Storia dei marxismi in Italia
di Costanzo Preve - 12/06/2006
Cristina Corradi
Storia dei marxismi in Italia
Manifestolibri, Roma 2005
438 pag., 30 euro
«Se ti offrono una tazza di caffé, non cercarvi dentro della birra»: è una massima tratta dalla corrispondenza di Anton Cechov. Questa massima si adatta stupendamente all’importante saggio di Cristina Corradi. La Corradi non ci propone una sua originale interpretazione complessiva del pensiero marxiano e della storia dei marxismi successivi, e neppure una storia dei gruppi intellettuali italiani di «sinistra» nel novecento. La Corradi ci propone un ricchissimo repertorio analitico sia delle individualità sia delle scuole del marxismo italiano, cominciando addirittura da Antonio Labriola, ed arrivando fino ad autori recentissimi. È dunque inutile cercare la birra o lamentarsi per la sua assenza quando si dovrebbe invece ringraziare per il caffé.
Il libro della Corradi va controcorrente oggi, perché la stragrande maggioranza di coloro che si dichiararono «marxisti» nei decenni trascorsi, e che in realtà perseguirono strategie di promozione editoriale ed universitaria in tempi in cui il PCI di Berlinguer sembrava votato a destini di potere accademico e politico, devono oggi affannosamente cercare di avvelenare i pozzi e di cancellare le tracce, ostentando il loro approdo al neoliberismo economico, quasi sempre attraverso la «camera di decompressione» della critica al totalitarismo dei nuovi filosofi francesi oppure (ma è solo il caso dei più colti) di Hannah Arendt. Questo trasformismo generazionale sarà probabilmente giudicato molto severamente nei prossimi decenni, ma per ora i trasformisti sono al potere (politico, editoriale, giornalistico, televisivo, eccetera) e non ci si può seriamente aspettare che in questa vita venga resa giustizia ai pochi che hanno rifiutato di seguire la corrente come greggi di pecore o, meglio, come banchi di pesci. Il ceto intellettuale, a differenza di come credono ingenuamente coloro che non lo conoscono e che ritengono sia composto da individualità originali ed anticonformiste, è in realtà uno dei ceti più gregari, servili e conformisti prodotti dalla teoria dell’evoluzione di Darwin e da quella dei modi di produzione di Marx.
Con tutta la migliore buona volontà, non credo che il libro della Corradi segni un’inversione di tendenza. È ancora probabilmente troppo presto. Ma intanto ringraziamo per il caffé, e cerchiamo di utilizzare questo ricchissimo repertorio. È relativamente facile recensire un libro «a tesi», mentre è quasi impossibile recensire un repertorio analitico. Cristina Corradi, che peraltro conosco personalmente e per cui ho stima e affetto, non me ne vorrà se approfitto di questa occasione per precisare alcune mie posizioni partendo ovviamente dalle sue considerazioni.
1.Scrivere di marxismo, o più esattamente di storia delle idee marxiste in un determinato contesto nazionale, presuppone ovviamente avere idee più o meno chiare su che cosa si intende esattamente quando si enuncia la pargoletta «marxismo». In proposito, il discorso sarebbe lungo, ma mi accontenterò qui di segnalare solo due aspetti cruciali.
In primo luogo, si pone ovviamente il problema di separare e distinguere ciò che è propriamente «marxiano», cioè appartiene al pensiero originario e fondativo di Karl Marx (1818-1883), e ciò che invece appartiene al «marxismo» successivo. In proposito, esiste un «marxismo» o esistono soltanto dei diversi e spesso incommensurabili «marxismi» plurali? Personalmente risponderò così: esiste un «codice originario» marxista unitario, elaborato fra il 1875 ed il 1895 da Engels e da Kautsky, dal quale si originano con un complesso gioco di ortodossie e di eresie tutti i numerosi «marxismi» successivi, che però continuano in un certo modo ad «orbitare» intorno a questo codice primario che non si osa destrutturare radicalmente, perché nel frattempo è diventato il codice di riconoscimento di tutte le correnti del comunismo storico novecentesco (1917-1991), da cui nonostante la tragicomica ed oscena dissoluzione non si ha il coraggio di congedarsi in modo netto, temendo che questo congedo comporti anche la rinuncia all’anticapitalismo strategico (il che non è per nulla, ma va a convincere i testardi e gli ottusi identitari!).
