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Figli di una rivoluzione ad interim

di Luigi Cavallaro - 08/06/2006

 


Figli di una rivoluzione ad interim

Se avesse ragione Berman, dovremmo considerare i reality e i talk show come una trasfigurazione da incubo delle interminabili assemblee sessantottine
Qual è, se esiste, il filo conduttore che collega le rivolte dei «babyboomer» e l'attuale revanche neoliberista? Secondo «Sessantotto», il pamphlet del critico liberal Paul Berman uscito per Einaudi a dieci anni dalla sua pubblicazione negli Stati Uniti, il momento-chiave della generazione delle utopie va ricercato nella nuova e diversa «esaltazione» del 1989. Sotto il segno di quella «democrazia partecipata» che gli Usa esportano a suon di bombe in tutto il mondo

Per chi, come me, nel 1968 aveva due anni, la traiettoria della generazione del baby-boom - che di quel tempo fu indiscussa protagonista - ha dell'inspiegabile. Ho sempre letto che fu un tempo in cui i giovani espressero una estrema capacità di mobilitazione e partecipazione alla vita pubblica e in cui, per la prima volta nella storia, questa mobilitazione avvenne «spontaneamente», cioè senza che nessun potere costituito li tirasse per i capelli; un tempo in cui sembrò davvero che la politica e la vita potessero riconciliarsi, dopo che il costume borghese le aveva separate a forza; soprattutto, un tempo in cui bisogni, istanze e rivendicazioni muovevano da una critica ragionata dell'esistente che traeva non pochi punti di forza dal marxismo, i cui testi non solo s'inalberavano dietro le barricate, ma si studiavano e dibattevano con passione e partecipazione.
Da Marx al mercato
Mi sono quindi chiesto come sia potuto accadere che una simile generazione abbia potuto far da levatrice alla più grandiosa revanche neoliberista che il «secolo breve» ricordi: non può essere stato certo il solo rifluire del movimento nei primi anni Ottanta a far sì che la «durata» di Margaret Thatcher e Ronald Reagan mettesse capo a una nuova «epoca», né chi scrive ha mai creduto alle teorie che farneticano di «complotti del capitale», quasi che la libertà ci venisse ottriata da consimili entità mitiche e non fosse piuttosto il risultato della nostra capacità di interagire coi processi storici e sociali ai quali noi stessi diamo - spesso inconsapevolmente - vita.
Insomma, e per dirla con una battuta fulminante di Giulio Tremonti: com'è accaduto che la generazione del '68 passasse «from Marx to Market», da Marx al mercato, dall'utopia comunista all'utopia «mercatista»? Si può sorridere della galleria di personaggi proposta da Vauro e Giulietto Chiesa nel loro godibilissimo I peggiori crimini del comunismo, ma la questione è seria e a poco serve rispolverare viete categorie come la «trahison des clercs».
Un viaggio in quattro tappe
Una risposta netta a questi interrogativi ce la offre Paul Berman in un pamphlet che, apparso negli Stati Uniti dieci anni or sono, viene adesso pubblicato anche in Italia (Sessantotto. La generazione delle utopie, Einaudi, pp. 231, euro 15,50). La sua tesi di fondo, infatti, è che l'autentica rivoluzione politica della generazione del '68 non ebbe luogo nel 1968, bensì ventun anni più tardi, nel 1989, e che l'essenza di codesta rivoluzione deve venire ricercata nel suo essere «liberale e democratica, non estremista e sessantottina».
Tenendo ben salda la barra lungo questa rotta interpretativa, Berman riesamina «le quattro stazioni principali del viaggio politico della generazione che maturò nelle ribellioni studentesche del passato»: le «esaltazioni estreme degli anni intorno al 1968», «l'imbarazzante passaggio, un po' in tutto il mondo, dalla sinistra rivoluzionaria alla democrazia liberale da parte di persone orientate alla ribellione», il «prorompere di una nuova e diversa esaltazione rivoluzionaria nel 1989» e, infine, il «dibattito irresolubile sulla storia universale e l'idea di progresso» sono qui rievocati in modo da comporre «il racconto di due utopie» e di «due ripensamenti». L'effetto principale delle rivolte del '68, scrive Berman, si fece sentire «su chi aveva la stessa età, o era poco più giovane, dei rivoltosi» e consistette nell'affermazione di «una cultura più attenta ai diritti dell'individuo» e, più in generale, di «un nuovo genere d'individualismo accompagnato dall'allentamento delle vecchie pastoie culturali»: «Pressoché ovunque, fu questa la principale conseguenza delle rivolte del Sessantotto, s'intende con gradazioni diverse da luogo a luogo».
È un'interpretazione fondata? Sebbene Berman non sia certo il primo ad averla proposta e nonostante il suo revival del movimento sia piuttosto parziale (nulla, ad esempio, il lettore troverà a proposito del '68 operaio e delle «primavere striscianti» cui esso diede vita, specie in Italia e in Polonia), bisogna dire che la sua scelta di muoversi sul terreno politico-ideologico evoca nessi causali non privi di suggestione, specie considerando gli accadimenti degli ultimi dieci anni.
