Donald Rumsfeld, L. Paul Bremer, proconsole in Iraq, e George Bush
La guerra di Halliburton
Il 1 maggio 2003 un Jet S-3B scaricò George W. Bush sul ponte della portaerei USS Abraham Lincoln al largo della California e, in quello che forse passerà alla storia come il più costoso show elettorale di un presidente americano, Bush dichiarò “missione compiuta”, riferendosi alla guerra in Iraq da lui cominciata il 19 marzo precedente. All'inizio di maggio la fase “calda” dei combattimenti era conclusa: 170 mila americani, 35 mila inglesi e gli sparuti drappelli della “coalizione” occupavano Baghdad e altre città e località importanti dell'Iraq. Saddam Hussein e i suoi figli si erano dati alla macchia e mentre le insurrezioni che avrebbero presto dilaniato il paese non erano ancora iniziate. Ciò nondimeno, tutti sapevano che la missione era tutt'altro che compiuta. Intanto però, mentre il presidente si pavoneggiava nella sua bardatura da pilota sul ponte della portaerei, i comandanti del CENTCOM [1] e gli ufficiali dell'autorità di occupazione ad interim, l'Ufficio per la Ricostruzione e l'Assistenza Umanitaria (ORHA) sotto il gen. Jay Garner, erano impegnati a mettere a punto un piano per trasferire i poteri agli iracheni, un piano che se non altro rappresentava la speranza migliore per una 'exit strategy' intesa a ripristinare stabilità e sovranità in un paese che oggi purtroppo molti esperti considerano senza speranza, destinato a cadere sempre più in basso in una incontrollabile spirale di guerra civile. Allora invece sarebbe stato ancora possibile rimediare ai danni arrecati dall'invasione preventiva, e fare le cose giuste. Il Dipartimento di Stato poteva giocare la carta dei negoziati con l'Iran, con cui trattare l'assistenza di Teheran nella stabilizzazione e ricostruzione del dopo Saddam in Iraq, il programma iraniano per l'energia nucleare, i rapporti di Teheran con Hezbollah, Hamas e la Jihad islamica. A poche settimane dallo show di Bush sul ponte della Lincoln tutte queste opportunità furono spazzate via dalla “cabala di Cheney-Rumsfeld”, per usare un termine caro al col. Lawrence Wilkerson, che a quell'epoca dirigeva lo staff del segretario di Stato Colin Powell. Quest'ultimo, ricordiamolo, è anche stato presidente dei capi di stato maggiore riuniti. Le speranze di una 'exit strategy' furono travolte da quella che può essere solo chiamata “la guerra di Halliburton”: un calvario di tre anni che ha sprofondato l'Iraq in una guerra asimmetrica sempre più diffusa e crudele, con migliaia di morti e feriti, anche tra le forze occupanti, in cui si sono affermate sempre di più le Private Military Corporations (PMC), ditte militari private alla testa delle quali primeggia la Halliburton, impegnate a intascare miliardi di dollari, dei contribuenti USA e dei fondi iracheni 'Petrolio per Cibo' rimasti dall'epoca di Saddam Hussein. La indagini del Pentagono e del Congresso confermano che le PMC, e la Halliburton in particolare, hanno profittato in maniera spudorata da questa guerra, tanto che l'ultima indagine del Pentagono ha accertato che la Brown&Root (KBR), sussidiaria di Halliburton, fin dall'inizio delle operazioni, ha sistematicamente gonfiato del 25% tutte le fatturazioni per i contratti di logistica e di ricostruzione in Iraq. Gli architetti di questa guerra la considerano un passo molto importante in un più vasto piano di trasformazione, un passo in cui si stabilisca il precedente per la privatizzazione delle attività militari, e per dare in appalto le operazioni di occupazione post-combattimento ad una cricca di PMC che complessivamente si rifanno al modello neo-feudale della Compagnia della Indie Orientali che tra 18° e 19° secolo gestì l'Impero Britannico attraverso un cartello di banche e imprese coloniali. Questo sistema viene oggi chiamato “globalizzazione” ed è promosso da personaggi come il banchiere Felix Rohatyn e l'eminenza grigia repubblicana George Shulz, che sono in questo momento i personaggi più impegnati sul fronte della privatizzazione delle operazioni militari e della sicurezza nazionale USA (vedi: Gli USA nella trappola della privatizzazione delle forze armate).
