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È un bene che si siano smarriti il concetto e la pratica della gerarchia?

di Francesco Lamendola - 13/05/2011



Sia le società antiche, compresa la tanto decantata democrazia ateniese, sia quelle medievali, si reggevano sul concetto e sulla pratica della gerarchia: e ciò rimase la regola fino alle soglie della modernità, con la doppia rivoluzione del XVIII secolo, quella politica (americana e francese) e quella industriale.
La gerarchia è la struttura di una società per classi di merito e di competenza, sancita da una autorità superiore, generalmente di tipo religioso (come nel caso della monarchia per diritto divino); e, contrariamente a quel che spesso si crede, la società gerarchica si accompagna, sì, al riconoscimento di maggiori poteri e maggiore prestigio per i ceti superiori, ma anche a maggiori doveri da parte loro nei confronti della collettività.
Per esempio, i membri adulti di un consiglio tribale godono di una indiscussa autorità nei confronti dei giovani, ma, nel caso di una caccia fortunata, quando il gruppo soffre la carestia, la carne dell’elefante o della gazzella uccisi viene ripartita in parti uguali, anche se a colpirla è stato un cacciatore esperto, che, teoricamente, potrebbe reclamare per sé o per la sua famiglia i bocconi migliori.
Allo stesso  modo, in caso di pericolo, coloro che godono di maggiore prestigio sociale devono anche esporsi in prima fila per la difesa del gruppo, consentendo ai membri più deboli di mettersi al sicuro: non esistono privilegi che non si accompagnino a maggiori doveri e non vi sono figure socialmente preminenti che non debbano assumersi un più pesante carico di responsabilità, per essere all’altezza del proprio ruolo.
La modernità, fra le altre cose, ci ha lasciato in eredità due ideologie politiche che sono assurte al rango di dogmi indiscutibili, il liberalismo e la democrazia: il primo insegna che la società serve solo a garantire al singolo individuo l’esercizio del maggior numero di diritti possibile; la seconda stabilisce che la sovranità popolare esige una assoluta uguaglianza di ciascun membro davanti alla legge e la pari idoneità di ciascuno a candidarsi alla guida politica.
Di entrambe queste acquisizioni dobbiamo ringraziare l’Inghilterra: il liberalismo è una filiazione diretta della filosofia politica di Locke, a sua volta erede delle due rivoluzioni inglesi del XVII secolo contro l’assolutismo; la seconda fa la sua comparsa sui campi di battaglia della guerra d’indipendenza americana ed è, quindi, figlia indiretta dello stesso liberalismo: la parabola del pensiero rivoluzionario di Thomas Paine indica chiaramente tale discendenza, anche se, all’atto pratico, la democrazia finì per schierarsi contro il liberalismo e per fruttare all’Inghilterra la perdita delle sue colonie nordamericane (e, ai nobili francesi di idee liberali, la perdita della testa sulla ghigliottina).
Entrambe le ideologie, il liberalismo e la democrazia, hanno dato il colpo decisivo alla società gerarchica; la rivoluzione industriale, con la sua famelica ricerca di sempre nuovi mercati e, quindi, di sempre nuove libertà e sempre nuovi diritti, non importa se più apparenti che reali e se più indirizzati alla quantità che alla qualità, ha fatto il resto.
Nella società odierna, i figli non hanno più la minima soggezione nei confronti dei genitori e il potere legislativo, per mezzo di quello giudiziario, ribadisce il loro diritto ad ignorare l’autorità paterna e materna: vi sono fior di sentenze del tribunale che impongono ai genitori di continuare a provvedere al mantenimento dei figli trentenni e quarantenni, non ancora laureati, con la motivazione che la responsabilità legale dei primi verso i secondi non si esaurisce con la maggiore età o con il conseguimento di un titolo di studio superiore, ma prosegue nel tempo, in pratica senza un limite preciso.
Vi sono anche interventi delle forze dell’ordine contro i genitori, mobilitate da una telefonata del bambino che si è preso un sacrosanto sculaccione da parte di suo padre: padre che si è visto trattato più o meno come un criminale per aver osato alzare la mano contro il tenero fondoschiena del vivace pargoletto.
