Si resta per un attimo interdetti davanti allo scorpione che spicca sulla copertina dell’ultimo lavoro di Massimo Fini, Il Ribelle dalla A alla Z (Mondadori, Milano 2006, pp. 295, euro 17.00). In genere gli aracnidi non sono proprio di bell’aspetto… Ma, basta girare il libro per scoprire in controcopertina, come compensazione, un piacente Massimo Fini, nel casual look da professore della Berkeley che gli è solito: non sorride, ma benevolo, fissa il lettore.
Del resto mai fermarsi alle copertine. E probabilmente lo scorpione è lì a indicare la natura “urticante” dei libri di Massimo Fini, che pungono e irritano il lettore conformista a destra come a sinistra, mentre piacciono a un crescente numero di lettori stufi dei luoghi comuni occidentalisti. Di qui il successo editoriale. Che però rischia di trasformarsi in un’arma a doppio taglio: la banalizzazione è sempre in agguato. O se si preferisce il sociologhese: sussiste il rischio di essere trasformati in “prodotti culturali di massa”, da acquistare nei supermercati del libro, settore apocalittici integrati.
Non è ancora questo il caso di Fini. Più battagliero e “Ribelle” che mai, come mostra il suo ultimo libro. Che è interessante per due ragioni.
In primo luogo, è una preziosa enciclopedia del Fini-Pensiero dalla A alla Z, come recita il titolo. Pertanto il lettore, può leggerlo sia tutto di seguito, sia saltando da un voce all’altra, grazie all’efficace sistema di rinvii tra un “lemma” e l’altro. Per scoprirne però tutta la carica antimoderna, e cogliere il suo filo conduttore, si consiglia di iniziare dalle voci, democrazia, globalizzazione, illuminismo, occidente, progresso e relativismo culturale.
Esemplare, anche dal punto di vista stilistico (per certa proverbiale icasticità finiana), la voce capitalismo: “Un bel mattino di sole - scrive Fini - viaggiavo per le campagne del Ciskei (un bantustan nero all’interno del Sud Africa allora governato dai bianchi) fra huts dignitose e campi ben coltivati ma a metà. Mi accompagnava mio cugino, Valerio Baldini, un geologo che aveva vissuto molti anni da quelle parti: Valerio, indicandomi col braccio la campagna circostante, mi disse: ‘Vedi? La differenza fra un nero e un bianco sta in questo: che un nero, se ha un campo, lo coltiva per quanto gli basta , il bianco lo coltiva tutto’. Ecco, in due parole, la definizione di capitalismo”(p. 42).
In secondo luogo, il libro è ricco di spunti biografici, che permettono al lettore di scoprire l’itinerario finiano: capire finalmente come il giovane giornalista, “col suo bravo bagaglio di certezze illuministe”, sia diventato un fiero nemico del “modello paranoico”, quello occidentale: perché basato, secondo Fini, sulla folle e inarrestabile caccia ai beni di consumo. I primi dubbi lo assalgono a Nairobi, all’inizio degli anni Settanta, quando scopre per la prima volta gli effetti negativi dell’urbanizzazione imposta da certe ex potenze coloniali: bidonville, alcolismo e miseria. Dubbi che diverranno certezze dopo altri viaggi e inchieste sul cosiddetto “Terzo Mondo. E infine libri-denuncia contro l’ “illuminato” Occidente, frutto di intense ricerche, a cominciare dalla Ragione aveva torto? (1985).
Fini non vuole però essere considerato partigiano dell’irrazionalismo o della reazione: “Non sono un irrazionalista alla Guénon o alla Evola (gente rispettabilissima ma con la quale ho poco a che vedere), che si rifanno a primigenie e inverificabili epoche iperboree, né un cultore di una mitica Tradizione, che nessuno ha mai capito bene cosa sia, alla Elémire Zolla. Porto argomenti, studi, ricerche, cifre, dati, statistiche e confronti possibili e verificabili con altre culture, altre società, altri popoli, altri modi di vivere e di pensare (…). Insomma critico la ragione illuminista, con i suoi derivati e le sue realizzazioni (…). Non pretendo di avere la verità in tasca, però desidererei che alle mie argomentazioni si replicasse con altre argomentazioni e non con le scomuniche (…). Io non voglio provocare nessuno. Chiedo risposte” (pp. 163-164).