Testimoni
La storia dei sabotaggi deliberati contro i tentativi di porre fine ad una occupazione ingiusta e inopportuna dell'Iraq, e di restituire almeno qualche base di stabilità alla regione del Golfo Persico è stata documentata da testimoni dalle credenziali di tutto rispetto. Bernard Trainor, generale a tre stelle dei Marines, oggi in congedo, e il corrispondente militare del New York Times Michael Gordon hanno ricostruito il ruolo che il vice presidente Dick Cheney, il segretario alla Difesa Donald Rumsfeld, l'ex vice ministro alla Difesa Paul Wolfowitz, l'ex sottosegretario alla Difesa Douglas Feith, sottosegretario alla Difesa Stephen Cambone, e L. Paul Bremer, protetto da George Shultz ed Henry Kissinger, hanno avuto nel sabotare il piano del ritiro americano dall'Iraq. Sull'argomento Trainor e Gordon hanno pubblicato un libro intitolato «Cobra II: The Inside Story of the Invasion and Occupation of Iraq» (New York: Pantheon Books, 2006). Anche se gli autori non entrano nell'argomento delle conseguenze di tale sabotaggio, e cioè il favoreggiamento delle operazioni di Halliburton, Bechtel e tutta la schiera delle PMC minori, essi mettono in rilievo in maniera inequivocabile le malefatte dei neoconservatori di Cheney consentendo così la messa a fuoco del contesto più ampio. Inoltre, due alti funzionari della prima amministrazione Bush, il colonnello Wilkerson e Flynt Leverett, direttore delle questioni mediorientali del Consiglio di sicurezza nazionale, a fine marzo hanno rivelato come Cheney sia riuscito a bloccare una proposta avanzata dal governo di Teheran per intavolare una trattativa più generale tra Iran e Stati Uniti, proprio nel momento in cui la situazione in Iraq stava uscendo da ogni possibile controllo. Di questa vicenda Wilkerson e Leverett ne hanno parlato con lo storico Gareth Porter che gli ha dedicato un articolo pubblicato il 29 marzo dalla Inter Press Service, IPS.
Prima della de-baathificazione
Da «Cobra II» si apprende che il 17 aprile 2003, una settimana dopo che le truppe americane avevano occupato Baghdad, l'allora vice comandante gen. John Abizaid dette una videoconferenza via satellite per presentare i piani che prevedevano la costituzione di tre divisioni di un Esercito Iracheno ad interim, a cui affidare le funzioni di sicurezza, segnalando così chiaramente come gli USA non fossero intenzionati ad occupare a lungo il paese. Trainor e Gordon scrivono che Abizaid “riteneva che gli eserciti arabi non erano soltanto organizzazioni militari - fornivano lavoro e contribuivano alla coesione delle vecchie società arabe. Il suo obiettivo era schierare tre divisioni nel giro di tre mesi”. I vertici del CENTCOM contavano di ricostituire un Esercito Iracheno ad interim riammettendovi gli alti ufficiali del vecchio esercito che non erano seriamente compromessi con il gruppo di potere più stretto attorno a Saddam Hussein, i quali avrebbero potuto ripristinare più o meno integralmente le strutture da essi precedentemente comandate. Come si giunse a scoprire solo successivamente, quando nei mesi seguenti gli americani ottennero le liste del ministero della Difesa iracheno, in realtà erano proprio pochi gli alti ufficiali iracheni, e ancor di meno gli ufficiali di rango inferiore, che avevano ricoperto un ruolo di qualche importanza nel partito Baath. Una figura importante in questa strategia del CENTCOM è stato il gen. David D. McKiernan, comandante delle forze di terra congiunte durante l'invasione, che erano appunto chiamate Cobra II. Il 9 marzo 2003 il gen. McKiernan, insieme ad un gruppo ristretto di ufficiali militari e della CIA, incontrò Faris Naima, un ex militare iracheno che era stato ambasciatore nelle Filippine e in Austria, e che aveva defezionato verso la fine del suo mandato a Vienna. Naima