Non parliamo, poi, di quel che succede se una maestra osa dare un buffetto sulla guancia a un alunno che le risponde villanamente o che prende a pugni un compagno di classe; oppure se un professore si permette di consigliare ad uno studente particolarmente svogliato e molesto di sostituire i libri con la zappa e di darsi ad attività meno sofisticate di quelle che sono necessarie allorché si decide di frequentare un liceo e si punta a un diploma che non sia regalato o comprato, ma che scaturisca dai meriti del ragazzo.
Questi sono solo alcuni esempi di perdita del senso della gerarchia; ma l’elenco potrebbe continuare a lungo, sempre più bizzarro, sempre più sconfortante.
In genere, la perdita del concetto e della pratica della gerarchia si accompagna alla perdita del senso di una autorità riconosciuta, di una disciplina, di un rispetto dovuto a chi possiede più esperienza, più competenze o, semplicemente, di ha una età più avanzata: per cui i giovani, sull’autobus, non si sognano di alzarsi dal sedile per lasciare il posto ad una persona anziana; né di cederle il passo davanti ad una porta; né di dare del lei a qualcuno che potrebbe essere il loro padre o il loro nonno, di accoglierne un richiamo, di accettarne un rimprovero.
Il soldato semplice pretende di saperne più dello stratega; la persona qualunque, più del competente; l’ultimo arrivato, più dell’esperto: tutti hanno dei diritti da far valere, a cominciare da quello di criticare senza sapere, senza conoscere, senza essersi informati; e il peccatore che è stato ripreso dal sacerdote, scrive ai giornali o porta il suo caso su Internet, denunciando l’intollerabile abuso di autorità di cui è stato vittima da parte di una gerarchia ottusa e retriva e lamentandosi dell’assoluzione che gli è stata negata, ossia di un diritto chiaro ed evidente, specie dopo il Concilio Vaticano II.
L’idea liberale dei diritti senza doveri e l’idea democratica della uguaglianza delle capacità hanno provocato la perdita totale della dimensione gerarchica, del senso della sua necessità e della sua giustezza, dell’istintivo rispetto verso di essa.
Prima di chiedersi se ciò sia un bene o un male, e cosa si possa eventualmente fare al riguardo, la domanda giusta da porsi è se l’idea gerarchica corrisponda, o meno, ad un dato naturale delle società umane e della stessa natura umana: perché solo così sarà possibile farsi un’idea delle sue realizzazioni storiche e del suo protrarsi nel corso del tempo, fino a poco più di due secoli fa in Occidente, fino a pochi decenni or sono nel resto del mondo.
Ebbene: da qualunque lato si consideri la questione, sotto qualsiasi cielo ed in qualsiasi epoca, si dovrà arrivare alla conclusione, crediamo, che la gerarchia non è stata una perfida invenzione di preti astuti e di nobili avidi di potere, ma un dato naturale, scaturente per forza propria da qualunque società organizzata e rispondente alle esigenze di qualsiasi gruppo umano: fossero anche quelle di un pugno di marnai ammutinati, come gli uomini del «Bounty» alla ricerca di una nuova patria, per vivere lontano dalle inevitabili rappresaglie del mondo “civile” (i quali, infatti, proprio per non aver più riconosciuto alcuna gerarchia, nemmeno l’autorità dell’ufficiale che aveva guidato la rivolta, finirono per autodistruggersi, sulla sperduta isola di Pitcairn).
Non vi è alcun dubbio che la pratica della gerarchia nasce da una approssimazione, ossia dal tentativo di tradurre nella realtà concreta un concetto molto alto e piuttosto mal definito; così come non vi è dubbio che, storicamente, il clero e la nobiltà francesi del 1789, tanto per fare un esempio, ben difficilmente potevano essere ancora riconosciuti come i legittimi depositari di quel concetto e, quindi, far valere legittimamente i relativi privilegi.
Non per nulla la gerarchia, quando si incarna in un dato ordine sociale, ha bisogno di simboli, senza i quali si riduce al dominio puro e semplice, generalmente ingiustificato, di un gruppo sociale su un altro: così avveniva per l’investitura sacra dei sovrani di un tempo; così per l’investitura formale dei cavalieri nell’Europa medievale; così per i riti che accompagnavano, nel Tibet, il riconoscimento del nuovo Dalai Lama nella persona di un determinato bambino.
