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Il migliore dei mondi possibili

di Costanzo Preve - 11/06/2006

Carlo Gambescia

Il migliore dei mondi possibili. Il mito della società dei consumi

Edizioni Settimo Sigillo, Roma 2005

144 pag., 15 euro

 

A differenza di molti libri, in cui il titolo promette più di quanto lo svolgimento realmente mantenga, qui siamo di fronte ad un caso felice, in cui il contenuto sorpassa lo stesso oggetto culturale indicato nel titolo stesso. È il caso del libro di Carlo Gambescia. Mi tocca ora portare degli argomenti credibili che sostengano questa mia impegnativa valutazione positiva, ma per fortuna non mi è difficile farlo.

Da un lato, Gambescia ci dà moltissime informazioni sul tema della società dei consumi, dall’esposizione di tre teorie sulla sua genesi storica (pp. 31-37) alla segnalazione della teoria sull’iperconsumo di Ritzer (pp. 89-102), dalla critica dell’uso disinvolto della categoria di post-fordismo (p. 91) alla segnalazione delle importanti teorie di Karnooh e di Arrighi (pp. 42-43), eccetera. Dall’altro, sulla scorta del suo principale autore classico di riferimento, che è Pitrim Sorokin, Gambescia si spinge fino a suggerire una possibile «scommessa anticapitalistica» del tutto estranea alle tradizionali prognosi di origine marxista, che merita una valutazione particolare, cui certamente non mi sottrarrò.

 

1.Per parlare della cosiddetta «società dei consumi» bisogna prima ovviamente che questa società dei consumi ci sia. Nonostante alcune ricostruzioni storiografiche (cfr. Chandra Mukerji, pp. 31-33) la retrodatino addirittura al XV-XVI secolo (in parallelo comunque con le ricostruzioni storiche di Immanuel Wallerstein), io tendo personalmente a proporne una definizione assai più limitata spazialmente e temporalmente. A mio avviso la società dei consumi non si identifica semplicemente con lo spirito capitalistico variamente definito (cfr. W. Sombart, Lusso e capitalismo, Edizioni all’Insegna del Veltro, Parma 1982), oppure con l’istituzione di un particolare profilo antropologico di tipo sensistico-utilitaristico (cfr. C. Champetier, Homo consumans, Arianna Editrice, Casalecchio 1999), ma si costituisce solo dopo la genesi di una vera e propria produzione capitalistica standardizzata di massa, in cui appunto si sviluppano due distinti «consumi», il consumo di prestigio minoritario, da un lato, ed il consumo standardizzato di massa, dall’altro. Il secondo tipo di consumo si sovrappone al primo esistente da secoli. Ed è proprio questo tipo di consumi che ci interessa. Da un lato, esso può essere visto sotto l’angolo della «integrazione», dell’integrazione cioè di sempre più larghe masse nel processo consensuale di riproduzione capitalistica. Dall’altro, ma non in alternativa alla prima modalità, esso può essere visto sotto l’angolo del «completamento» e del «perfezionamento» idealtipico dello stesso capitalismo, che passa da una fase elitaria, borghese (più esattamente signoril-borghese), classista, ad una fase post-borghese (ed ovviamente post-proletaria) e non più classista, non certo nel senso che vengano meno i differenziali di reddito e di potere d’acquisto (che anzi aumentano,  come ci ricorda ogni giorno la berlusconizzazione della società italiana), ma nel senso che l’aumento di questi differenziali non si accompagna più (o si accompagna sempre meno) a forme di coscienza antagonistiche di classe e di contrapposizione collettiva e di gruppo e non solo individuale.

 

2.Per quanto riguarda l’Italia si può scegliere il 1958 come l’anno in cui è iniziato il cosiddetto boom economico che per la prima volta ha portato ad una vera e propria società dei consumi. Non è un caso che il suo apparire abbia visto il fiorire di una doppia critica convergente nei temi di fondo, la critica cattolica e la critica comunista (nel senso della chiesa cattolica romana italiana e del PCI di Togliatti. La critica cattolica vi ha visto, con una sostanziale pertinenza e preveggenza, la fine della società tradizionale per cui la religione era un fatto di costume comunitario e collettivo e non una semplice «scelta» individuale, e l’inizio di un processo di scristianizzazione progressiva ben più pericoloso della sfida ateistica del comunismo (sfida rivelatasi a medio termine più ridicola che veramente demoniaca). La critica comunista vi ha visto la fine del pauperismo rivendicativo di tipo populistico e soprattutto la fine del profilo antropologico della militanza rivoluzionaria di massa.