era in contatto con diversi generali iracheni e presentò agli americani un piano per creare un nuovo ministero della Difesa, cooptando ufficiali con esperienza, disposti a denunciare elementi del Partito Baath e a lavorare con gli americani. Un'iniziativa parallela era portata avanti dal gen. Jay Garner, nominato da Bush a capo della ORHA. Come riferiscono Trainor e Gordon, “poco dopo l'arrivo a Baghdad, il col. Paul Hughes, collaboratore di Garner alla pianificazione, venne a sapere che alcuni ex ufficiali iracheni avevano avvicinato gli americani a Baghdad chiedendo informazioni sul come fare per ottenere il proprio stipendio. Ottenuta l'approvazione dei superiori, Hughes incontrò quegli ufficiali in un club della Guardia Repubblicana. Gli ufficiali iracheni si dissero disposti a cooperare con gli americani, anche se per la maggior parte avrebbero preferito lavorare al di fuori del servizio militare, e si dissero disposti a proporre nomi di persone che secondo loro potevano essere reclutate, soprattutto come sottufficiali. Anticipando un bombardamento del ministero della Difesa, gli ufficiali ne avevano asportato i computer che contenevano le liste del personale militare. Successivamente essi dettero agli americani dai 50 ai 70 mila nominativi, tra cui quelli del personale militare della polizia”. Gli autori chiosano: “Gli Stati Uniti non avranno avuto una forza militare bell'è pronta, ma ce n'era abbastanza per cominciare - se avessero voluto effettivamente farlo”. La situazione in Iraq intanto era certamente caotica e complicata. Mentre Garner era propenso a sostenere il piano tradizionale del CENTCOM per trasferire i poteri ad una autorità irachena ad interim e avviare il ritiro delle truppe americane, al tempo stesso si stava anche rivolgendo alle PMC affinché contribuissero ad una 'exit strategy'. Garner aveva ingaggiato due imprese americane, la RONCO e la MPRI affinché vagliassero i soldati iracheni in vista di un loro successivo impiego militare o civile. La MPRI, che è una delle prime PMC americane e conta tra i suoi dipendenti molti ex alti ufficiali in congedo, ottenne da Garner un contratto di partenza di 625 mila dollari per iniziare un programma di esami e di addestramenti.
L'offerta iraniana
Nello stesso periodo in cui i generali Abizaid, McKiernan e Garner stavano mettendo insieme una 'exit strategy' dall'Iraq, il governo iraniano fece pervenire a Washington un'offerta decisamente interessante. Gareth Porter riferisce che all'inizio del maggio 2003 l'ambasciatore elvetico a Teheran consegnò al Dipartimento di Stato USA una lettera del governo di Khatami. Si trattava di un'offerta di intavolare, tra Teheran e Washington, negoziati di vasta portata vertenti sul programma nucleare iraniano, sull'assistenza nella stabilizzazione dell'Iraq, sul sostegno iraniano ad Hamas ed alla Jihad islamica, e sulla prospettiva di trasformare Hezbollah in una formazione strettamente politica confinata al Libano. Gli iraniani promettevano inoltre di dare agli americani informazioni sul conto dei membri di Al Qaeda, che essi avevano in custodia, e in cambio avrebbero voluto informazioni su Mujahiedeen el-Khalq (MEK), gruppo di esiliati iraniani che opera in Iraq e figura sulla lista dei terroristi del dipartimento di stato USA. Quella lettera del 3 maggio 2003 era un sensazione. Tra il 2001 e il 2002 gli Stati Uniti e l'Iran avevano avuto dei colloqui segreti a Ginevra grazie ai quali l'Iran cooperò nella stabilizzazione dell'Afghanistan, a seguito dell'invasione USA. Nonostante le proteste dei neocons nella sua amministrazione, all'inizio il presidente dette il suo consenso affinché l'inviato speciale in Iraq Zalmay Khalilzad iniziasse dei colloqui con Javad Zarif, l'emissario iraniano a Ginevra, sul tema dell'Iraq.
