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Dalla parte del sole

di Eduardo Zarelli - 13/05/2011

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La catastrofe giapponese mette impietosamente in evidenza l'impotenza e l'incapacità da parte di chi gestisce le centrali nucleari, di controllare in maniera soddisfacente situazioni di grave emergenza. Non perché i tecnici e gli scienziati giapponesi siano incompetenti (unanimemente considerati fra i migliori al mondo) ma in quanto tecnologicamente non esistono i requisiti per far fronte ad emergenze di questo genere. In questo scenario epocale si innestano gli afflati del dibattito politico e culturale sull'energia nucleare nel nostro Paese. I motivi del reimpianto delle centrali vengono giocati sul campo della razionalità produttiva, dell'autonomia e diversificazione delle fonti. Come fattore di crescita sociale per i progressisti, così come di volontà di potenza e sovranità politica per i conservatori. In realtà, la pacata disanima dei fattori in campo, basterebbe a considerare come insipiente la scelta governativa, ma è forse più importante elevare il tono della discussione, a dimostrare la fragilità delle categorie ideologiche di fronte ai temi di mutamento e contraddizione epocale che scuotono la civilizzazione occidentale. Le quattro nuove centrali nucleari progettate, con un costo di 30 miliardi di lire, entrerebbero in funzione fra 15/20 anni, e produrrebbero il 5% dell'energia nazionale. È del tutto evidente la sproporzione tra investimento e risultato. Il 5% è quanto si può ottenere da subito con una seria politica di risparmio e di efficienza degli impianti già esistenti. Il costo Kwh (kilowatt/ora) del nucleare è maggiore di quello di ogni altra fonte (nucleare: 10,2 – eolico: 9,9 – carbone: 9,8 – gas: 8,2 ), questo perché oltre agli investimenti per la costruzione di una centrale, bisogna calcolare anche il costo di smantellamento, che può persino raddoppiare. Ultimo, ma non ultimo, le centrali utilizzano come combustibile l'uranio. Le principali miniere di uranio (ad esaurimento) sono in Australia e in Africa: quale indipendenza quindi?
La stessa consapevolezza ambientalista riconosce che se nel medio periodo le fonti rinnovabili sono in grado di fornire una quantità di energia uguale o superiore a quella dei fossili, hanno comunque dei limiti. E allora in un pianeta finito non possiamo pensare di mantenere costante e invariato il ritmo di crescita che è stato tipico della società industriale mossa da tali combustibili in via di esaurimento. Il problema fondamentale è quindi abituarsi a vivere in una condizione di cambiamento radicale del paradigma della crescita illimitata. Le risorse naturali si stanno esaurendo e non può esservi una crescita materiale infinita in un mondo finito. Comunque vada, la strada intrapresa ci porta verso una società stazionaria; il solo interrogativo è: di quanta energia potrà disporre questa società? Che sia poca o che sia tanta, bisognerà necessariamente adattarsi, non sarà possibile fare altrimenti. Ma una società stazionaria è comunque completamente diversa da ciò a cui siamo abituati. Lo è dal punto di vista innanzitutto culturale, quindi politico ed economico.  
In tal senso, dov'è la convenienza economica a insistere su una tecnologia comunque imperfetta e dipendente da una fonte fossile in esaurimento? Che patto generazionale è mai quello che lascia alle future generazioni per centinaia, migliaia di anni le conseguenze di un sistema energetico che durerà, una volta costruito, 50 o al massimo sessant'anni? Non è assurdo che una battaglia tra pro e contro il nucleare debba svolgersi proprio nel Paese del sole, del mare, del vento? Una politica rivolta allo sfruttamento delle potenzialità del solare e delle altre fonti rinnovabili e alla riduzione razionale dei consumi sarebbe un motore importante per un diverso modello economico nel nostro paese. Mentre i costi delle energie rinnovabili scenderanno certamente nei prossimi dieci anni, i costi del nucleare sono per loro natura imponenti e a onerosissimo finanziamento pubblico. In Germania se ne sono accorti: «La politica ecologica è la politica del futuro, anche per l'economia» ha spiegato il ministro dell'Ambiente tedesco Norbert Roettgen, non un bucolico estremista quindi. I dati ufficiali del suo dicastero, che né le imprese né tantomeno i Grünen contestano, parlano chiaro: l'efficienza nell'uso delle materie prime nell'economia tedesca è aumentata del 46,8% tra il 1994 e il 2009. I costi del sistema economico sono calati di 100 miliardi di euro. Proprio mentre, parallelamente, la percentuale di energia prodotta dal nucleare scendeva dal 27,3% del 1991 a una cifra attorno al 20% (fino alla chiusura dei sette reattori decisa nei giorni successivi alla tragedia giapponese), e quella delle rinnovabili volava nello stesso arco di tempo dal 3,2 al 17%. Una produzione di energia elettrica affidata al 100% alle rinnovabili è possibile entro il 2050 e il governo si è posto l'obiettivo di arrivare all'80% nel consenso trasversale non dichiarato: mentre i reattori nucleari tedeschi danno lavoro a circa 30mila persone, gli occupati nel comparto delle rinnovabili sono aumentati dai 277mila del 2007 ai circa 340mila attuali.