È passato quasi mezzo secolo da allora, e Gambescia fa correttamente notare che se un tempo della società dei consumi se ne parlava troppo e male, oggi se ne parla troppo poco e bene. Un tempo la società dei consumi era giudicata oppressiva e persino totalitaria, oggi essa è considerata modello di libertà. Da un atteggiamento apocalittico di rifiuto si è passati alla gioiosa accettazione del consumismo. A cosa è dovuto tutto questo? Se ne può dare una spiegazione che non sia solo penosamente moralistica, visto che in generale il moralismo recriminatorio è l’ultimo rifugio dei perdenti?

 

3.Proviamo dunque a fare qualche ipotesi sul quarantennale mutamento di prospettiva indicato da Gambescia. Onestamente, non so rispondere. Posso però provare a fare almeno tre ipotesi.

In primo luogo, possiamo spiegare questo fenomeno con un’evoluzione interna alla categoria degli intellettuali, in particolare a quella categoria particolarmente degradata e corrotta che sono i pubblicisti-tuttologi del circo mediatico. La generazione disgraziata del Sessantotto è passata da una fase giovanile di anticapitalismo apocalittico, pauperistico, mimetico-proletario, messianico-terzomondistico, eccetera, ad una fase senile perfettamente rovesciata (ma un cubo rovesciato resta identico nell’essenziale) di apologia sfrenata della globalizzazione capitalistica, dell’apologia dei diritti umani in funzione della legittimazione dell’intervento armato imperialistico, eccetera. È chiaro che a tutto questo si è accompagnato un parallelo passaggio da una critica di tipo «cattocomunista» alla società dei consumi ad una sua apologia trash, in quanto nella logica dei consumi di massa è ovvio che il gossip esibizionistico televisivo stia al di sopra di tutta la letteratura mondiale.

In secondo luogo, possiamo dare una spiegazione più strutturale. In breve, la critica filosofico-sociologica alla società dei consumi sarebbe tipica della prima fase dell’instaurazione di quest’ultima, esattamente come i comportamenti collettivi ribellistici e rivoluzionari della classe operaia, salariata e proletaria sarebbero tipici della prima fase della sua costituzione, quando restano ancora dominanti i «ricordi» della sua vita artigiana e contadina di tipo «comunitario». In un secondo momento i «consumi» diventano un orizzonte vitale quotidiano, una «seconda natura» incollata alla prima, ed è perciò sempre più difficile la presa di distanza indispensabile perché una critica possa articolarsi. Non esiste più la società borghese classica con i suoi consumi elitari distinti da quelli standardizzati, non esiste più la società tradizionale comunitaria di tipo contadino-artigiano in cui il cristianesimo e i suoi apparati esercitavano un’egemonia simbolica indiscussa, e non esiste infine più la società popolare-militante in cui si è sviluppata l’utopia socialista di emancipazione con i suoi caratteri deterministici e teleologici (che sono poi tutt’uno, trattandosi filosoficamente di un positivismo al servizio di un utopismo).