La reazione della 'cabala di Cheney e Rumsfeld'
Mentre gli avvenimenti minacciavano di rivoltarsi contro il partito della guerra, sia sul territorio iracheno che sul fronte diplomatico con l'Iran, il vice presidente Dick Cheney e l'apparato civile dei neocon nel Pentagono passarono al contrattacco, affossando nella più discreta delle maniere l'intera 'exit strategy' e avvelenando il dialogo con l'Iran. Un funzionario d'intelligence che seguì da vicino gli avvenimenti del maggio 2003 ha spiegato all'EIR: “Cheney e Rumsfeld non avevano alcuna intenzione di negoziare con l'Iran. Consideravano l'invasione e l'occupazione dell'Iraq parte dello stesso pacchetto comprendente anche il cambiamento di regime in Siria e in Iran. Intervennero ed eliminarono una opportunità d'oro”. Per affossare ambedue le iniziative Cheney e compagnia scelsero l'ambasciatore L. Paul Bremer un personaggio che da tempo militava agli ordini di George Shultz e di Henry Kissinger. Bremer aveva fatto carriera al dipartimento di Stato prima come assistente di Kissinger e poi come ambasciatore di Shultz per la lotta al terrorismo. Nel 1989 passò alla Kissinger Associates come amministratore delegato fino al 2000. Nelle memorie da lui pubblicate sul periodo in cui diresse l'Autorità provvisoria della coalizione (CPA), tra il maggio 2003 e il giugno 2004, Bremer fa chiaramente capire che la sua nomina a proconsole di Baghdad fu imposta da Cheney e Rumsfeld. A contattarlo allora per sondare la sua disponibilità ad andare in Iraq furono Lewis Libby e Paul Wolfowitz, cioè i bracci destri di Cheney e Rumsfeld. Bremer li conosceva bene tutt'e due dagli anni trascorsi insieme al dipartimento di Stato di Shultz, sotto la presidenza di Reagan. Non appena Bremer accettò di andare a Baghdad gli sviluppi furono fulminei. Il 5 maggio Bremer incontrò Rumsfeld a Washington. La loro amicizia risaliva alla metà degli anni Settanta, quando collaborarono nell'amministrazione Ford. In «My Year in Iraq» (New York: Simon & Schuster, 2006) Bremer dice di Rumsfeld: “Eravamo rimasti in contatto nel corso degli anni e ne ammiravo il patriottismo, l'intelligenza vivace e l'iniziativa”. Per Rumsfeld Bremer presentava tutti i vantaggi di uno che non aveva mai avuto niente a che fare con la regione del Sudovest asiatico, e non aveva contatti con tutti quegli esperti del dipartimento di Stato, della CIA e della DIA che consideravano una follia il modo in cui Rumsfeld e Cheney stavano conducendo l'occupazione dell'Iraq. Il 6 maggio Bremer fu ricevuto nell'Oval Office dal presidente Bush che gli offrì di mettersi a capo della Coalizione in Iraq. Come condizione Bremer pose quella di allontanare Zalmay Khalilzad dall'incarico di inviato speciale della Casa Bianca, sostenendo di aver bisogno della completa autorità presidenziale per agire, senza che qualcuno avesse da ridire sulle sue decisioni. Il presidente Bush accettò, sembra senza neanche consultare il segretario di Stato. Colin Powell, riferiscono infatti Trainor e Gordon, “rimase di stucco” quando apprese dell'allontanamento di Khalilzad, “l'unico che conoscesse bene gli elementi iracheni in gioco e che era da questi considerato come un rappresentante fidato alla Casa Bianca”. Non furono preventivamente consultati neanche la Consigliere di sicurezza nazionale Condoleezza Rice e i capi di stato maggiore. Poi il vice presidente Cheney assegnò uno dei suoi fedelissimi, Brian McCormack, allo staff di Bremer. In un incontro con Dough Feith al Pentagono, poco prima della partenza per Baghdad, a Bremer fu consegnato il testo dell'ordine di de-baathificazione, che sarebbe toccato a Garner emettere ufficialmente. Bremer però ottenne che si attendesse il suo arrivo a Baghdad, di modo che quell'ordine fosse il suo primo atto ufficiale come capo della Coalition Provisional Authority, il nuovo organismo che subentrava all'Ufficio della ricostruzione e affari umanitari. Cheney