Queste cerimonie, questi riti, questi simboli, sono ciò che rende la gerarchia socialmente e culturalmente accettabile: perché, se è vero che essa nasce da una esigenza autentica e, quindi, da una vera necessità, è anche certo che la maggior parte delle società umane la tollererebbe malvolentieri, se non rivestisse i panni di una investitura dall’alto.
E a quegli storici e antropologi che, sulla scia del marxismo, hanno visto in tutto ciò una subdola manovra per strumentalizzare le masse, bisognerebbe ricordare che l’uomo, da sempre, vive di simboli; che non si è trovata una sola società umana, per quanto primitiva, che non abbia bisogno di un certo sviluppo della ritualità; e che sia i riti che i simboli traggono origine dal mito, ossia dalla forma di sapere più antica e più sacrale, che sta alla base di qualunque ordine sociale nelle culture pre-moderne.
Non esistono società senza una propria mitologia e non esistono istituzioni senza riti e senza simboli; il loro declino è incominciato allorché, in Europa, la sfera del profano si è separata da quella del sacro e quest’ultima, un poco alla volta, ma specialmente a partire dalla Rivoluzione scientifica e, poi, dall’Illuminismo, è stata moralmente delegittimata da una nuova classe di intellettuali laicisti e materialisti, tendenzialmente o esplicitamente atei, per i quali la metafisica è un sogno e la divinità è solo un inganno deliberato dei preti.
La conclusione di questo ragionamento è che le società moderne, laiche e razionaliste, avendo rinunciato ai miti, ai riti e ai simboli, e dunque anche alla gerarchia, poggiano letteralmente sul vuoto: con quali probabili conseguenze, è facile immaginare.
Per colmare quel vuoto, oscuramente avvertito anche dagli intellettuali e dagli uomini politici più esplicitamente irreligiosi e secolaristi, si è fatto ricorso ad una nuova mitologia, quella del progresso, e ad una nuova ritualità, quella della tecnica; ma, come dice la parabola evangelica, è impossibile travasare vino nuovo negli otri vecchi, per cui il risultato è stato uno svuotamento di significato e una mescolanza molto simile al caos.
Qualcosa si è vista, in una certa misura, con l’abolizione del latino dai riti della Chiesa cattolica e con l’abbandono del canto gregoriano. Il latino era, per il cristianesimo, una lingua sacra, derivante da una necessità simbolica non meno forte di quella della liturgia, del canto sacro, dei paramenti sacerdotali; la sua abolizione ha avuto un effetto che si può paragonare a quello dell’abbandono del vecchio abito talare, lungo fino ai piedi, per sostituirlo con la giacca e i pantaloni di taglio “laico”: un goffo tentativo di secolarizzare ciò che non può essere tradotto nella lingua del secolo, perché attiene alla sfera dei simboli sacri.
La cosa importante, che i novatori non volevano e non vogliono capire, non è che il latino fosse una lingua “morta” e non più compresa correttamente dalla maggioranza dei fedeli, bensì che era, da duemila anni, la lingua della Chiesa cattolica e che rappresentava, pertanto, la sua universalità, la sua antichità, la sua solennità; per cui, prima di rinunciarvi con un tratto di penna, forse sarebbe stato bene riflettere sul suo significato ideale e non solo su quello pratico.
E quello che abbiamo detto per il latino, vale anche per cento altri aspetti della sfera religiosa e di quella civile; vale, ad esempio, per l’idea monarchica, che sarà anche una idea storicamente superata (ma bisognerebbe spiegarlo a quei due miliardi di persone che si sono emozionate assistendo, in diretta televisiva, alle nozze di William e Kate) e, tuttavia, è l’unica che consenta, a determinate condizioni, di porre una istanza superiore, universalmente riconosciuta, nel guazzabuglio dei partiti e delle fazioni politiche discordi; una istanza che consenta a ciascuno di non perdere mai di vista la finalità suprema del bene comune.
Ancora e sempre, dunque, gerarchia.
Diceva Platone che, come sarebbe assurda la pretesa del cittadino qualsiasi di improvvisarsi ciabattino o pasticciere,  altrettanto assurda lo è quella che egli si improvvisi uomo di Stato, capace di guidare la cosa pubblica con la necessaria competenza: eppure tutta la moderna democrazia si basa su questa assurda pretesa.
Non sarebbe ora di lasciar perdere l’ideologia illuminista e di ritornare al buon senso di un tempo?