra vita, dunque: un copione già scritto da altri, dai nostri genî, dall’influenza dell’ambiente, dai desideri dei genitori, dalle aspettative della società, dai modelli culturali sia familiari che collettivi?
Quanto c’è veramente di nostro in quelli che chiamiamo i nostri amori e i nostri odî, nelle nostre paure e nei nostri desideri, nelle nostre speranze e nei nostri scoraggiamenti; e quanto, invece, è frutto di un condizionamento, esplicito o implicito, di cui sovente non siamo consapevoli o che, pur essendone consapevoli, crediamo coincidere con la nostra propria volontà e, dunque, essere frutto di una nostra libera scelta?
Certo, da che mondo è mondo, i genitori tendono a proiettare sui propri figli le speranze deluse, i desideri repressi, i sogni frustrati della loro giovinezza; a coinvolgerli nelle loro passioni viscerali, nelle loro idiosincrasie, nelle loro nevrosi malamente occultate; sta ai figli, crescendo, trovare la propria strada, costruire la propria identità vera”.
Tutto molto chiaro e molto semplice, in teoria; nondimeno, sappiamo bene che una cosa è la teoria e un’altra cosa è la pratica.
Al termine di una gara di ciclismo femminile, abbiamo visto con i nostri occhi un padre gettare la bicicletta addosso alla figlia, che non era riuscita a piazzarsi tra le prime e, quindi, a salire sul podio; l’abbiamo visto insultare e schiaffeggiare la ragazzina, che, stremata, ce l’aveva messa proprio tutta e si è trovata poi a subire l’umiliazione di una simile aggressione.
Un casto patologico? Certamente; ma chissà quanti casi, benché meno clamorosi, meno visibili, di condizionamento psicologico e di vero e proprio ricatto affettivo, si verificano ogni giorno, ogni momento.
Alessandro Manzoni ne ha descritto uno in maniera esemplare: quello della piccola Gertrude, destinata dalla terribile volontà paterna a farsi suora e a ciò indotta con sottile, incessante, subdola abilità, giocando alternativamente sul suo orgoglio di casta e sui sensi di colpa in lei provocati a bella posta, per poterla più facilmente manipolare.
Risultato: alla fine la sventurata ragazza si è convinta che quella del convento era, per il suo stesso onore e per il suo stesso bene, l’unica strada che le rimanesse aperta; e, pur non volendo assolutamente farsi suora, ha finito per precipitarsi nella vita monacale con una sorta di furia autodistruttiva, credendosi a ciò costretta dalle circostanze, ma senza individuare il vero regista occulto di quella infernale manovra ai suoi danni: l’astuta e immensamente egoista figura paterna.
Questioni grosse; questioni che travagliano il pensiero umano da secoli, da millenni; questioni che fan tremare le vene e i polsi.
In buona sostanza, si tratta nientemeno che del libero arbitrio: siamo liberi di scegliere la nostra vita, oppure siamo solo dei miseri burattini di una commedia assurda e incomprensibile, come pensava Luigi Pirandello e come sembra pensare buona parte della cultura moderna, specialmente di aerea esistenzialista?
E, beffa suprema: non potrebbe darsi che siamo più condizionati proprio quando, valutando la questione, riteniamo di aver fatto una serie di scelte assolutamente libere, le quali, guarda caso (ma per pura combinazione, s’intende) concordano o coincidono perfettamente con quel che altri desideravano, con quel che altri si aspettavano da noi?
Oh, certo, è consolante vedere che, alla fine, la nostra libera scelta va proprio nella direzione delle aspettative della famiglia, del gruppo, della società; che vi si adatta talmente bene, da far pensare a una mirabile armonia, addirittura a una fusione dell’una nelle altre.
Tutto questo fa venire in mente il noto apologo del conformista che, dopo aver letto ogni santo giorno, per trent’anni o più, sempre lo stesso giornale, un giorno se ne esce a dire alla moglie, con una dose ineffabile d’involontaria autoironia: «Sai, cara, è curioso: ma mi sono accorto che più passa il tempo e più il mio giornale mostra di pensarla esattamente come la penso io».
Ora, non nutriamo di certo la pretesa di risolvere in queste poche righe una questione di così grande rilevanza filosofica e morale, come quella del libero arbitrio; più modestamente, ci limitiamo a svolgere una breve e parziale riflessione.
Che ciascun essere umano, al momento della nascita, anzi, al momento del concepimento, sia già caricato di un destino che dipende, almeno in parte, da fattori biologici e, poi, culturali e affettivi, a lui esterni, sui quali nulla può la sua libera volizione, questo ci sembra indubitabile: sostenere il contrario sarebbe, alla lettera, impossibile.
Ciò premesso, si tratta, evidentemente, di vedere se e quanto spazio rimane alla libertà di scelta, una volta fatta la tara del bagaglio dei cromosomi, dell’educazione, delle pressioni sociali e culturali che la vita, nel suo complesso, esercita su di lui.
