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Tra Gerty MacDowell e Leopold Bloom l’antico gioco sterile della seduzione «ingenua»

di Francesco Lamendola - 20/05/2011



Nel capitolo dell’«Ulisse» dedicato a Nausicaa («Le rocce»), James Joyce rappresenta, con consumata abilità psicologica, l’antico, sottile gioco della seduzione “ingenua” fra una fanciulla zoppa di modeste condizioni sociali che, con due amiche e i loro fratellini, si è recata sulla spiaggia di Dublino, in una bella serata estiva rallegrata dai fuochi d’artificio, e un solitario personaggio maschile che si rivelerà essere non altri che Leopold Bloom, l’ebreo protagonista del romanzo.
Forse anche perché questi sta pensando alla moglie, Molly, con la quale, da tempo, non intrattiene più rapporti sessuali, sta di fatto che l’uomo maturo e navigato si lascia afferrare dal brivido dell’eccitazione sensuale che la fanciulla, apparentemente inesperta e assai romantica, con la testa piena di romanzi rosa e di avvincenti storie sentimentali, ma, in realtà, fresca di una cocente delusione sentimentale perché è stata lasciata dal suo corteggiatore, intesse a distanza, con lo sguardo e con i movimenti del corpo, sotto il naso delle ignare compagne.
Tutta la scena si svolge senza che i due si rivolgano mai la parola, né compiano alcun gesto esplicito, anche se, approfittando della necessità di seguire con lo sguardo la parabola dei bengala, la ragazza, di nome Gerty MacDowell, a un certo punto incomincia a incurvarsi in modo tale che l’uomo, il quale si trova sulle rocce più in basso di lei, possa ammirare tutto ciò che l’ampia e lunga gonna, allora d’obbligo per le donne e le fanciulle per bene, in posizione normale nasconderebbe.
Il gioco si spinge tanto in là che, alla fine, oltre alle gambe, lei esibisce, senza averne l’aria, anche le mutandine di batista, che, fortunatamente, quel giorno aveva indossato al posto dei poco eccitanti mutandoni di tela grezza; mentre l’uomo, anch’egli senza averne l’aria, si masturba silenziosamente, seguitando ad ammirare tutta quella grazia di Dio: qualcosa che, date le abitudini dei primi anni del Novecento, in condizioni normali non avrebbe mai potuto sperare di vedere, se non in un rapporto sessuale vero e proprio; ma, in tal caso, non certo in un luogo pubblico.
Dalla vicina chiesa cattolica si spandono le parole della messa e il suono della musica sacra e ciò rende più piccante la situazione; dopo di che, la pioggia dei fuochi d’artificio fa da contraltare all’orgasmo clandestino di Bloom e all’estasi di lei che, inseguendo mille pensieri confusi di amicizia amorosa, fidanzamento e matrimonio con quel misterioso sconosciuto dall’aria sensuale, ma anche profonda e rispettabile, conduce il gioco con uno straordinario miscuglio d’ingenuità puerile e di raffinatissima malizia.
Il piacere di lasciarsi guardare; di lasciarsi guardare mentre si mostra qualcosa di troppo; di lasciarsi ammirare mentre, a propria volta, si osserva l’effetto che tale situazione produce nell’uomo: è uno dei piaceri proibiti della psicologia femminile, sul quale numerosi scrittori, pittori e registi cinematografici si sono soffermati, anche se non sempre sono riusciti a evitare il facile scivolone nella banalità, nella finta spregiudicatezza e nella autentica pornografia.
Si tratta, infatti, di una situazione psicologica molto sfumata e complessa: nessuna donna  normale la provocherebbe a cuor leggero, con ostentazione e con grossolana noncuranza, a meno che si tratti dell’invito sessuale di una prostituta o di una ninfomane; però, al tempo stesso, ben poche donne normali riuscirebbero, a determinate condizioni e in determinate circostanze, a non provarne la tentazione, che poi è la tentazione di incoraggiare il voyeurismo maschile.
Il massimo della raffinatezza, infatti, consiste nel provocare lo sguardo maschile, ma senza fare mostra di accorgersene; anzi, nel portare al culmine l’eccitazione dell’uomo, senza mai lasciargli capire con certezza se il gioco sia intenzionale oppure no, se la donna si sia accorta, o meno, di essere osservata.