In primo luogo, la sua tesi consente di spiegare la stretta continuità che, sul piano delle politiche economiche (e specialmente delle politiche del lavoro), si può riscontrare fra i governi di Thatcher e Reagan e quelli di Blair e Clinton. Nonostante fosse lecito attendersi che, ascesi al potere, i progressisti d'oltreoceano e d'oltremanica rinverdissero i fasti del New Deal rooseveltiano o la straordinaria progettualità del primo governo laburista inglese nel secondo dopoguerra, gli uni e gli altri si sono mossi in sintonia coi loro predecessori, esprimendo un'incrollabile preferenza verso un sistema che vuole l'iniziativa economica rimessa esclusivamente ai privati e i pubblici poteri intervenire solo con funzione di regolatori del mercato ed erogatori di sussidi ai bisognosi.
Ricette analoghe, del resto, erano state somministrate all'Est fin dal 1989 proprio da coloro che della stagione del '68 erano stati protagonisti, da Havel a Dubcek. E per stare a casa nostra, non si può dimenticare che il primo programma organico di privatizzazioni, che comportò la liquidazione della proprietà pubblica delle banche e dell'industria, fu varato giusto dieci anni fa dal governo dell'Ulivo, i cui esponenti, in larga misura reduci dell'esperienza sessantottina, hanno poi rimproverato al governo Berlusconi di aver «bloccato» le privatizzazioni.
È proprio sbagliato, allora, ipotizzare che il consenso diffuso verso la riduzione delle attività statali, di cui la fobia per il debito pubblico rappresenta la versione «contabile», sia figlio di quella «scoperta» che maturò negli ambienti maoisti del Sessantotto francese, secondo cui - come ricorda Berman - le società ad economia mista venute fuori dal secondo conflitto mondiale erano «la quintessenza del fascismo»? Non c'è quest'orrore per il «totalitarismo costruttivista» dietro lo smantellamento degli apparati e degli strumenti di politica economica e industriale, che assoggettavano la società agli obiettivi e alle direttive del «piano» e facevano del denaro un vettore dei desiderata della politica? Cosa di meglio degli allarmismi sul debito pubblico per affamare la bestia statalista e impedirle la dittatura sui bisogni individuali? E d'altra parte, non era forse questa l'essenza della critica avanzata già negli anni Quaranta da Hayek e Popper contro il keynesianesimo, giudicato poco più che un travestimento del terribile «socialismo burocratico» d'oltrecortina?
In quest'ottica, non ha tutti i torti Berman a rintracciare la matrice culturale del '68 nel Manifesto di Port Huron e nel concetto, che tutto lo permeava, di «democrazia partecipata»: è questa idea di «una società basata sull'autogoverno» il trait d'union che, a suo avviso, permette di collegare il consiliarismo operaio vagheggiato dai situazionisti francesi e l'«autonomia operaia» invocata dagli studenti italiani, l'ispirazione «comunarda» degli studenti tedeschi (e del loro celebre leader, Rudi Dutschke) e il comunitarismo anarchico dei «provos» olandesi, il municipalismo delle assemblee di base del movimento studentesco messicano e i comitati di fabbrica degli operai praghesi.
E anche se è vero - e Berman lo ricorda puntualmente - che agli orecchi degli studenti europei la «democrazia» suonava come una parolaccia borghese, non è meno vero che l'accezione «partecipata» che ne proponeva il Manifesto di Port Huron doveva non poco al radicalismo di un cantore dell'epopea della frontiera americana come Walt Whitman, per il quale la democrazia si risolveva in una massima - «Resisti molto, obbedisci poco» - che, commenta Berman, costituiva «un'indicazione di principio incendiaria». Né ciò è tutto.
L'interpretazione proposta da Berman permette di capire anche il motivo per cui la critica che alla «globalizzazione neoliberista» hanno mosso altri reduci della generazione del '68, adesso organici al «movimento dei movimenti» nato a Seattle, non ha dato luogo se non a un proliferare di iniziative. Iniziative che condividono col «neoliberismo» l'aspirazione a un radicale decentramento delle decisioni riguardanti cosa, come e per chi produrre; e che, anzi, quel neoliberalismo lo criticano perché, paradossalmente, avrebbe accentrato troppo potere nella Wto, nell'Fmi, e così via.
Si può credere, ovviamente, ciò che si vuole, ma il «commercio equo e solidale» è prima di tutto «commercio», le imprese nonprofit sono «imprese» come (e anzi meglio!) delle imprese capitalistiche e certe visioni della «decrescita» - strettamente imparentate con le aspirazioni hippy e freak per una società che, ricorda Berman, doveva essere «fatta di comuni campagnole e di cooperative alimentari» - evocano scenari degni dei dagherrotipi ottocenteschi della frontiera americana. È fuori luogo, allora, ricordare che l'idea «partecipata» di democrazia fu formulata con chiarezza senza pari dal padre della Dichiarazione d'indipendenza americana, Thomas Jefferson, per il quale non ci può essere democrazia se ciascuno non partecipa al governo della cosa pubblica tutti i giorni, e non soltanto il giorno delle elezioni? E se è vero che le decisioni concernenti cosa produrre e cosa consumare sono le più importanti fra le decisioni quotidiane, quale democrazia può residuare quando esse vengano «alienate» ai pubblici poteri?
