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La difficoltà di farsi capire dagli altri è il riflesso della difficoltà di capire se stessi

di Francesco Lamendola - 16/04/2011

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Gli altri non ci capiscono.
Pare che lo facciamo apposta: noi vorremmo starcene soli, e loro ci vengono a seccare; oppure vorremmo compagnia, e loro ci lasciano da soli, come cani.
Vorremmo manifestare brio, vivacità, arguzia; e loro che cosa capiscono? Che stiamo facendo i caustici, che ci siamo spazientiti o perfino arrabbiati.
Certo, anche loro…
Vorrebbero che noi ci facessimo avanti per primi, ma noi non lo facciamo, oppure lo facciamo maledettamente fuori tempo; vorrebbero che mettessimo un po’ le carte in tavola, e noi niente, ce ne stiamo più che mai sulle nostre…
Da che mondo è mondo, ci piace immaginare che tutte le nostre difficoltà relazionali, affettive, sentimentali, dipendano dall’incapacità di essere capiti dagli altri e, forse - quando ci sentiamo abbastanza magnanimi da ammetterlo, almeno in via teorica - da una analoga difficoltà, da parte nostra, di capire loro.
E con questo pensiamo di aver sistemato tutto: perché, se la difficoltà del comunicare è oggettiva, allora non c’è nulla da fare, non ne verremo mai a capo e non resta altro che sopportarla stoicamente, così come si sopportano, con pazienza, la grandine e la canicola, la siccità e le piogge torrenziali, aspettando che finiscano.
Non dipende da noi modificare un tale stato di cose: per quanta buona volontà ci mettiamo, la cattiva interpretazione dei nostri sentimenti e delle nostre intenzioni sarà, comunque, pressoché inevitabile; e così quella altrui, da parte nostra.
Siamo monadi senza porte e senza finestre, come diceva un certo filosofo; perfino il linguaggio che adoperiamo sembra, talvolta, identico a quello degli altri, mentre non lo è affatto: quando diciamo la stessa cosa, la stessa parola, in realtà stiamo dicendo qualcosa di completamente diverso da ciò che intendono gli altri, perché noi e loro stiamo pensando due cose del tutto differenti, in maniera del tutto differente.
Semplice, no?
Ecco, questo è un esempio di come siamo bravi nel costruire tutta una antropologia, e perfino una filosofia del linguaggio, al solo scopo di placare il nostro disagio più profondo e di rassicurarci sul fatto che non è colpa nostra se non riusciamo a fare sì che il prossimo ci capisca, né che noi riusciamo a capire lui.
Il bello è che una simile “spiegazione” non presenta nemmeno il vantaggio di suggerire una via d’uscita dal punto morto, per quanto effimera o francamente illusoria: oltre a non spiegare nulla, non apre il benché minimo spiraglio di speranza che le cose possano cambiare, magari a determinate condizioni.
È una “spiegazione” che ci lascia soli con tutto il nostro malessere, con tutta la nostra angustia, con tutta la nostra amarezza; soli e impotenti: in compenso, offre la magra consolazione di scolparci da eventuali responsabilità, di scaricare ogni colpa sugli altri o sul destino.
Non è molto, però è sempre meglio di niente: o, almeno, così sembra, allorché si è in uno stato d’animo abbastanza vicino alla disperazione cronica, ossia alla più pericolosa di tutte le forme di abdicazione esistenziale: la tranquilla disperazione quotidiana.
Certo, bisogna proprio aver toccato il fondo, per preferire una simile “soluzione” ad un esame un po’ più attento, un po’ più coraggioso, un po’ più intellettualmente onesto, della nostra difficoltà di comunicare con gli altri, dal quale, forse, potrebbero scaturire delle nuove prospettive o delle possibili soluzioni; ma è un fatto che moltissime persone si accontentano di vivere così: e il bello è che una gran parte di esse non ne è neppure consapevole.
Chi si adatta a  vivere in un tale stato di tranquilla disperazione, pur rendendosene conto, è come se fosse già morto per metà; e chi si adatta a viverci senza nemmeno esserne consapevole, convinto anzi di vivere una vita normalissima, quello è morto del tutto.
Non sente il fetore del proprio cadavere in putrefazione, per il semplice fatto che gli organi di senso d’un cadavere non funzionano più; e questo è tutto.