La situazione può essere creata ad arte, con sapienza, per mezzo della porta della stanza da bagno rimasta socchiusa, in apparenza per una semplice distrazione; di una tenda della finestra rimasta aperta, come per caso; di un certo modo di accavallare le gambe, stando seduta al tavolino del bar o sulla poltroncina del cinema o, magari, su quella del treno.
Ma, tornando a Gerty MacDowell: la fanciulla dublinese, che, standosene seduta per tutto il tempo, solo alla fine, al momento di andarsene, rivela a Bloom la sua deformità fisica, mentre per tutto il tempo ha potuto mostrare fieramente il suo bel visino fresco e, di contrabbando, le sue gambe ben proporzionate, si è accorta che la sua provocazione è arrivata a segno, al punto tale da indurre il suo taciturno ammiratore a cercare quella soddisfazione solitaria che, in genere, si prendono i ragazzini inesperti? E, se sì, che cosa ne pensa?
Vi sono pochi dubbi in proposito: se, alla fine dello spettacolo pirotecnico e ormai in procinto di raggiungere le fastidiose compagne, Gerry lancia allo sconosciuto uno sguardo «di perdono», ciò vuol dire che se n’è accorta benissimo; e, a quanto pare, il pensiero non la imbarazza minimamente, anche se le fa venire in mente certe confessioni, quelle sì imbarazzanti, che le ragazze come lei devono fare al prete, nel confessionale, quando si trovano, loro stesse, in tentazioni analoghe; anzi, si direbbe che, sotto sotto, ne vada piuttosto fiera.
Non è forse quella una prova che ha fatto centro, che ha sedotto quello sconosciuto, che ha verificato su di lui, e sia pure a distanza e nella massima discrezione, il proprio potere seduttivo, la propria capacità di attirare l’interesse sessuale di qualunque uomo? È, in fondo, una rivincita contro quello sciocco fidanzatino che l’ha appena mollata e, soprattutto, contro quelle oche delle sue compagne, che in realtà detesta, con quei mocciosetti chiassosi e rompiscatole, che la fanno vergognare d’essere in loro compagnia, lei così distinta e raffinata.
Perché, dunque, chiamare questo gioco, il gioco della seduzione “ingenua”, se, a ben guardare, c’è poco o niente di ingenuo nei due protagonisti, e specialmente nella donna, la quale, con il suo esibizionismo, ha dato inizio al duetto erotico?
Appunto perché si tratta di una falsa ingenuità, evidenziata dall’uso delle virgolette; o meglio, se si preferisce, di un gioco in cui ingenuità e malizia si sfiorano, si soprappongono e si separano continuamente, per mille fili sottilissimi, al punto che sarebbe difficile, se non impossibile, stabilire con sicurezza dove finisca la prima e dove incominci la seconda.
È un argomento delicato; ce ne rendiamo conto. Quando la donna provoca, ma senza averne l’aria, mette in moto un meccanismo che ella pensa di poter padroneggiare, ma che, invece, talvolta le sfugge di mano: ciò accade quando l’uomo, sentendosi invitato, si fa avanti per un approccio sessuale esplicito, che non era nelle intenzioni di lei: con delle conseguenze che possono arrivare fino alla violenza sessuale vera e propria.
In simili casi, e sappiamo di dire una cosa molto impopolare, bisognerebbe che la donna si facesse un lungo e approfondito esame di coscienza, prima di vestire i panni della vittima innocente: perché, se vittima lo è stata certamente, innocente non lo è stata di sicuro.
È pur vero che, quando si verifica un tale, drammatico malinteso, esso è dovuto anche alla profonda ignoranza reciproca, da parte dell’uomo e della donna, delle due diverse forme di sessualità: perché mentre la donna può anche desiderare solo l’eccitazione - propria ed altrui - e, in qualche misura, appagarsene, non così accade all’uomo, per il quale, fisiologicamente, l’eccitazione è sempre il preambolo dell’atto sessuale vero e proprio.
In ogni caso, è evidente che quello di provocare ed esasperare l’eccitazione altrui, è un gioco sommamente pericoloso; più precisamente, un gioco di potere: e chi è tanto sprovveduto da ignorare che l’esercizio del potere è, in se stesso, una attività potenzialmente erotica?
Lo ha descritto magistralmente il regista polacco Valerian Borowczyk nel suo film «Cérémonie d’amour», del 1987 (titolo della versione italiana: «La regina della notte»), tratto da un racconto di André Pieyre de Mandiargues, nel quale l’erotismo - specialmente nella notevole interpretazione dell’attrice Marina Pierro - non provoca nello spettatore né eccitazione, né divertimento, bensì un sentimento assai vicino alla paura.