Come si vede, si tratta della medesima critica al «totalitarismo costruttivista» che ispira le politiche liberalizzatrici condotte dai governi a Est e a Ovest della cortina di ferro nell'ultimo quindicennio. «Le lezioni che ci propone sono umili fino all'estremo - scrive Berman - sebbene il suo modo di descriverle sia tipicamente grandioso. Vuole spingerci a costruire un nuovo umanesimo, completamente diverso dal vecchio umanesimo dell'Ottocento determinato a sottomettere tutti i popoli alla stessa idea di bontà e verità», e che deve «prendere le mosse dal riconoscimento di ciò che è inumano nell'uomo».
Riconosci in te stesso la capacità di essere un mostro: cos'altro ha scritto Marco Revelli in Oltre il Novecento, che Luigi Pintor ha definito «il libro più organicamente anticomunista che io abbia letto»? Resta ovviamente da capire se quest'approdo - invero, disperante - della cultura che animò la generazione del '68 fosse l'unico possibile ovvero uno di quelli possibili.
La teoria del cavatappi
In altri termini, resta da comprendere se il «viaggio politico» della generazione sessantottina confermi quella che Berman chiama «la teoria del cavatappi» («l'idea secondo cui le cose cambiano e alla fine il caos induce il progresso, facendo sì che la storia giunga effettivamente a un traguardo: come un cavatappi», appunto), ovvero costituisca una riprova che la storia procede «come una sorta di caleidoscopio», in cui «le cose cambiano, talvolta in modo eclatante, ma senza mai giungere a una qualche forma di ordine o assetto definitivo».
Se avesse ragione Berman a inclinare verso la prima alternativa, dovremmo considerare i reality e i talk-show come una trasfigurazione da incubo delle interminabili assemblee studentesche sessantottine e vedere nell'odierno rigurgito neo-identitario il contrappasso di una cultura che ha esaltato le «differenze» a tutto scapito dell'uguaglianza, reputata poco meno che una degenerazione del feticismo della merce o del diritto. Potremmo allora ritenere che il portato più nobile della «generazione delle due utopie» sia una «lotta al fascismo» che si vuole ormai globale e, proprio per ciò, pretende - come spiega convintamente Berman nella postfazione all'edizione italiana del suo libretto - di esportare la «democrazia partecipata» all over the world. Anche a suon di bombe, come quelle che certi reduci del '68 hanno fatto piovere in Serbia e in Iraq.
Quel che tocca in sorte ai sessantottini
L'idea che la storia possa procedere come un caleidoscopio, in cui le diverse immagini scaturiscono dalla combinazione e ricombinazione dei medesimi vetrini, suggerisce però un'altra possibilità, e cioè che il messianismo anarcoide di marca americana, che oggi ispira tanto gli apologeti quanto i critici della postmoderna «società dello spettacolo», sia strutturalmente incapace di risolvere il problema con cui si scontrò la generazione del '68: come rendere mutuamente compatibili la libertà individuale e il governo delle condizioni della riproduzione sociale.
Secondo Berman, la «particolare follia dello stile organizzativo» del movimento, la sua «anarchia», fu precisamente ciò che consentì a «giovani in crisi identitaria» di dotarsi «di un senso di controllo del proprio destino». Sfortunatamente, Marx ha messo in chiaro che c'è una strettissima correlazione fra «l'anarchia della divisione sociale del lavoro e il dispotismo della divisione del lavoro a tipo manifatturiero». Non sarà per questo che ai figli dei sessantottini son toccate in sorte le meraviglie del lavoro interinale e dei contratti a termine?


Fonte:www.ilmanifesto.it
08.06.06

Recensione del libro "Sessantotto. La generazione delle due utopie".
Un volume che racconta quattro episodi della storia di una generazione: il radicalismo delle rivolte studentesche del '68; la nascita del movimento gay; la traiettoria anticomunista dei sessantottini del blocco dell'Europa dell'est; gli ideali e l'autocritica di chi fu protagonista di quegli eventi. In quella generazione politica Berman riconosce i protagonisti delle attuali classi dirigenti mondiali. Le categorie maturate nel corso del '68 hanno dominato la discussione pubblica per tutti gli anni Novanta e hanno segnato alcuni passaggi epocali della storia recente, fino all'11 settembre e ai temi attuali del terrorismo, che viene ancora letto da quella generazione con gli stessi strumenti maturati nel corso dell'anno di contestazione