In terzo luogo (e questa è la versione a cui tendo spontaneamente a dare maggior credito), dopo la morte ingloriosa e grottesca del comunismo storico novecentesco recentemente defunto (1917-1991), il capitalismo globalizzato ha frettolosamente eliminato non solo la sua alternativa utopico-globale, il comunismo appunto, ma anche la sua variante moderatissima, la democrazia organizzata proporzionalistica in politica e keynesiana in economia, inaugurando una vera e propria «post-democrazia» (nel senso del politologo Crouch, che l’ha definita concettualmente in modo molto soddisfacente). Questa post-democrazia politica implica economicamente non solo il regno del lavoro flessibile e precario e dell’illimitata permanenza dei figli a casa dei genitori (con negative conseguenze esistenziali e demografiche), ma anche e soprattutto una diminuzione secca del potere d’acquisto dei ceti a reddito fisso e modesto. La «botte» dei redditi ritorna ad essere una «piramide», o se si vuole una «clessidra» con la strozzatura molto in alto. In Italia già si assiste al fenomeno di chi non va più dal medico e rinuncia alle vacanze perché economicamente non ce la fa più. In questa situazione una pura e semplice critica del «consumismo» appare fuori bersaglio, perché si assiste piuttosto ad una riduzione dei consumi necessari in presenza di un aumento dei consumi vistosi da parte della nuova aristocrazia gangsteristica della speculazione finanziaria e dei gruppi di portaborse, guardaspalle e puttane che le girano intorno.

 

4.Le tre ipotesi che ho sottoposto a Gambescia ed al lettore devono essere discusse, ed eventualmente respinte, arricchite ed integrate. Ora però apro una piccola parentesi filosofica personale a proposito di tre pensatori che non sono «nelle corde» di Gambescia, e che invece a mio avviso possono dirci molto sulla società dei consumi. Nell’ordine, Jean-Jacques Rousseau, Karl Marx ed infine Herbert Marcuse.

Jean-Jacques Rousseau può essere considerato un precursore filosofico della critica alla società dei consumi, perché a suo tempo ha distinto con chiarezza i bisogni naturali dai bisogni artificiali. La sua società frugale basata sui bisogni naturali presuppone però che fra le due categorie di bisogni possa essere tracciata una demarcazione netta e facilmente riconoscibile. Ora, questo è possibile solo nell’astrazione di uno «stato di natura» basato su meccanismi di riproduzione elementari e sempre eguali (coprirsi, nutrirsi, eccetera). Questa astrazione rende impossibile la pensabilità concettuale della storia. E la «storia», appunto, confonde ed intreccia continuamente il naturale e l’artificiale fino ad intrecciarli insieme in modo inestricabile. Il russovianesimo, in poche parole, sembra in grado soltanto di prospettare un intreccio utopico-ideale, ed utopico perché astorico e di fatto anche apolitico, di primitivismo economico di sopravvivenza e di moralismo ascetico della cosiddetta «virtù politica».

Karl Marx modifica radicalmente questa antropologia russoviana basata sul nesso di primitivismo economico e di virtù politica perché parte da un’antropologia alternativa. L’uomo non ha un’«essenza umana» ricavabile dalla ricostruzione di uno stato di natura originario, ma la sua essenza è di tipo naturale-generico (Gattungswesen) in cui la «genericità» è appunto la capacità polimorfica e plastica di creare continuamente nuove artificialità innovative. Queste artificialità, peraltro, non sono affatto «artificiali», perché fanno parte anzi della sua natura ontologica. L’ontologia dell’essere sociale, infatti, si basa sul fatto che sia il lavoro che il linguaggio costituiscono continuamente nuove costellazioni di vita. Il mutamento radicale di prospettiva riguardo a Rousseau mi sembra evidente.

Herbert Marcuse, infine, adatta a mio avviso l’antropologia marxiana ad una società in cui la produzione di massa sarebbe già teoricamente in grado di ridurre radicalmente la scarsità, e pertanto di svuotare dall’interno la stessa economia politica, in quanto scienza fondata sulla scarsità. Nel linguaggio di Marcuse, questa è la «fine dell’utopia», nel senso che non è ormai più utopico, ma è perfettamente realistico, perseguire un modesto ma reale benessere globale. Il maggiore ostacolo a questo razionale programma (filosoficamente hegeliano e marxiano insieme, perché già Hegel aveva scritto contro l’«astrattezza» dell’economia politica) è proprio l’ipertrofia dei consumi non necessari in presenza della scarsità di consumi necessari per la maggioranza della popolazione mondiale. Per questo ci vuole un riorientamento politico ed antropologico a proposito del rapporto fra consumi e riproduzione umana, riorientamento reso però impossibile dalla dinamica evolutiva spontanea della produzione capitalistica. Non si propone dunque un russoviano «ritorno alla natura prima della caduta nella civiltà», ma un nuovo artificialismo di tipo hegeliano e marxiano, in cui però l’«artificio» coincide con una nuova civiltà. Si noti che la distinzione tra edonismo volgare ed edonismo civilizzato è già presente nell’utilitarista dichiarato John Stuart Mill, prova provata a mio avviso che si può giungere alle stesse conclusioni pur partendo da posizioni teoriche radicalmente diverse ed addirittura opposte.

