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La televisione come simbolo

di Renzo Giorgetti - 13/05/2011


La diffusa confidenza con il mezzo televisivo ha reso la sua presenza ed il suo utilizzo qualcosa di scontato, ordinario, quasi invisibile potremmo dire, un vero e proprio sottofondo della nostra esistenza. Qualcosa di criticato, amato e odiato, ma comunque ritenuto una presenza ormai comune, familiare, a tutti gli effetti “domestica”. Scriverne ancora potrebbe sembrare opera superflua, anche se siamo convinti che, astraendoci un momento dalla abituale percezione e considerando il tutto in maniera più distaccata, sia possibile ancora effettuare alcune brevi riflessioni per una migliore comprensione del fenomeno.

Ci si ponga davanti allo schermo, lo si accenda, lo si guardi, si incomincino a cambiare i canali, ad osservarne le immagini: una serie di stati d’animo, sensazioni, emozioni si presenterà prontamente, influenzando il sensorio e la psiche dell’osservatore. Immagini coerenti o incoerenti, disarticolate, realistiche o fantastiche, comuni o prese da luoghi remoti o inaccessibili, da epoche ormai passate o dall’immediatezza del presente. Immagini che permettono di vivere mille vite differenti, di immedesimarsi nelle più diverse situazioni ed eventualità della vita, di muoversi come in un sogno tra gli scenari più disparati. Cose e persone morte riprendono vita, novità piacevoli o spiacevoli si fanno conoscere, proponendosi per la prima volta alla mente ed al giudizio di chi osserva più o meno distrattamente. Ogni immagine evoca uno stato d’animo, una visione diversa del mondo, un punto di vista sempre in mutamento; una sorta di dramma onirico che si dispiega, illusorio e ipnotico in un perenne scorrere di fronte all’occhio dello spettatore.

Ecco che in tutto il suo fulgore scorre il samsara, la corrente delle forme.

In un continuo fluire, con il più totale orrore del vuoto e del silenzio, si dispiega un grande e immenso spettacolo, solo apparentemente frammentato, ma in realtà unico, una grande illusione prodotta dall’ingegno e dall’intelletto umano. Ma di fronte a questa illusione, sempre differente e sempre uguale a se stessa nel suo mutamento, non si ritroveranno forse delle analogie, a prima vista non evidenti, con il famoso velo di Maya?

Maya, ad un tempo potere divino e prodotto di questo potere, attività che permette di creare, di rendere possibili e veritieri trucchi, artifici, fantasmi e inganni dei sensi. Atto creatore, che rende manifeste le forme e che le muta poi a proprio piacimento, tramite una libera azione artistica e, potremmo dire, magica. Prerogativa divina che si riflette poi nell’ordine cosmologico, influenzando a sua volta tutte le creature, effetti anch’essi della Maya ma anche, nei limiti delle loro possibilità, agenti e produttori fenomenici.

Il mondo come opera d’arte, il mondo che produce opere d’arte, in una attività senza fine. E di riflesso, in questo gioco di specchi, si potrà comprendere come la capacità creativa e imitativa umana possa agire nei più diversi ambiti, come ad esempio quelli che costituiscono l’oggetto delle nostre riflessioni, e operare, a suo modo, avendo come fine una realizzazione autonoma di oggetti, immagini, suoni, situazioni, esistenze. Tutto questo naturalmente in un senso parziale, essendo ogni attività compiuta nella manifestazione caratterizzata da una originale ed ineludibile illusorietà – o se si preferisce da una “realtà relativa”.

Il mondo è illusorio, così come le immagini prodotte dagli uomini, perché diviene, perché sebbene di fattura divina rimane strettamente legato alla materia, dalla quale prende il sostentamento per il proprio essere. Tale la corrente delle forme, tale l’artificiale corrente della produzione umana.