Giusto. Sarà però difficile che Fini possa riceverne. Perché? Paradossalmente, proprio a causa dello status sociologico che si è stoicamente ritagliato, spesso pagando di persona: quello del “Ribelle”. Quando si “dice no” en bloc, anche motivandolo “scientificamente”, si rischia sempre di restare isolati. Dal momento che non si lascia all’avversario alcuno spazio di discussione, o via d’uscita… Resta però un’altra possibilità: quella di trasformarsi in rivoluzionario. O comunque di sporcarsi le mani con la politica. Il che tuttavia implica un credo ideologico e un’organizzazione: un creare o entrare a far parte di un partito, o comunque di una qualche struttura di rappresentanza. Una scelta che tuttavia qualsiasi ribelle, proprio perché “aristocratico” e individualista, non può accettare. Come prova la stessa vicenda di Catilina, così apprezzato e citato da Fini come esempio, ma la cui ribellione è appunto “personale, sentimentale, ideale e romantica” (p. 214). In una parola impolitica. Purtroppo.
A dirla a tutta, Il Ribelle dalla A alla Z, pur così avvincente sotto l’aspetto biografico e culturale, non persuade del tutto sotto quello della proposta politica. Ad esempio, Fini suggerisce come via d’uscita, sia la riscoperta delle piccole patrie e delle identità locali, sia un’ “Europa, neutrale, armata e autarchica”.
Ora, pur sorvolando sul tema non secondario dell’opzione atlantica europea, non si capisce come sia possibile unire le due cose. La scelta autarchica impone una struttura decisionale centralizzata. Altrimenti come coordinare gli scambi interni ed esterni? E inoltre richiede un’economia di tipo misto, o in ogni caso basata su una programmazione generale (per settori economici e aree geografiche). Il che dunque impone la persistenza degli stati nazionali e di burocrazie “centralizzate”. Senza i quali resterebbe difficile, se non proprio impossibile, non solo attuare ma perfino parlare di autarchia economica. E figurarsi in un’ Europa, frammentata in molteplici economie locali: quelle delle “piccole patrie” auspicate da Fini (il Galles, la Provenza, la Savoia, eccetera). Per non parlare poi della scelta nucleare: un’Europa priva di stati nazionali e segnata da pulsioni centrifughe, come potrebbe coordinarsi militarmente? E di riflesso, su quali forze militari potrebbe costruire la sua neutralità armata?
Sono problemi di non facile soluzione. Che impongono il ricorso alla politica in senso alto: come capacità di leadership, e soprattutto esercizio di saggio realismo. Mentre Fini nel suo libro alla lettera P, omette addirittura il termine “politica”. E il perché lo si intuisce da quel che scrive qualche pagina più avanti: “Il ribelle non ama la vittoria perché non ama la vita o se ne sente comunque estraneo” (p. 216).
Bello! Ma per fare politica è necessario schierarsi dalla parte della vita, soprattutto quella degli altri. E in modo istituzionale, sistematico… Ed è una regola che dovrebbe valere per tutti. Dovrebbe… Perché, come non fare un’eccezione per un Ribelle del calibro di Massimo Fini?
Del resto mai fermarsi alle copertine. E probabilmente lo scorpione è lì a indicare la natura “urticante” dei libri di Massimo Fini, che pungono e irritano il lettore conformista a destra come a sinistra, mentre piacciono a un crescente numero di lettori stufi dei luoghi comuni occidentalisti. Di qui il successo editoriale. Che però rischia di trasformarsi in un’arma a doppio taglio: la banalizzazione è sempre in agguato. O se si preferisce il sociologhese: sussiste il rischio di essere trasformati in “prodotti culturali di massa”, da acquistare nei supermercati del libro, settore apocalittici integrati.
Non è ancora questo il caso di Fini. Più battagliero e “Ribelle” che mai, come mostra il suo ultimo libro. Che è interessante per due ragioni.
In primo luogo, è una preziosa enciclopedia del Fini-Pensiero dalla A alla Z, come recita il titolo. Pertanto il lettore, può leggerlo sia tutto di seguito, sia saltando da un voce all’altra, grazie all’efficace sistema di rinvii tra un “lemma” e l’altro. Per scoprirne però tutta la carica antimoderna, e cogliere il suo filo conduttore, si consiglia di iniziare dalle voci, democrazia, globalizzazione, illuminismo, occidente, progresso e relativismo culturale.
Esemplare, anche dal punto di vista stilistico (per certa proverbiale icasticità finiana), la voce capitalismo: “Un bel mattino di sole - scrive Fini - viaggiavo per le campagne del Ciskei (un bantustan nero all’interno del Sud Africa allora governato dai bianchi) fra huts dignitose e campi ben coltivati ma a metà. Mi accompagnava mio cugino, Valerio Baldini, un geologo che aveva vissuto molti anni da quelle parti: Valerio, indicandomi col braccio la campagna circostante, mi disse: ‘Vedi? La differenza fra un nero e un bianco sta in questo: che un nero, se ha un campo, lo coltiva per quanto gli basta , il bianco lo coltiva tutto’. Ecco, in due parole, la definizione di capitalismo”(p. 42).