Su che cosa appartenga a Marx e cosa ai marxismi successivi sono state scritte in più di un secolo intere biblioteche. Il mancato accordo in proposito è dovuto a mio avviso a pura cialtroneria opportunistica, perché esistono innumerevoli prove documentali, filologiche e testuali che testimoniano le radicali differenze fra pensiero marxiano originario e marxismi successivi. Inoltre, se si leggono le numerose biografie di Karl Marx (personalmente ne ho lette molte, e preferisco quella dell’inglese Francis Wheen), ci si convince presto che Marx era uno studioso libero, incontrollabile, del tutto privo di conformismo identitario, ed era quindi un profilo umano antropologico e psicologico del tutto incompatibile con il modello gregaristico e gerarchico del «comunista tipo» del ventesimo secolo. Sul fatto che Marx sarebbe caduto vittima delle purghe di Stalin e di Mao (e richiamo qui il modello del processo a Gesù da parte del grande inquisitore in Dostoevskij), e sarebbe stato espulso con infamia dal partito di Togliatti e Berlinguer fra le grida d’odio della base (chi ti paga?) non ho personalmente alcun dubbio. E non ho anche nessun dubbio sul fatto che Marx sarebbe uscito immediatamente da eventuali gruppi settari bordighisti e trotzkisti soffocato dal loro dogmatismo dottrinario ed identitario.
In secondo luogo, quando si parla di «marxismo» non ci si rende spesso conto che si ha a che fare con un conglomerato instabile di tre elementi distinti, una filosofia, una scienza ed una ideologia, tre elementi spesso talmente intrecciati insieme che ci vuole il «reagente chimico» del pensiero critico per distinguerli. Più esattamente, si ha a che fare con uno statuto filosofico implicito o esplicito da accertare, con una proposta di scienza sociale unitaria della società che implica ovviamente una prognosi ed un insieme di previsioni, ed infine di un insieme di ideologie politiche di legittimazione di determinate scelte di partiti e di gruppi. A parte questi tre distinti significati, se ne possono aggiungere anche un quarto ed un quinto, e cioè il marxismo come fantasma identitario di appartenenza ed il marxismo come fantasma polemico di contrapposizione. In entrambi questi casi ciò che ha detto il vero Marx è del tutto irrilevante, perché la demonizzazione non si nutre di competenze filologiche, ma di fantasmi.
A proposito dello statuto filosofico del pensiero di Marx, ammetto apertamente che è impossibile giungere ad una soluzione unitaria concordata, per il semplice fatto che lo stesso Marx non ha coerentizzato ed esplicitato il suo proprio statuto filosofico, considerandolo ad un certo punto della sua vita irrilevante e comunque incorporato nella sua teoria scientifica della (presunta ed anzi errata) legge evolutiva del modo di produzione capitalistico mondializzato. Per questa ragione è impossibile uscire dal campo pluralistico e polemico delle diverse interpretazioni: particolare forma di idealismo mascherato impropriamente da materialismo (la mia soluzione, ed in parte anche quella data a suo tempo da Giovanni Gentile), materialismo nel senso della tradizione di Epicuro, Lucrezio e Leopardi (la soluzione di Sebastiano Timpanaro ed in parte dell’ultimo Cesare Luporini), concezione scientifica del processo interminabile della conoscenza umana secondo il modello di Galileo (la soluzione di Ludovico Geymonat), metodologia della produzione di ipotesi scientifiche nel contesto di una concezione costruttivistica della conoscenza che rifiuta ogni «teoria del riflesso» (la soluzione di Gianfranco La Grassa), eccetera. Come è inevitabile che sia, personalmente ritengo che la mia soluzione sia migliore delle altre, e che vi siano anche molte «pezze d’appoggio» sia filologiche che ipotetico-contestuali. Ma ammetto che ogni interpretazione definitiva è impossibile, in primo luogo perché la definitività non esiste nelle vicende umane sottoposte alla corrosione del tempo e delle sempre nuove generazioni, ed in secondo luogo perché come ho detto Marx stesso lascia le cose volutamente nel vago, e questo apre un gioco di interpretazioni interminabile. Per me, comunque, questo è un vantaggio e non un danno, e sono ben contento che sia così.