Ebbene: per quanto vada assai di moda sbandierare l’assoluta impotenza dell’uomo davanti alla sorte, al caso, alla fatalità o a cento altri fattori, e poi versare abbondanti lacrime sul suo amaro destino di alienazione o, magari, sfoderare qualche cinica risata sulle sue pretese di autonomia, crediamo, con altrettanta chiarezza ed evidenza, che sia impossibile negare che rimane un margine di libertà cospicuo o, in ogni caso, sufficiente a decidere l’indirizzo generale che alla propria vita egli intende dare, con tutte le relative conseguenze.
Ciò non significa che tale margine sia uguale per tutti: è piuttosto evidente che per alcuni è maggiore che per altri; e, che per taluni, si riduce fino ai minimi termini: tuttavia, esso è sempre presente, in maniera proporzionata alle necessità del caso.
Per fare un esempio: l’odio dei padri si trasmette ai figli; ma sta ai figli decidere se farsi continuatori di esso, coinvolgendo pure i nipoti, o se imboccare una strada diversa, spezzando la catena maligna che li teneva imprigionati in un destino apparentemente immutabile.
Certe storie di mafia, che riportano alcune famiglie nel pieno dell’atmosfera tragica di Eschilo o di Sofocle, lo mostrano chiaramente; anche se nessuno - con buona pace degli stregoni psicanalisti - potrà mai scandagliare sino in fondo i più oscuri recessi dell’anima e dire, in maniera assolutamente inequivocabile, cosa spinga un figlio o una figlia ad accettare la catena delle passioni ricevuta in eredità dai genitori e che cosa, invece, lo induca a respingerla e a romperla, per guadagnare la propria autonomia e costruire il proprio vero Sé.
Tale è il compito della vita umana: rispondere alla chiamata, adempiere alla vocazione dell’Essere: che non è vocazione alla morte, ma alla vita; sempre. Chi non ha compreso questo, chi si immagina che noi siamo qui per caso o per cogliere fiori, sino a quando avremo la forza per farlo, prima di sparire nel nulla, crediamo abbia compreso ben poco di ciò che veramente importa e di ciò di cui ci verrà chiesto di rendere conto: non da altri, ma dalla nostra stessa coscienza.
Tutte le mamme che sgomitano per spingere le figlie ai provini televisivi, magari arrivando a farle prostituire pur di farle notare da qualcuno che conta, e tutti i padri che esigono dai figli risultati di prim’ordine nello sport, negli studi o in qualunque altro ambito, farebbero bene a riflettere seriamente sulla assurdità di condurre, sulla pelle dei pargoli, la loro personale battaglia contro i fantasmi del proprio passato:.
Si tratta di una battaglia, infatti, che non potranno mai vincere, perché nessuno ha mai vinto combattendo contro dei fantasmi; ma che, in compenso, quasi certamente riuscirà a rovinare la vita dei loro ragazzi.

Ah, stavamo quasi per dimenticarcene.
Come è andato a finire il match tra la bella e giovane figlia di Muhammad Alì e la (meno) bella e (meno) giovane figlia di Joe Frazier?
Chissà quanto desiderio di compiacere i rispettivi genitori, di “vendicarli”, di ottenere la loro approvazione e una dose supplementare di amore paterno, avranno animato le due donne, mentre si picchiavano di santa ragione, facendosi volare il paradenti e regalandosi tumefazioni innumerevoli, con zelo e tenacia davvero impareggiabili…
Deliziosa ironia della storia e maliziosa fatalità dei corsi e ricorsi di vichiana memoria: ci si sarebbe aspettati una vittoria di Jacqui, se è vero, come è vero, che l’animo umano considera la rivincita come un giusto ristabilimento dell’equilibrio cosmico, nonché come una accettabile forma di compensazione e di risarcimento per le passate umiliazioni, oltre che per pareggiare eventuali vantaggi estrinseci, quali la bellezza e la giovinezza.
Invece ha vinto Laila, sia pure ai punti, dopo otto round e con un verdetto non unanime da parte della giuria: un voto, infatti, si è espresso in favore del pareggio, gli altri due in favore della seducente e grintosa figlia di colui che, con irritante megalomania e con sfrenato narcisismo, si autodefiniva senz’altro “il più grande”.
Guarda caso, anche i due padri avevano regolato i loro conti, una trentina d’anni prima, secondo un copione quasi identico: una vittoria a Frazier e due vittorie, in successione (mancata rivincita compresa), a Muhammad Alì: curioso, vero?
Per chi crede nella simmetria dell’universo e nella legge del contrappasso, è stata dunque una delusione.
Però, al tempo stesso, quel verdetto, sia pure controverso, suggerisce interessanti riflessioni sulla ruota del karma e sul peso del destino che i padri (e, ovviamente, la madri) riversano sui propri figli, a volte inconsapevolmente, altre volte - come in questo caso - con la perfetta e testarda volontà di risarcire se stessi attraverso le botte e gli occhi pesti della loro prole…