Ma oltre a questo simbolismo ve n’è un altro che, anche se per certi aspetti analogo, presenta però delle sfumature decisamente più oscure. Per la sua mutevolezza, il suo dinamismo e la sua natura fondamentalmente inafferrabile, la televisione richiama l’indeterminatezza e la fluidità delle acque, viste simbolicamente nel loro aspetto più basso, di sostanza indifferenziata, principio plastico della manifestazione. Tali abissi, noti secondo alcune tradizioni come le acque inferiori, coinciderebbero con quel caos da cui emergono e ricadono nel loro ciclo vitale le forme manifestate. Come già notava Antonio Cioffi “tale luogo, esattamente come nel caso dell’apparecchio televisivo, traboccherebbe di immagini, intese come possibilità formali di ipotetici eventi di manifestazione non ancora o non più attualizzati, e di “residui” privi, per così dire, di vita propria, come cadaveri sottili cui non appartiene una realtà effettiva. Il mondo sottile è propriamente, secondo queste dottrine, il luogo d’azione dei ginn, nonché di quegli esseri infernali (tamasici, in termini indù) che, come una sorta di epidemie, possono infestare le cose, i corpi o, in modo maggiormente insidioso, le coscienze. Secondo questa prospettiva ci si troverebbe di fronte, nel caso della rappresentazione televisiva in genere, ad un capovolgimento concettuale del significato catartico che il teatro antico possedeva, alla maschera come persona sostituendosi la persona come maschera” (1).

Da questo punto di vista la televisione verrebbe quindi a svolgere una funzione, più o meno volontaria, di “fenditura nella grande muraglia”, ed essendo il suo campo d’azione proprio quel mondo sottile, intermedio tra spirito e materia, dove le influenze dello psichismo inferiore possono maggiormente e più facilmente dispiegarsi, ogni preoccupazione può essere a tale riguardo pienamente giustificata. E questo può avere un suo riflesso anche nelle applicazioni più concrete: non possiamo non sottolineare infatti come per i detentori del potere il mezzo televisivo abbia un’utilità sociale notevole, sia nella sua funzione informativa che in quella propriamente formativa, basandosi su di una sostanziale passività dell’utente, vero e proprio ricettore di messaggi che volontà superiori più o meno benevole pongono nella sua mente, e sia perciò uno dei capisaldi di tutte le forme di autorità che, sotto le più diverse etichette, comandano la società umana del tempo presente. Del resto se Nietzsche ebbe già modo di sostenere come il lavoro fosse la migliore forma di polizia, oggi vi possiamo degnamente affiancare anche la televisione, strumento che oltre a veicolare messaggi occupa materialmente molto tempo libero delle persone, distogliendole da attività potenzialmente più “scomode”; ma su questo è già stata prodotta un’abbondante letteratura, a vario titolo più o meno critica, e quindi non aggiungiamo altro, ritenendo più utile concludere con una piccola riflessione accessoria.

Si potrebbe sostenere che la televisione sia uno strumento di pluralismo, stante la varietà pressoché illimitata di scelte possibili tra i vari programmi. Questo indiscutibilmente corrisponde a verità, anche se solo da un punto di vista parziale, relativo alla pura scelta dei contenuti – che variano l’uno dall’altro in base alle indefinite gradazioni di emotività offerta – anche se da una prospettiva, per così dire, metatestuale, il messaggio è straordinariamente coerente e comune, essendo basato sullo stesso état d’esprit dominante. Osservandone la struttura infatti, tutti i programmi si rifanno a precisi schemi e valori unici, diversamente mutati e declinati secondo una quantità innumerevole di variazioni (e qui non possiamo non notare una sostanziale analogia con il mondo dei partiti politici e la grande miraggio della democrazia rappresentativa, che mette in scena una sorta di “pluralismo totalitario”). La diffusione di valori propriamente politici sarebbe ormai percepita dal pubblico come propaganda, divenendo del tutto inefficace come mezzo di cultura di massa; e quindi la rinuncia ad un messaggio direttamente politico si traduce in pratica nella diffusione di un messaggio politico indiretto basato sull’assimilazione, tramite il divertimento e l’evasione, di valori ed immagini facenti capo a quei modelli esemplari su cui si conforma o si vorrebbe conformare la società. Ed essendo l’alternativa – data la sostanziale uniformità dei contenuti – una possibilità soprattutto teorica, non possiamo concludere in altra maniera come nel constatare, di fronte al gioco caleidoscopico dell’illusione televisiva, che in realtà l’unica alternativa non sia nel cambiare canale ma nello spegnere definitivamente l’apparecchio.

Note

(1) A.Cioffi, La cinepresa di Arianna – presenza e manipolazione del mito nella cultura di massa, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma, 1988, p.85.

A nostro avviso tali riflessioni possono essere valide anche per internet, anche se ad un livello sicuramente diverso, data la sostanziale differenza tra i due mezzi e soprattutto la minore passività ed il maggiore grado di interattività che la rete necessariamente comporta.