A proposito della proposta di scienza sociale unitaria elaborata da Marx, è evidente che egli ne ha solo posto le basi concettuali e metodologiche, così come hanno fatto Newton per la fisica e Darwin per la teoria dell’evoluzione. Chi ha trasformato la proposta di Marx in una teoria compiuta e perfetta cui non c’è niente da aggiungere, e nello stesso tempo rivendica la sua natura di scienza (un solo esempio: Amadeo Bordiga), è ovviamente in contraddizione con sé stesso, perché tutte le scienze sono caratterizzate dal continuo ritorno critico sui propri fondamenti e sull’abbandono di «pezzi» importanti dell’elaborazione dei fondatori. Il modello scientifico di Marx, nato sulla base originaria della «scienza filosofica idealistica» di Hegel, è poi fisiologicamente evoluto nella direzione positivistica di una scienza predittiva del futuro sulla base di estrapolazione di leggi di movimento intrinseche nella società. Personalmente, considero questo passaggio (a mio avviso largamente inconsapevole) dal codice idealistico (scienza filosofica della logica dialettica di un principio unitario del reale) al codice positivistico (scienza predittiva modellata sul passaggio comtiano dalle cause prime alle leggi di movimento determinate e necessarie) un fatto assolutamente inevitabile per qualunque persona intelligente e creativa che avesse vissuto la sua vita cosciente dal 1830 al 1880. «Criticare» su questo punto Marx con il ditino saccente alzato mi sembra un capolavoro di ingenerosa antistoricità.
I concetti portanti di questo modello scientifico di Marx sono a mio avviso riconducibili a quattro (modo di produzione, forze produttive sociali, rapporti sociali di produzione, ideologie e sistemi ideologici). Di questi quattro concetti, ovviamente, il primo è fondante, cioè planetario, e gli ultimi tre sono satellitari. Questo modello ha preso il nome di «materialismo storico», ma a mio avviso questa connotazione è fuorviante, perché il termine di «materia» è qui solo un sinonimo di «struttura», non avendo nulla a che fare con le specifiche nozioni filosofiche e scientifiche di «materia», e sarebbe stato molto meglio se avesse preso subito il nome di «strutturalismo storico» senza doversi portare dietro gli inutili contenziosi simbolici dei termini (il peggiore ed il più inutile è a mio avviso stato quello dell’identificazione rispettiva del materialismo con l’ateismo prima e con il nichilismo relativistico poi).
Dal momento che ogni scienza positivisticamente intesa è predittiva (laddove la scienza filosofica idealisticamente definita non è predittiva, ma semplicemente fondativa di comportamenti attuali), ovviamente anche quella di Marx lo era. Nel «marxismo» successivo l’inevitabile momento predittivo di Marx venne poi trasformato in determinismo e necessitarismo, e cioè in teleologia necessitata, altrimenti detta inevitabile avvento del comunismo in un futuro prevedibile. A mio avviso, la predittività non coincide con il necessitarismo teleologico rigido, che ne è solo una specifica patologia. Ma su questo punto cruciale non c’è ovviamente lo spazio di soffermarsi in una recensione.
A proposito del pensiero di Marx come ideologia, cioè come sistema ideologico di legittimazione di specifiche linee politiche di partiti e di stati, si tratta della dimensione più nota agli storici, e nello stesso tempo della dimensione più curiosamente trascurata e rimossa dai «teorici» puri. È questo un duplice grave errore. Nel momento che il marxismo diventa storicamente una forza reale che organizza i movimenti di sindacati, partiti, nazioni, stati, alleanze geopolitiche, eccetera, il suo ridursi a dimensione ideologica di legittimazione (e l’ideologia secondo Marx è anche sempre costitutivamente in qualche misura «falsa coscienza») non è una patologia, una degradazione o un errore, ma è un destino storico cui non si può in nessun modo sfuggire. E non vi si può sfuggire proprio alla luce dello stesso metodo scientifico proposto da Marx.