Ma cediamo la parola allo sesso Joyce («Ulisse», traduzione di Giulio De Angelis, Milano, Mondadori, 1985, pp. 500-03):

«... Gli occhi che le erano incollati addosso le mettevano il formicolio nelle vene. Lo guardò un istante, incrociando lo sguardo e la luce si fece in lei. C’era una passione rovente in quel volto, passione tacita come una tomba, ed era quella che l’aveva resa sua.  Finalmente erano rimasti sli senza nessuno a sbirciare e a far commenti  e lei sapeva che di ui si poteva fidare fino alla morte, costante, un uomo tutto d’un pezzo, un uomo d’onore inflessibile fino alla punta delle unghie. Le mani e il volto di lui vibravano e un tremito la pervase tutta. Si piegò tutta all’indietro per vedere meglio i fuochi e si strinse un ginocchio tra le mani per non cadere guardando in su e non c’era nessuno a vedere, solo lui e lei, quando senza parere rivelò tutta la graziosa vaghezza delle sue gambe ben modellate, flessibili e delicatamente arrotondate, e le pareva sentire il palpito del cuore di lui, e il suo rauco respiro, perché sapeva tutto delle passioni di uomini di quel genere,  dal sangue caldo, perché Bertha Supple le aveva detto una volta in segreto e le aveva fatto giurare che mai avrebbe di quel signore che era loro inquilino, che era dell’Ufficio Zone Sovrappopolate e aveva fotografie di ballerine con le gambe per aria ritagliate dai giornali e lei poi diceva che lui faceva qualcosa di poco bello che ci si può immaginare delle volte stando a letto.  Ma questa era tutta diversa da una cosa come quella perché tutta la differenza stava lì perché lei poteva quasi sentirsi attirare  il viso contro il suo e sentire il primo, rapido, caldo tocco delle sue labbra. E poi c’era l’assoluzione finché non si faceva  quell’altra cosa prima d’esser marito e moglie e ci dovrebbero essere preti capaci di capire senza bisogno di dir loro tutto e anche Cissy Caffrey qualche volta aveva quel certo sguardo sognante negli occhi perché anche lei, cara mia, e Winny Rippingham così fanatica per le fotografie  degli attori e oltre a tutto era per via  di quel’atra cosa che arriva in quel modo.
E Jacky Caffrey gridò che guardassero, ce n’era un altro e lei si gettò all’indietro  e le giarrettiere erano azzurre per intonarsi e per mettere in rilievo  la trasparenza e tutti lo videro e urlarono di guardare, guarda eccolo e lei si gettò ancor di più al’indietro per vedere i fuochi  e qualcosa di strano volava per aria, qualcosa di morbido avanti e indietro, scuro. Ed essa vide un lungo bengala che saliva di là dagli alberi, su, su, e, in un silenzio teso, a tutti mancò il fiato per l’eccitazione mentre saliva sempre più in alto, e lei dovette gettarsi  sempre di iù all’indietro per seguirlo con lo sguardo, in alto, in alto, quasi a perdita d’occhio, e il suo volto erra soffuso di un divino, seducente rossore per lo sforzo e lui poteva anche vedere altre cose di lei, mutandine di batista il tessuto che accarezza la pelle, meglio d quelle altre mutande a pantalone, verdi, a quattro scellini e undici pence, perché erano bianche e lei lasciva che lui e vedeva che lui vedeva e poi salì così in alto che si sottrasse alla vista un istante e lei tremava in ogni parte del corpo per essere così gettata all’indietro e lui poteva vedere tutto quel che voleva al di sopra del ginocchio, dove mai nessuno neanche sull’altalena  o quando si mettono i piedi in acqua e lei non si vergognava e lui neanche  di guardare in quel modo impudico perché lui non poteva resistere alla vista di quelle mirabili rivelazioni semi-profferte come quelle ballerine che si comportano così impudicamente sotto gli occhi dei signori e lui continuava a guardare, guardare. Avrebbe voluto gridare con voce soffocata, tendergli le svelte braccia nivee perch’egli venisse, sentire le sue labbra posarsi sulla sua bianca fronte  il grido d’amore di una fanciulla, un piccolo grido strozzato, strappatole a forza, quel grido che è risuonato nei secoli dei secoli. Allora partì un razzo e pam uno sprazzo di luce accecante e oh! Il bengala scoppiò e fu come un sospirare di oh! E tutti gridarono oh! oh! In estasi di rapimento e ne sgorgò un fiotto di pioggia di fili d’oro e si sparsero e ah! Ora erano tutte roride stelle verdastre che cadevano con altre dorate, oh così vive! oh così tenere, dolci, tenere!