 

5. Nel precedente paragrafo ho compendiato telegraficamente il mio punto di vista, ma tornerò ora al testo di Gambescia. La sua chiave teorica si trova a pag. 133, quando Gambescia avanza una sorta di scommessa pascaliana sul possibile superamento dell’attuale società dei consumi. L’autore di riferimento di Gambescia è Pitrim Sorokin, a suo tempo espulso dall’URSS di Lenin nel 1922 su di una famosa «nave degli intellettuali dissidenti», e poi trasmigrato negli USA, dove rimase sempre un isolato, onorato ma anche tenuto a distanza dalla sociologia americana «seria», ove «serio» è sinonimo di empirismo sensistico. Il russo-americano Sorokin era in realtà un membro della piccola etnia dei Komi-sjriani, ed è a miei occhi una sorta di sciamano acculturato, che come gli altri sciamani cerca di intuire i futuri possibili e probabili, ma lo fa non attraverso i vegetali e gli animali della steppa artica, ma attraverso i segnali culturali delle civiltà storiche. Come altri suoi illustri e più noti colleghi (Guénon, Toynbee, Spengler, eccetera), Sorokin rifiutava le concezioni lineari, progressistiche ed evoluzionistiche dello sviluppo sociale in favore di una concezione ciclica della successione delle costellazioni socio-culturali. Dire «concezione ciclica» però equivale a dire meno che nulla, perché ci possono essere decine di concezioni cicliche diverse. Quella di Sorokin (cfr. C. Gambescia, Invito alla lettura di Sorokin, Edizioni Settimo Sigillo, Roma 2002) è una tipologia idealtipica di successione ciclica di configurazioni globali di mentalità (ideazionale, sensistica, idealistica, complicata però da varie sottoclassi). Non c’è qui lo spazio per discuterla (ma spero di poterlo fare altrove, incrociandola con altre filosofie della storia, tipo Hegel, Marx e Weber), ma riassumendo dirò che trovo l’articolazione tipologica un po’ artificiale e forzata, e però considero l’idea di fondo assolutamente intelligente e razionale.

Gambescia si ispira a Sorokin per scommettere pascalianamente su di una probabile deriva decadente, e quindi dissolutoria, della civiltà sensistico-materialistica in cui viviamo. Certo, è a mio avviso assai più una scommessa pascaliana che una vera e propria previsione «scientifica». Ma a chi volesse frettolosamente fare del facile umorismo a buon mercato sul presunto «irrazionalismo» delle scommesse pascaliane o delle concezioni cicliche della storia ricorderò solo, senza lasciarmi andare a polemiche che sarebbero fuori luogo in una recensione, che tutte le previsioni lineari, progressistiche, deterministiche e teleologiche della storia, a partire dal paradigma del marxismo classico novecentesco, non si trovano in buone condizioni di salute. Se ad esempio prendiamo in considerazione la recente opera di uno dei maggiori esperti viventi di marxismo (cfr. Gianfranco La Grassa, Il capitalismo oggi, Petite Plaisance, Pistoia 2004), vediamo che al massimo si prende in considerazione una rivoluzione «ciclica» dentro il capitalismo, mentre per ora si esclude esplicitamente ogni prevedibilità di una vera e propria rivoluzione anticapitalistica di sistema e di modo di produzione. Se le cose stanno allora in questo modo, e se si capisce che proiezioni desideranti ed auspici travestiti da prognosi come il «movimento dei movimenti» (Mimmo Porcaro) o le «moltitudini» (Toni Negri) sono pallidi e deboli sostituti a prevedibilità storiche reali ben altrimenti fondate, allora concluderemo che le scommesse pascaliane alla Sorokin-Gambescia hanno uno statuto teorico degno di essere almeno preso in considerazione.