In secondo luogo, il libro è ricco di spunti biografici, che permettono al lettore di scoprire l’itinerario finiano: capire finalmente come il giovane giornalista, “col suo bravo bagaglio di certezze illuministe”, sia diventato un fiero nemico del “modello paranoico”, quello occidentale: perché basato, secondo Fini, sulla folle e inarrestabile caccia ai beni di consumo. I primi dubbi lo assalgono a Nairobi, all’inizio degli anni Settanta, quando scopre per la prima volta gli effetti negativi dell’urbanizzazione imposta da certe ex potenze coloniali: bidonville, alcolismo e miseria. Dubbi che diverranno certezze dopo altri viaggi e inchieste sul cosiddetto “Terzo Mondo. E infine libri-denuncia contro l’ “illuminato” Occidente, frutto di intense ricerche, a cominciare dalla Ragione aveva torto? (1985).
Fini non vuole però essere considerato partigiano dell’irrazionalismo o della reazione: “Non sono un irrazionalista alla Guénon o alla Evola (gente rispettabilissima ma con la quale ho poco a che vedere), che si rifanno a primigenie e inverificabili epoche iperboree, né un cultore di una mitica Tradizione, che nessuno ha mai capito bene cosa sia, alla Elémire Zolla. Porto argomenti, studi, ricerche, cifre, dati, statistiche e confronti possibili e verificabili con altre culture, altre società, altri popoli, altri modi di vivere e di pensare (…). Insomma critico la ragione illuminista, con i suoi derivati e le sue realizzazioni (…). Non pretendo di avere la verità in tasca, però desidererei che alle mie argomentazioni si replicasse con altre argomentazioni e non con le scomuniche (…). Io non voglio provocare nessuno. Chiedo risposte” (pp. 163-164).
Giusto. Sarà però difficile che Fini possa riceverne. Perché? Paradossalmente, proprio a causa dello status sociologico che si è stoicamente ritagliato, spesso pagando di persona: quello del “Ribelle”. Quando si “dice no” en bloc, anche motivandolo “scientificamente”, si rischia sempre di restare isolati. Dal momento che non si lascia all’avversario alcuno spazio di discussione, o via d’uscita… Resta però un’altra possibilità: quella di trasformarsi in rivoluzionario. O comunque di sporcarsi le mani con la politica. Il che tuttavia implica un credo ideologico e un’organizzazione: un creare o entrare a far parte di un partito, o comunque di una qualche struttura di rappresentanza. Una scelta che tuttavia qualsiasi ribelle, proprio perché “aristocratico” e individualista, non può accettare. Come prova la stessa vicenda di Catilina, così apprezzato e citato da Fini come esempio, ma la cui ribellione è appunto “personale, sentimentale, ideale e romantica” (p. 214). In una parola impolitica. Purtroppo.
A dirla a tutta, Il Ribelle dalla A alla Z, pur così avvincente sotto l’aspetto biografico e culturale, non persuade del tutto sotto quello della proposta politica. Ad esempio, Fini suggerisce come via d’uscita, sia la riscoperta delle piccole patrie e delle identità locali, sia un’ “Europa, neutrale, armata e autarchica”.
Ora, pur sorvolando sul tema non secondario dell’opzione atlantica europea, non si capisce come sia possibile unire le due cose. La scelta autarchica impone una struttura decisionale centralizzata. Altrimenti come coordinare gli scambi interni ed esterni? E inoltre richiede un’economia di tipo misto, o in ogni caso basata su una programmazione generale (per settori economici e aree geografiche). Il che dunque impone la persistenza degli stati nazionali e di burocrazie “centralizzate”. Senza i quali resterebbe difficile, se non proprio impossibile, non solo attuare ma perfino parlare di autarchia economica. E figurarsi in un’ Europa, frammentata in molteplici economie locali: quelle delle “piccole patrie” auspicate da Fini (il Galles, la Provenza, la Savoia, eccetera). Per non parlare poi della scelta nucleare: un’Europa priva di stati nazionali e segnata da pulsioni centrifughe, come potrebbe coordinarsi militarmente? E di riflesso, su quali forze militari potrebbe costruire la sua neutralità armata?
Sono problemi di non facile soluzione. Che impongono il ricorso alla politica in senso alto: come capacità di leadership, e soprattutto esercizio di saggio realismo. Mentre Fini nel suo libro alla lettera P, omette addirittura il termine “politica”. E il perché lo si intuisce da quel che scrive qualche pagina più avanti: “Il ribelle non ama la vittoria perché non ama la vita o se ne sente comunque estraneo” (p. 216).
Bello! Ma per fare politica è necessario schierarsi dalla parte della vita, soprattutto quella degli altri. E in modo istituzionale, sistematico… Ed è una regola che dovrebbe valere per tutti. Dovrebbe… Perché, come non fare un’eccezione per un Ribelle del calibro di Massimo Fini?