Poi tutto si sciolse rugiadosamente nell’aria grigia: tutto tacque. Ah! Gli lanciò uno sguardo nel chinarsi rapidamente in avanti, un piccolo sguardo patetico di pietosa protesta, di pudico rimprovero sotto il quale egli avvampò come una fanciulla. Egli si appoggiava alla roccia dietro di lui. Leopold Bloom (sì, non altri che lui) è là in piedi silenzioso, a testa bassa di fronte a quei giovani occhi innocenti. Che bruto è stato! Un’altra volta quel lavoro?  Una bella anima illibata si era rivolta a lui e, miserabile, come aveva risposto? Un vero farabutto era stato. Lui, proprio lui! Ma c’era un’infinita riserva di misericordia in quegli occhi, una parola di perdono anche per lui per quanto avesse errato e peccato e vagato. Lo andrebbe a raccontare una ragazza? No, mille volte no. Era il loro segreto, loro soltanto, soli nel crepuscolo avviluppante e non c’era nessuno che sapesse e potesse dire eccettuato quel piccolo pipistrello che volava pian piano qua e là nella sera e i piccoli pipistrelli non parlano.
Cissy Caffrey fischiò, imitando i ragazzi sul campo del gioco del calcio per far vedere che era da più degli altri: e poi gridò:
“Gerty! Gerty! Noi andiamo. Forza. Si vede di quassù”.
Gerty ebbe un’idea, una delle piccole astuzie d’amore. Infilò una mano nel taschino e tirò fuori il batuffolo d’ovatta  e lo agitò in risposta senza farsene accorgere da lui si capisce e poi lo rinfilò a posto. Mi domando se è troppo lontano per. Si alzò. Era l’addio? No. Doveva andare ma si sarebbero incontrati di nuovo, là, e lei sognerebbe quell’incontro  fino a quel momento, domani, quel suo sogno di ieri sera.  Si drizzò del tutto. Le loro anime si incontrarono  in un ultimo sguardo indugiante e gli occhi che le giunsero al fondo del cuore, pieni di uno strano luccichio, aleggiarono affascinati sul suo dolce volto simile a un fiore. Accennò un pallido sorriso  verso di lui, un dolce sorriso di perdono, un sorriso prossimo alle lacrime, e poi si separarono.»

Questo brano di prosa si presterebbe a mille altre considerazioni di natura psicologica; ma ci limiteremo a farne un’ultima.
Sempre di più cresce il numero delle donne che non solo indulgono al piacere della seduzione fine a se stesso, ossia non come preliminare di una conquista, ma come pura e semplice esercitazione di potere; ma che spingono tale discutibile arte fino al punto di raggiungere così, e soltanto così, la propria piena soddisfazione sensuale.
Intervistate in proposito durante un corso di psicoterapia, alcune ragazze hanno ammesso di raggiungere l’orgasmo vero e proprio mediante l’eccitazione del maschio e il successivo rifiuto dei suo approccio.
È il rifiuto che genera l’orgasmo, o meglio, il piacere sublime del rifiuto, beninteso dopo aver esasperato il desiderio maschile: situazione che era stata già bene descritta nel romanzo di Pierre Louÿs «La donna e il burattino», del lontano 1898.
Certo, si tratta di casi relativamente rari; ma, a nostro avviso, essi sono in costante aumento: come se il narcisismo oggi dilagante, sia fra le donne che fra gli uomini, rendesse più desiderabile l’appagamento dell’eros mediante il rifiuto, piuttosto che mediante l’abbandono.
Se questo è vero, tempi difficili attendono sia gli uomini che le donne, nelle loro relazioni reciproche.
Tempi aridi, tempi sterili; tempi di chiusura, di negazione, di tristezza, in luogo della bellezza e della dolcezza che l’uomo e la donna potrebbero donarsi, se ritornassero in se stessi e rinunciassero alle tentazioni dell’orgoglio e ai giochi di potere; se volessero aiutarsi, l’un l‘altra, a tirar fuori la propria parte migliore, invece di quella peggiore.