e Rumsfeld gli affiancarono anche un altro loro fedelissimo, Walter Slocombe. Pur provenendo dall'amministrazione Clinton, Slocombe si era dimostrato un sostenitore entusiasta della “guerra preventiva”. Il sottosegretario della Difesa, e protetto di Rumsfeld, Stephen Cambone lo chiamò a dirigere il ministero della Difesa del governo ad interim. Slocombe arrivò a Baghdad con le istruzioni ricevute da Rumsfeld, Wolfowitz e Feith di smantellare completamente l'Esercito Iracheno e iniziare a ricostruirlo ex novo, un processo che avrebbe richiesto anni e anni di lavoro, garantendo così l'occupazione protratta delle truppe americane. Bremer a Baghdad scortato dai contractor privati
Bremer arrivò a Baghdad il 12 maggio 2003. Come lui stesso racconta, il giorno successivo convocò un incontro del suo staff. Il suo primo ordine fu quello di sparare sugli iracheni sorpresi a rubare, per ucciderli. Si disse convinto che gli iracheni dovevano imparare una dura lezione: gli americani non scherzano nel portare legge e ordine in un paese che era appena stato sconvolto da “shock and awe”, sgomento e terrore. Vi furono almeno due comandanti militari americani, nel distretto di Baghdad, che si rifiutarono espressamente di trasmettere alle truppe l'ordine di Bremer. Trainor e Gordon scrivono: “la presa di posizione di Bremer colse di sorpresa Buff Blount, che ben presto chiarì che i suoi soldati non avevano alcuna intenzione di ricorrere ai mezzi estremi per impedire i saccheggi da parte degli iracheni immiseriti, che i suoi soldati avevano liberato ... Mattis si espresse in maniera simile”. Il giorno successivo gli ordini di Bremer nell'incontro a porte chiuse apparvero trascritti minuziosamente sulle colonne del New York Times. Il 15 maggio Bremer cancellò unilateralmente la conferenza che aveva convocato per la fine del mese con Garner e Khalilzad per concordare il nuovo governo ad interim. La politica di Bremer era un riflesso diretto di un promemoria segreto inviato da Rumsfeld a Cheney, Powell, e al capo della CIA Tenet, non appena iniziata l'invasione dell'Iraq, in cui si esprimeva il timore che costituire frettolosamente un governo del dopo-Saddam avrebbe potuto agevolare l'ascesa al potere un regime anti-americano. Bremer dispose che per la transizione, prima del trasferimento dei poteri, sarebbe stato necessario un periodo di un anno, e che la stesura e l'approvazione popolare di una costituzione doveva precedere qualsiasi trasferimento della sovranità dalla CPA agli iracheni. Per la Halliburton e le altre PMC questo rappresentava almeno un anno di licenza di rubare. Il giorno successivo Bremer sottoscrisse l'Ordine Nr. 1, quello stilato da Feith per la “de-baathificazione della società irachena”. Secondo una stima della CIA, il colpo di penna di Bremer significò il licenziamento di 30 mila iracheni. Il 23 maggio poi arrivò l'Ordine Nr. 2, “Dissolvere le entità”, che smantellava formalmente l'intera struttura delle forze armate irachene. L'ordine era stato stilato da Slocombe sulla base delle istruzioni che Rumsfeld gli aveva inviato con un dispaccio riservato del 19 febbraio su come procedere alla costituzione delle nuove forze irachene. Secondo Trainor e Gordon questa fu un'altra coltellata alla schiena delle istituzioni: “Mentre Rumsfeld era stato consultato anticipatamente, altre personalità erano rimaste all'oscuro. Peter pace, il vice presidente dei capi di stato maggiore riuniti, successivamente riferì che i capi di stato maggiore non erano stati consultati sulla decisione. Powell non ne era stato messo anticipatamente al corrente. Condoleezza Rice fu colta di sorpresa ma si consolò pensando che la Casa Bianca aveva bisogno di rispettare il giudizio dei suoi a Baghdad. ... In effetti Abizaid e McKiernan ritennero la decisione uno strappo improvviso e inopportuno rispetto alla loro pianificazione precedente”. Certamente si tratta di un capolavoro di