 

6.Vorrei concludere brevemente con un rapido commento che Gambescia fa su di un mio libro recente a p. 55 del suo saggio (cfr. C. Preve, Marx inattuale, Bollati Boringhieri, Torino 2004). In breve, Gambescia ritiene che tutto il pensiero di Marx si basi su di una antropologia fondata sull’homo faber, o se si vuole sull’homo laborans, e che pertanto sia inficiato strutturalmente dal riduzionismo economicistico di questo «laburismo antropologico». In modo malizioso, si chiede fino a che punto Preve, che nega questa interpretazione di Marx, interpreti veramente il Marx filologicamente esistente oppure in realtà proponga il suo proprio pensiero (antideterministico ed amaterialistico) travestendolo da interpretazione marxiana per dargli così una maggiore auctoritas.

Questa cortese critica merita un’altrettanto cortese risposta, che sarò ovviamente costretto in questa sede a compendiare in modo quasi telegrafico, anche se spero comprensibile. Personalmente, a me non interessa dare la «vera» interpretazione del «vero» Marx, perché penso che né la vera interpretazione né il vero Marx esistano. La vera interpretazione del vero Marx è una fantasia teologica di preti militanti, un clero da cui mi sono sempre tenuto lontano, che disprezzo e da cui sono anche cordialmente disprezzato. Il Marx storico non ha mai «coerentizzato» il suo pensiero in una dottrina, e questa «coerentizzazione», necessariamente ideologica, prescrittiva e legittimante, è stata fatta fra il 1875 ed il 1895 da Engels e da Kautsky. A sua volta, questa coerentizzazione, che si basa effettivamente (e qui Gambescia ha sostanzialmente ragione) su di un’immagine antropologica dell’homo faber e dell’homo laborans, non è stata né un errore né un tradimento di un fantomatico (ed inesistente) puro pensiero marxiano originario, ma è stata un giustificatissimo adattamento alle esigenze politiche e sindacali del nuovo movimento operaio, prima socialista e poi comunista.

In realtà, a mio avviso ovviamente, l’antropologia marxiana non può essere ridotta alla dimensione del faber e del laborans (che sono peraltro profili diversi, in quanto il faber comprende tutte le attività ideazionale e culturali, e non solo la «trasformazione» della natura in oggetti). È questa l’opinione di Martin Heidegger ed anche di Alain de Benoist, ed è anche l’opinione «a sinistra» di Marco Revelli (cfr. Oltre il novecento, Einaudi, Torino, 2001), il che dimostra oltre ogni ombra di dubbio che questa interpretazione di Marx non è né di destra né di sinistra, ma attraversa diagonalmente sia la tradizione culturale di destra che quella di sinistra. Nella mia ottica l’antropologia filosofica marxiana (da tenere distinta dalla sua analisi del modo di produzione capitalistico, che è posteriore e che presenta data l’epoca in cui fu elaborata aspetti positivistici, e quindi anche necessariamente deterministici) è all’interno di un sistema implicitamente idealistico, storicamente il terzo modello idealistico dopo quelli di Fichte e di Hegel (Schelling a mio avviso – ma non ho qui lo spazio per chiarirlo – è un idealista solo apparente, ed è in realtà un panteista-spiritualista), un idealismo dell’emancipazione universalistica dell’intero genere umano dal sistema di alienazioni prodotto dal capitalismo.

Non chiedo certo che la mia interpretazione di Marx venga accettata. Di interpretazioni di Marx ce ne sono state migliaia, e ce ne saranno certamente altre migliaia in futuro. Chi vivrà vedrà. Ma intendo ribadire che la mia interpretazione, lungi dal collocarsi in una teologia ermeneutica di preti rossi in cerca del «vero» marxismo, inesistente come l’araba fenice, vuole invece essere un contributo per un nuovo profilo filosofico per il momento appena confusamente abbozzato. Che poi si tratti di grande marxismo oppure di piccolo prevismo, questa è una questione da gossip, e dunque non è una cosa seria.