Se, però, non siamo disposti a vivere una vita così pietosamente mutilata; se non siamo disposti a rassegnarci ad essere già morti dentro il nostro cadavere, allora c’è qualcosa che possiamo fare per reagire, anche se nessuno ci potrà garantire il risultato.
E la prima, la primissima cosa da fare, invece di lamentarsi della fallacia della comunicazione fra noi e gli altri, è quella di controllare che funzioni quella con noi stessi, ossia che esistano le condizioni minime della comunicabilità.
Il più delle volte, per non dire quasi sempre, se qualcosa non ha funzionato nella comunicazione fra noi e l’altro, ciò non è che il riflesso di un corto circuito della comunicazione avvenuto fra il nostro piccolo io, che crede sempre di agire in buona fede e in perfetta linearità e trasparenza, ed il nostro Sé, che giace dimenticato da qualche parte o che, addirittura, non abbiamo nemmeno incominciato a realizzare.
Infatti, se a parlare e ad agire per noi non è il nostro Sé, frutto di un percorso interiore che ci abbia portati a realizzare pienamente le nostre possibilità umane, ma soltanto il nostro piccolo ego, meschino, capriccioso e sommamente inconsapevole, allora possiamo essere pressoché certi che gli altri non riceveranno da noi il messaggio, completo e comprensibile, che credevamo di avere inviato loro, ma solo un guazzabuglio confuso e indecifrabile, simile a una lunga lettera i cui fogli siano stati dispersi dal vento e che ora si presentino senza il minimo ordine logico.
In fondo, si tratta di un concetto tremendamente semplice.
La comunicazione con gli altri esseri umani (e anche con quelli non umani: ma questo, per ora, è un altro discorso) è un privilegio del quale bisogna essere degni; e non già un “diritto” riservato a chiunque, indipendentemente dalle sue intenzioni e dalla sua consapevolezza.
Possiamo prendere, come paragone, la storia del Graal e della sua ricerca da parte dei Cavalieri della tavola Rotonda.
Il Santo Graal, custodito nel misterioso Castello di Carbonek,  dimora del re Pelles, è inaccessibile a chi non sia di cuore perfettamente puro: per questo la maggior parte dei suoi ricercatori non riesce nemmeno a giungere in vista del castello.
Solo i cavalieri che possiedono una eccelsa virtù spirituale riusciranno, alla fine, dopo aver superato innumerevoli difficoltà e pericoli, a scorgere il castello; e solo tre di essi, Galahad, Parsifal e Bors, riusciranno a contemplare il divino splendore del Graal; dopo di che, i primi due saranno chiamati in Cielo e solo l’ultimo, ormai vecchio e canuto, potrà fare ritorno a Camelot per raccontare a re Artù, alla regina Ginevra e agli altri cavalieri superstiti la sua straordinaria esperienza.
Lancillotto era partito anch’egli alla ricerca del Graal, animato da grandi speranze; e, invero, per il suo valore ed il suo coraggio, sarebbe stato certo il più degno di trovarlo; ma nella sua anima si annidava un’ombra: l’amore proibito per Ginevra, che lo rendeva indegno di coronare la sua impresa col successo.
Egli ne divenne consapevole a poco a poco e a nulla gli valse la confessione del suo peccato all’eremita Nascien e la dura penitenza intrapresa indossando il cilicio, digiunando e pregando: il Graal non si lasciava nemmeno avvicinare da chi non avesse un’anima assolutamente pura.
Secondo il racconto di Chrétien de Troyes, Tristano, a un certo punto della sua ricerca, giunse a intravedere il Santo Graal, ma fu colpito da cecità e cadde in un sogno comatoso, che sarebbe durato tanti anni, quanti erano quelli che egli aveva passato nell’amore adultero per la moglie del suo re: tale era la ferrea legge che teneva lontani dal Graal i cavalieri indegni e rendeva vani tutti i loro sforzi per raggiungerlo.

Ebbene, per la comunicazione fra noi e gli altri avviene la stessa cosa; e non è una forza esterna a renderla distorta o impossibile, ma una realtà interiore: se siamo in palese contraddizione con noi stessi, allora è evidente che non potremo farci capire dall’altro.