understatement. Con un altro colpo di penna 300 mila soldati iracheni finirono sul lastrico e bollati come “saddamisti”, sebbene, sulla base dei criteri molto rigidi della de-baathificazione decisi dallo stesso Bremer, solo 8.000 su 140.000 ufficiali e funzionari potevano essere ritenuti non idonei ad assumere un incarico nei nuovi corpi militari. Il momento in cui Bremer firmò quell'ordine dev'essere considerato anche il momento in cui nacque davvero l'insurrezione irachena. In effetti il 16 luglio successivo, giorno in cui assunse il comando del CENTCOM, il gen. Abizaid disse francamente alla stampa che la Coalizione in Iraq si trovava ad affrontare “una classica guerriglia”, mentre Rumsfeld andava dicendo che si trattava di sistemare gli ultimi irriducibili. Ancora due anni più tardi Cheney avrebbe riproposto la stessa menzogna, sostenendo che l'insurrezione irachena stava vivendo solo “gli ultimi spasimi”.
Lo scontro sulla Iran Policy Directive
Il filo del racconto dei tradimenti a questo punto è ripreso dal col. Wilkerson e da Flynt Leverett. La lettera del governo iraniano fu consegnata al segretario di stato Powell il 3 maggio. I disaccordi nell'amministrazione ribollivano ormai da un anno, tanto che non era stato possibile concordare un indirizzo politico chiaro, una National Security Policy Directive on Iran. I “realisti”, con Powell in testa, avrebbero voluto una continuazione della politica seguita dall'amministrazione Clinton, che era stata rivolta a favorire il negoziato diplomatico. I neocon, che facevano riferimento all'ufficio di Cheney e a quello dell'OSP del Pentagono, l'ufficio dei piani speciali diretto da Feith, avevano invece stilato una nuova direttiva in cui si prospettava un cambiamento di regime e si proponeva persino un ruolo da affidare ai terroristi MEK. Fonti consultate dall'EIR sono convinte che la bozza della direttiva fu stilata da Michael Rubin, un protetto del neocon Richard Perle, che ha poi trascorso sei mesi nello staff di Bremer in Iraq. Certo è che non più tardi del febbraio 2003 la bozza della direttiva era stata consegnata ai funzionari dell'ambasciata israeliana da Larry Franklin, l'addetto all'Iran nell'ufficio di Feith che fu poi incriminato e si riconobbe colpevole di aver passato informazioni riservate ad Israele e a due funzionari dell'AIPAC, il Comitato Americano-Israeliano per gli Affari Pubblici. Quando la lettera del governo Khatami arrivò a Washington, i dissidi che già covavano dietro le quinte s'inasprirono. Powell fece pressioni sul presidente Bush affinché approvasse nuove iniziative di Khalilzad per riprendere i negoziati con il canale ginevrino che aveva già prodotto risultati soddisfacenti nella questione afghana dopo l'11 settembre 2001. Secondo Leverett, che allora dirigeva la sezione mediorientale del National Security Council, i neocons puntarono i piedi. “Dicevano che non volevamo intavolare rapporti con gli iraniani perché non ci volevamo obbligare in alcun modo con loro”, spiegò Leverett a Porter. Anche se il presidente Bush approvò la missione di Khalilzad a Ginevra, verso la fine di maggio, l'intera prospettiva era stata cancellata. Wilkerson ne attribuisce le colpe alla cricca diretta da Cheney: “La cabala segreta ottenne ciò che voleva, niente negoziati con Teheran”, deve però ammettere che “come in molte altre occasioni in cui è stata decisa la politica di sicurezza nazionale non ci sono impronte digitali”, ma era abbastanza addentro alla questione per poter capire chi sbatté la porta in faccia all'Iran: “suppongo Dick Cheney, con il benestare di George W. Bush”. In effetti lo stallo a cui era giunta l'amministrazione costituì una vittoria per Cheney e Rumsfeld. Ad aprile il canale ginevrino era già del tutto chiuso e nell'ottobre 2003 Franklin avrebbe informato gli israeliani che non c'era da temere una nuova direttiva politica nazionale che aprisse in qualche modo all'Iran.
