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Se la famiglia muore infilzata dalle frecce d'un ragazzino killer

di Stenio Solinas - 13/05/2011

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«Bisogna che parliamo dei ragazzi» dice di solito la moglie al marito quando qualcosa non quadra: un eccesso di ribellione o di apatia, difficoltà scolastiche, violenze ritenute gratuite, paure ritenute infantili... Fra i genitori c’è sempre chi ingrandisce i problemi e chi li minimizza, ma al fondo resta l’idea che la famiglia è una sicurezza, il pericolo è esterno e per far funzionare le cose occorre soprattutto qualche piccola rinuncia in nome del bene comune... Intanto i figli crescono, ti illudi di conoscerli, ma senti che ti sfuggono, pensi di far bene la tua parte, educatore e insieme fonte d’affetto, ma sai che per loro hai rinunciato a qualcosa di te, hai pagato un prezzo e a volte ti chiedi se non sia stato troppo alto... Soprattutto, ti rendi conto che si viaggia su lunghezze d’onda differenti: ti credi ancora giovane, ma la loro giovinezza ti appare misteriosa, li vedi come eterni ragazzi, e loro non si ritengono più tali. La tecnologia allarga il fossato dell’incomprensione, la routine permette di eludere i problemi e come un mantra continuiamo a dirci che no, non c’è da preoccuparsi, è un disagio tipico dell’età, in fondo anch’io ero così, passerà tutto, tutto si aggiusterà... Quando poi l’irreparabile avviene, si resta inebetiti, si sprofonda in un abisso che sa di vergogna e di colpevolezza. Perché proprio a me, cosa ho fatto di male per meritarmi questo? In che cosa ho sbagliato per meritarmi questo?

Al secondo giorno del Festival di Cannes piomba come una meteora We need to talk about Kevin di Lynne Ramsay, interpretato da una superlativa Tilda Swinton, e per quanto si sia ancora all’inizio difficilmente le sfuggirà il premio come migliore interprete femminile. «Il filo conduttore del film - dice - rimanda ai rischi esplosivi che derivano dal perdere il contatto con i propri figli. Crediamo che ogni cosa andrà bene, che non può non andare bene, che l’amore fra noi e loro fa parte della natura delle cose, come le cinque dita di una mano».

Kevin (Ezra Miller) è l’adolescente che un bel giorno entra nel suo liceo, ne blinda le porte con dei lucchetti da bicicletta e poi con arco e frecce fa strage dei suoi compagni di scuola. Le avventure di Robin Hood era l’unica lettura con cui la madre aveva fatto breccia nella sua resistenza di bambino e, crescendo, il padre gli aveva regalato via via archi sempre più professionali... È un mostro Kevin, l’emblema del male, un essere patologicamente portato alla distruzione di ciò che lo circonda? Negli ultimi anni, le cronache hanno portato alla ribalta queste esplosioni di violenza, di solito conclusesi con la morte, di propria mano o per opera della polizia, del massacratore in erba. Qui, invece, il ragazzo non si suicida né viene ucciso: si fa docilmente arrestare, assaporando quasi la resa: ha appena sedici anni, non passerà il resto della vita in galera...
Tilda Swinton è Eva, la madre. È una che ha girato il mondo, ha scritto libri di viaggio, pensa di conoscere la vita. Quando si sposa, il marito le chiede di non partire più, di piantare radici: Kevin è un figlio voluto, eppure inconsciamente è anche l’ostacolo insormontabile che l’ha costretta a un cambiamento radicale. Lei gli si è comunque dedicata anima e corpo, ma resta un’ostilità sorda, mai dichiarata e sempre presente. «Per certi versi è una tragedia greca» dice la Ramsay, e il fisico quasi anoressico della Swinton, il cui pallore naturale qui è ancor più accentuato per contrasto da un colore scuro di capelli, rimanda a quelle Euridici della classicità, sopravvissute agli olocausti familiari e però inseguite e perseguitate da ciò che si è loro abbattuto sopra, impossibilitate a convivere con la colpa, l’impossibilità di un riscatto e persino di un’espiazione. Nel film, due rappresentati di una delle tante sette religiose statunitensi si presentano ignari alla sua porta per interrogarla su come vede il mondo che ci aspetta dopo morti, cosa pensa ci sia. La riposta è lapidaria: «L’inferno. Condannata all’eterno». Oltre alla Swinton e al giovane, molto bravo, Miller, l’altro protagonista è John Reilly (Chicago, Gang of New York, Magnolia) nella parte del padre; la fotografia è di Seamus McGarbvey, la musica di Jonny Greenwood, dei Radiohead.

We need to talk about Kevin riscatta in questa 64ª edizione il passo falso del film d’esordio, quello Sleeping Beauty dell’australiana Julia Leigh su cui si puntavano molte speranze. Riprendendo un tema caro a uno scrittore come il giapponese Kawabata, racconta di una studentessa che per integrare i guadagni di mille lavoretti accetta di entrare in un giro di prostituzione particolare. Addormentata con delle droghe, nel sonno è l’oggetto del desiderio da svegli di ricchi e vecchi maschi, incapaci ormai di avere un rapporto completo, ma egualmente ossessionati dal sesso. La ragazza non sa che cosa durante il suo sonno avvenga, non ne conserva né traccia né memoria, e il volerlo sapere finirà in tragedia. «Lucy è una inadatta - dice la regista - che consapevolmente si fa sfruttare perché è l’unica legge che in fondo riconosce». Il film è pasticciato, il pianto finale della «bella addormentata» discutibile. «Sono lacrime versate perché le è venuta meno la sua fonte notturna di reddito» mi ha detto un collega cinico.