Ma questo non basta: inutile puntare sulle fonti rinnovabili, se le si pensa come un fattore di continuità e non di cambiamento rispetto a un sistema produttivo ormai al capolinea. La “rivoluzione” verde funzionerà solo se si avrà il coraggio di abbandonare l’attuale sistema. Il mondo naturale non è una semplice tela di fondo su cui si muovono le nostre esistenze, una sorta di magazzino di risorse naturali, erroneamente considerate inesauribili e gratuite all'infinito; ma, è invece una delle condizioni sistemiche della vita. Distruggere la natura non solo significa l’eliminazione del nostro luogo ma anche di noi stessi, come se fossimo a scadenza. Ogni cosa ha un limite. Qualsiasi tendenza spinta al suo estremo si trasforma bruscamente nel suo contrario.
Nella prospettiva di una post-crescita, è necessario riconoscere il valore intrinseco della natura, un valore autonomo rispetto all’uso che ne facciamo. In tal senso, da consumatori dobbiamo diventare produttori consapevoli di energia a filiera corta. La maggior parte dell’energia,  non dovrà più essere prodotta in grandi centrali, ma tramite piccoli impianti per autoconsumo collegati in rete per scambiare le eccedenze. Solo in questo modo si potranno risolvere i problemi legati alla discontinuità delle fonti rinnovabili, minimizzando il loro impatto ambientale e riducendo anche le perdite di trasmissione. Una “rete di reti” locali, sul modello del web. Anche a tutela estetica: i grandi impianti a fonti rinnovabili, oltre a devastare il paesaggio e i terreni agricoli, implementano legalmente con denaro prelevato dalle tasche dei contribuenti gli utili delle grandi aziende energetiche, con l’appoggio dei partiti e di storiche associazioni ambientaliste. La scelta strategica di spostare l’asse della produzione energetica su piccoli impianti di autoproduzione con scambio delle eccedenze in una “rete di reti”, orizzontale come il web, può creare un cambio radicale di paradigma e promuovere una nuova politica economica, finalizzata a creare occupazione nelle tecnologie che consentono di attenuare la crisi ambientale: sarebbe una drastica inversione della tendenza alla globalizzazione, verso la rivalutazione delle economie locali. Il territorio è il luogo naturale di questa grande battaglia, che coinvolge lo stile di vita individuale in un contesto comunitario e partecipativo, solidale perché sussidiario. Una vera rivoluzione fattuale, per mutare l’attuale modello di sviluppo.
In termini culturali, sono proprio fisici come lo scomparso Ilya Prigogine o Fritjof Capra che interpretando la materia oltre la provocazione titanica della fissione hanno contribuito nell'affermarsi dei nuovi - in realtà antichi - modelli epistemologici olistici per cui il concetto di relazione diventa più importante del concetto di struttura o di entità dell'oggetto. Si tratta di un cambiamento radicale, paradigmatico appunto,  la struttura della rete nel suo complesso è determinata unicamente dalla coerenza delle relazioni. Questa visione è vista con sospetto, perché delegittima la tradizione scientifica dualistica e riduzionista dominante. Ma la coscienza delle interconnessioni e delle interdipendenze fondamentali di tutti i fenomeni, la coscienza dell'integrazione in sistemi più ampi, è nello stesso tempo coscienza ecologica e coscienza spirituale. Innerva le maggiori forme sapienziali tradizionali tra oriente e occidente secondo le quali ogni parte "contiene" tutte le altre in una percezione sacrale della natura. Come dice Sri Aurobindo: "Per il senso supermentale non vi è nulla di realmente delimitato: esso si fonda sulla percezione del tutto in ogni cosa e di ogni cosa nel tutto".  E così si esprime Sir Charles Eliot commentando le forme del Buddhismo giapponese: "Si dice che nel cielo di Indra esiste una rete di perle disposta in modo tale che, osservandone una, si vedono tutte le altre riflesse in essa. Nello stesso modo, ogni oggetto nel mondo non è semplicemente se stesso ma contiene ogni altro oggetto, e in effetti é ogni altra cosa. In ogni particella di polvere, sono presenti innumerevoli Buddha". Un messaggio di inesauribile saggezza dalla cultura del dignitoso Paese della divina e solare Amaterasu, per una civiltà dell'Essere e della compiutezza.