2.C’è poi un quarto ed un quinto significato di «marxismo» che a rigore non farebbero parte della sua storia e della sua concettualizzazione, ma che invece a mio avviso ne fanno parte integrante. Non si tratta affatto dei famosi «fraintendimenti». Nella mia ottica i fraintendimenti, ed addirittura le falsificazioni coscienti, fanno parte integrante e fisiologica, cioè del tutto normale, della storia del marxismo. È possibile fraintendere filosoficamente Marx come materialista dialettico (o se mi si vuole criticare, come idealista di tipo hegeliano), e fraintenderlo scientificamente come teorico della necessità storica, eccetera. La storia degli errori e dei fraintendimenti, come la storia degli usi ideologici impropri, fa parte della storia interna del marxismo stesso. Qui invece si parla del marxismo come oggetto fantasmatico puro, da dividere in oggetto fantasmatico positivo identitario di appartenenza ed in oggetto fantasmatico negativo di tipo polemico ed addirittura demonologico. Vediamo brevemente le due varianti distinte, ma anche segretamente solidali e complementari.
Il marxismo come oggetto fantasmatico positivo identitario di appartenenza si manifesta in periodi storici determinati e generalmente limitati, quando una crisi culturale crea le condizioni per una apparente «egemonia» di un Marx ridotto a grande magazzino fantasmatico per la contestazione. Ad esempio, chi come nel mio caso è stato ammorbato e nauseato dalla ideologia contestativa «sinistrese» del quindicennio 1965- 1980 ricorda che in tutti i casi in cui gli studenti non aprivano un libro o si drogavano fino al midollo, o quando giovinastri degni di incarceramento immediato scippavano, rapinavano e stupravano, tutto il coro «sinistrese» (in particolare il settore pittoresco CGIL-Scuola, non ancora approdato alla gestione distruttiva dell’epoca Berlinguer-Moratti) gridava «non è colpa delle persone, ma è colpa della società». Questa idea, più idiota che veramente cattiva, frutto se vogliamo di una semplificazione di un russovianesimo populistico, era attribuita dalla cultura benpensante al «marxismo». Ora, Marx faceva spesso idiozie, come tutti noi, ma non era così idiota da non considerare le responsabilità individuali nei comportamenti umani. Attribuito a Marx era anche il famoso «punto di vista operaio», in cui la conoscenza dell’intera società era fantasmaticamente delegata non tanto a Beppe, Cirillo e Gasparazzo, che votavano PCI e pensavano giustamente alla loro moderata promozione sociale nella società dei consumi, quanto al dilettantismo sociologico di uno spicchio generazionale destinato a transitare un ventennio dopo dal «punto di vista operaio» alle rauche grida di approvazione per i bombardamenti americani del 1999 in Jugoslavia e del 2003 in Iraq (del tipo: meglio i marines dei terroristi barbuti!). Solo un grande comico potrebbe a mio avviso scrivere una (peraltro indispensabile) storia del modo in cui i confusionari sinistresi hanno costruito un’immagine fantasmatica di un Marx inesistente, eretto a padre spirituale della loro rivolta contro il padre borghese con approdo finale allo zio capitalista.
Il marxismo come oggetto fantasmatico negativo di demonizzazione è altrettanto interessante, anche se purtroppo meno pittoresco. In generale, il residuo senso del pudore ed il timore di essere mascherati come dilettanti incompetenti ci frena dal concionare in modo assertivo su argomenti che o non conosciamo del tutto o su cui abbiamo solo alcune ridicole nozioni elementari. Ma su Marx tutto è permesso. Chiunque si sente in dovere di sparare le sue cazzate sul barbuto pensatore di Treviri. Ovviamente, nel 95% dei casi l’immagine polemica di Marx è costruita o sulle idiozie del pensiero sinistrese di contestazione (la colpa è tutta della società, dell’autoritarismo familiare, eccetera, e via delirando), oppure sulle ideologie politiche di legittimazione che si richiamano al marxismo (bisogna togliere la libertà di opinione, perché è solo un mito piccolo-borghese, di cui i proletari non sanno che farsene, in quanto «benaltri» sono i loro problemi). A fianco di questa esilarante (ma talvolta esasperante) commedia degli equivoci, ci sono i cosiddetti «critici colti» del marxismo, che nella loro grande maggioranza costruiscono teorie prive di ogni riscontro storico e filologico. Il modello canonico di questo tipo di critiche è elegantemente unitario, e consiste nel retrodatare a Marx la responsabilità «morale» del totalitarismo del comunismo storico novecentesco. Si tratta di una tesi filologicamente e contestualmente insostenibile, di fronte a cui la teoria bizantina sul sesso degli angeli acquista un’inaspettata carica galileiana. Eppure su questo si è costruita la fortuna dei vari Talmon (Marx teorico della democrazia totalitaria), Popper (Marx teorico della società chiusa insieme ai suoi due complici Platone e Hegel), Furet (Marx teorico del rovesciamento della virtù in terrore), eccetera.