Vi è qualcosa di sacro nel rapporto fra l’io e il tu, qualcosa che non ammette furbizie, insincerità o stratagemmi di alcun tipo: o si è puri e trasparenti con se medesimi, oppure le nostre parole e le nostre azioni non riusciranno mai a gettare un ponte fra noi e il prossimo, ma, al contrario, esse provocheranno mille equivoci, fraintendimenti, malintesi.
Vi è una grande responsabilità nelle parole e nei gesti che rivolgiamo ai nostri simili (e anche, come abbiamo accennato, alle altre creature): nessuna manipolazione, nessuna bassa astuzia è consentita; e, comunque, per una legge olistica che nasce dalla vita stessa, esse finiranno per ritorcersi contro di noi, in una maniera o nell’altra.
Proprio perché il comunicare, a livello profondo, è un rapporto sacro fra un’anima e un’altra anima, esso non si esaurisce in una relazione fra due esseri, ma ne coinvolge un terzo, che è il supremo garante della loro lealtà e sincerità: l’Altro per eccellenza, l’Essere in quanto tale.
Ogni parola, ogni frase, ogni promessa ed ogni rimprovero che si scambiano due esseri umani, si svolgono alla muta presenza dell’Essere; e ogni volta che la giustizia viene infranta dalla slealtà, dall’inganno, dalla malafede, ciò non avviene nell’ombra complice dell’astuzia umana, ma nella luce sfolgorante dell’Essere e possiede già in sé le ragioni della propria mortificazione futura: perché nessuna azione, buona o cattiva che sia, rimane senza conseguenze di breve, media o lunga portata.
Tutto è legato a tutto; ogni cosa risponde a una legge cosmica, ad un ordine superiore il cui disegno complessivo sfugge alla vista dei mortali, i quali credono di vedere molto, specialmente se inorgogliti della loro pretesa scienza, mentre invece sono assai miopi.
Da quanto abbiamo detto, appare chiaro che, per essere degni di comunicare con l’altro in maniera profonda, dobbiamo imparare cosa sia la vera amicizia: e la prima forma di amicizia che dobbiamo imparare è quella con noi stessi.
Noi crediamo di essere i migliori amici di noi stessi, ma non è vero: ogni volta che mentiamo a noi stessi, ogni volta che non abbiamo il coraggio di riconoscere la nostra verità interiore, noi ci comportiamo non come degli amici, ma come dei nemici di noi stessi: perché come dei nemici cerchiamo di ingannarci adoperando la frode.
Certo, il più delle volte lo facciamo con l’intenzione di proteggerci, perché sentiamo di non essere capaci di guardare in faccia la nostra verità, di riconoscere i nostri veri pensieri e sentimenti: ma è un rimedio assai peggiore del male, perché da esso non trarremo alcun giovamento, se non quello - apparente e ingannevole - che ci farà sprofondare sempre più nell’inautenticità, fino al punto di non saper riconoscere le nostre stesse menzogne.
Quando ciò dovesse avvenire, saremmo perduti: chi, per abitudine, mente a se stesso, convinto di essere sincero, è un’anima persa, che difficilmente riuscirà a trovare mai più la strada della redenzione e della rinascita, la strada del proprio autentico Sé.
Siamo quasi tutti tremendamente ignoranti riguardo a noi stessi, per la grande paura che abbiamo di guardarci dentro senza veli e senza ipocrisie; peggio ancora facciamo allorché ci rivolgiamo, per aiuto, agli stregoni della psicanalisi, invece di fare appello alla nostra verità interiore e rimetterci all’aiuto della forza benefica che viene dall’Essere.
Colui che impara a divenire amico di se stesso, impara a non mentire a se stesso; e chi ha imparato la lealtà verso di sé, ha creato le premesse per mostrarsi leale verso l’altro: ciò che è la base della vera ed efficace comunicazione fra due anime.
A quel punto, saranno difficili gli equivoci e i malintesi: le parole non saranno male interpretate, perché il Terzo che veglia silenzioso, testimone e garante della verità, garantisce anche la lealtà della comunicazione.
Per questo comunicare con l’altro, a livello profondo, non è una cosa semplicemente umana, ma, alla lettera, una cosa sublime, un atto divino.