Le PMC chiamate a colmare il vuoto
Sia il libro di Bremer sia quello di Trainor e Gordon sugli avvenimenti del maggio 2003 mettono in risalto un'altra questione importante nel grande disegno di Shultz, Rohatyn e Cheney di privatizzare le operazioni belliche per straguadagnarci sopra: gli Stati Uniti non disponevano delle truppe necessarie per un'occupazione a lungo termine dell'Iraq. I generali Abizaid, McKiernan e Garner avevano richiesto tutt'e tre che si allestisse rapidamente l'Esercito Iracheno e si creasse subito un governo ad interim, e un motivo era proprio che gli americani non disponevano del personale necessario per ripristinare l'ordine senza un ruolo decisivo degli iracheni. Rumsfeld si espresse molto chiaramente su questa questione nell'aprile 2003, quando licenziò in tronco Tom White, segretario dell'Esercito, perché aveva preso posizione a favore del gen. Eric Shinseki, capo di stato maggiore dell'Esercito, secondo il quale gli Stati Uniti avrebbero avuto bisogno di almeno 300 mila soldati per invadere e controllare l'Iraq. White lasciò il 9 maggio l'incarico e Shinseki lo seguì il mese successivo. Proprio prima di partire per Baghdad, Bremer incontrò James Dobbins, un amico che al Dipartimento di Stato aveva avuto un ruolo da “libero” ed aveva compiuto missioni in Afghanistan e nei Bacani. Dobbins era poi passato alla RAND Corporation, dove si era occupato di studiare 60 anni di nation-building, quelle misure volte a rafforzare la legittimazione democratica e le istituzioni autonome dei paesi più deboli, e ne parlò con Bremer in occasione di quell'incontro. Lo studio della RAND sostanzialmente concludeva che per essere efficace una missione di nation-building deve avere un rapporto tra forze di pace e popolazione civile di 1:50. Questo era stato il rapporto dei vari contingenti di pace nei Balcani. Di conseguenza le truppe necessarie in Iraq dovevano calcolarsi tra le 450 e le 500 mila unità. Secondo Trainor e Gordon, Bremer consegnò una copia dello studio a Rumsfeld in quale la ripose prontamente nel cestino della carta straccia. In effetti le forze della Coalizione sono arrivate a contare 300 o persino 500 mila elementi sul territorio iracheno, ma i soldati in servizio attivo non ne sono mai stati la maggioranza. L'Iraq è così diventato il Bengodi delle PMC, in quella che rappresenta la prima occupazione imperiale neo-feudale a tutti gli effetti, in un mondo che sta rinnegando il Trattato di Westfalia.
[1] CENTCOM, Central Command. Il comando delle forze USA per la regione asiatica occidentale e del nord-est dell'Africa, che si estende dal Kazakstan al Kenia, e comprende gran parte della regione mediorientale. |