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Una crociata per la decrescita

di Daniela Salvini - 16/04/2011

 




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Da poco si è svolto a Torino un seminario, promosso da Uniti e Diversi, su decrescita e lavoro. Pochissimi erano gli iscritti a Movimento Zero che vi partecipavano e la cosa non deve essere stata per niente casuale. Si vuole andare verso un nuovo soggetto politico ma le varie anime che aderiscono a questo progetto tendono a distinguersi ancora nettamente.
MZ ambisce a non rendere centrali gli aspetti economici che nell'attuale sistema sono fin troppo pervasivi. Eppure per ogni cambiamento che avverrà o che possiamo anche solo semplicemente auspicare non si può non prevedere un cambiamento radicale del modello economico esistente, e immaginarne un altro che permetta di ridimensionare gli sprechi, il tempo di lavoro, che metta la sopravvivenza della comunità come valore centrale, che promuova un diverso modo di vivere compatibile con la nostra storia e cultura, che valorizzi altre priorità, più spirituali, nella vita degli uomini.
Per il momento mi pare che il movimento della decrescita sia quello che più di ogni altro si propone di riportare al centro della vita delle persone valori che MZ condivide, negando il primato delle teorie economiche tradizionali, cosiddette scientifiche, pur nell'ambito delle scienze umane o sociali, liberiste o marxiste, contestandole perché basate sullo sviluppo ipertrofico della produzione, dell'investimento e del consumo. La decrescita non è ancora una teoria economica in grado di contrapporsi ad armi pari, tuttavia sono da ritenersi importanti, a mio parere, le tensioni e le tendenze che innesca e scatena, con l'effetto di superare la visione univoca di individui isolati, che nel loro agire mostrano di credere solamente nella ricchezza in sé, e si limitano a produrre, consumare, crepare. La mercificazione sempre più estesa e profonda della persona umana e dei suoi rapporti sociali è il presupposto e conseguenza di questo modo di vedere la vita.
Sottrarsi a questo è diventata un'esigenza pressante e giusta. Perciò sono grata a Pallante che si sforza all'estremo di trovare strade praticabili per sottrarsi a un meccanismo infernale, da cui nessuno può davvero chiamarsi fuori, anche quando personalmente tenta di ridurre la propria impronta ecologica o di cambiare le proprie relazioni umane all'insegna della convivialità esaltando il principio del dono. Lui  considera questo sforzo un dovere morale nei confronti delle future generazioni, anche nel caso in cui questa ricerca fosse ormai tardiva.
Massimo Fini, dal canto suo, prospetta il dubbio che un tale comportamento possa essere tutto interno al sistema, quasi riformista, in grado di ritardare il crollo che si profila all'orizzonte. Non mi sottraggo a questo dubbio quando penso che la tecnologia alternativa ricercata da Pallante potrebbe, se applicata, essere sfruttata dal sistema, per far accettare ai meno abbienti le restrizioni che si renderanno necessarie per la penuria di risorse. Basta col welfare, basta con livelli di salario alti! Che la maggioranza delle persone si arrangi con il poco! Se il popolo accetta questo principio non sorgerà ribellione, non ci sarà questione sociale, e la minoranza ricca del pianeta, in quanto minoranza, potrà vivere nell'extra-lusso senza danneggiare in modo insopportabile il pianeta. Alla fine dei conti, da questo ragionamento ne potrebbe discendere, estremizzando, una svalutazione della decrescita e quasi un elogio a chi vive consumando allegramente, o inquinando tranquillamente, o depredando altri indifferentemente.
Trovo però una contraddizione in questo ragionamento. Se davvero una crisi sistemica è legata allo squilibrio fra offerta e domanda di merci e servizi, se la tendenza a produrre sempre di più a costi sempre più contenuti, a produttività sempre crescente, a basso contenuto di lavoro e quindi con crescente disoccupazione, alla ricerca del massimo profitto, si scontra con un impoverimento progressivo e diffuso della popolazione, che può accostarsi sempre meno alla mensa degli oggetti che procurano il cosiddetto benessere, allora anche un comportamento volontario decrescista, non precisamente e strettamente legato alla penuria di risorse, va nello stesso senso. Allora anche questo comportamento può accelerare lo stesso squilibrio e quindi essere, per ciò stesso, antisistema.
In questa ottica mi viene da pensare che il movimento della decrescita, effettivamente, educando le persone a fare a meno di cose inutili, possa raggiungere due grandi obiettivi: quello di liberare le persone che la praticano dal conformismo e da un certo tipo di sofferenza, quello di far implodere il sistema più presto.
Molto efficaci sono le parole di Fini al riguardo: “L'attuale modello di sviluppo, dopo aver preteso dalle popolazioni del Primo e del Terzo Mondo disumani sacrifici umani, in termini di lavoro, di fatica, di stress, di angoscia, di nevrosi, di depressione, di infelicità, non saprà più a chi vendere ciò che produce. E un sistema che si basa sulle crescite esponenziali, che esistono in matematica ma non in natura, nel momento in cui non potrà più crescere imploderà su se stesso. Sarà uno Tsunami economico planetario. Si salveranno gli indigeni delle Isole Andamane, che già se la cavarono senza un morto né un ferito nello tsunami marino di qualche anno fa, che hanno continuato a vivere di caccia, di pesca, di agricoltura.”
Se fosse così, chiunque propugni e pratichi la decrescita, potrebbe essere un andamano tra di noi, una persona che combatte, magari inconsapevolmente, una crociata antimoderna, uno dei pochi che si potrebbe salvare. La decrescita deve essere quindi una bandiera, un simbolo da impugnare con decisione.