Non vi è qui più spazio per soffermarci ancora su queste esilaranti (ma anche irritanti) produzioni ideologiche. Vorrei solo insistere, certamente inascoltato (ma ci ho fatto l’abitudine) che esiste una robusta solidarietà antitetico-popolare, e cioè una forte complementarietà, fra la produzione ideologica di fantasmi positivi di Marx inesistenti e la produzione ideologica di fantasmi negativi di Marx altrettanto inesistenti.
3.Torniamo al lavoro di Cristina Corradi. L’esposizione dossografica analitica della Corradi ci mostra l’opera di un commentatore informato, che ha letto accuratamente sia Marx che i marxisti italiani e stranieri, e che soprattutto non si è perso (come sarebbe stato facilissimo) nella fitta foresta della alluvionale produzione teorica di cui si occupa. Credo che questo sia dovuto al fatto che la Corradi non è stata presa dalla «furia del dileguare» di chi vuole subito arrivare a conclusioni assertive (difetto di cui mi dichiaro personalmente colpevole). Evitando la tentazione assertiva, ed accettando il purgatorio talvolta frustrante dell’esposizione dossografica analitica, la Corradi ci serve quello che ha promesso di servire, nel linguaggio di Cechov il caffé della testimonianza dossografica e non la birra della sintesi assertiva epocale.
Questo non significa però che da un’attenta lettura del suo libro non emergano anche tracce visibili del suo profilo individuale. Mi limiterò qui a segnalarne tre.
In primo luogo, Cristina Corradi può essere definita una «marxista» a tutti gli effetti, nel senso che ritiene certamente che il canone marxista tradizionale debba essere radicalmente riformato, revisionato e modificato, ma nello stesso tempo ritiene, in compagnia di grandi marxisti del passato come Gramsci e Lukács, che questa riforma possa e debba essere fatta «a partire dalle proprie basi». Questo almeno è quello che io ho capito. Esisterebbe insomma una sorta di autosufficienza teoretica complessiva dell’insegnamento di Marx e dei suoi migliori successori che permetterebbe di volta in volta di operare riforme radicali senza uscire dal paradigma costituito. In proposito, devo dire che personalmente ho creduto per decenni la stessa cosa, ma ora non ci credo più, e ritengo che in futuro la stessa tradizione marxista, senza peraltro essere abbandonata, dovrà essere «integrata» in una nuova sintesi. A proposito di questa nuova sintesi, la mia opinione è che essa per adesso non esiste ancora, e dobbiamo rassegnarci ad autopercepirci storicamente come pensatori provvisori, decostruttori e di transizione. È frustrante, me ne rendo conto, ma meglio la frustrazione dell’illusione.
In secondo luogo, Cristina Corradi appare interessata sia all’aspetto filosofico che a quello economico del marxismo, laddove in generale chi si occupa del primo non si occupa del secondo, e viceversa. La Corradi si interessa analiticamente di un filosofo puro come Roberto Finelli (pp. 369-405), ma anche di economisti integrali come Luciano Vasapollo (pp. 353-360) e Riccardo Bellofiore (pp. 332-343). In questo modo la Corradi prende sul serio sia la teoria delle astrazioni reali sia la teoria della risoluzione del problema della trasformazione dei valori in prezzi di produzione, laddove in generale gli economisti irridono alla prima ed i filosofi irridono alla seconda, nel contesto dell’interminabile scontro metafisico fra fautori della Qualità e partigiani della Quantità.
In terzo luogo, la Corradi ha avuto il coraggio intellettuale e morale di andare contro corrente, e di inserire a pieno titolo nella sua storia del marxismo italiano anche autori emarginati dal chiacchiericcio familistico del politicamente corretto e degli ambienti semi-mafiosi che ruotano in modo satellitare intorno al demi-monde dei politici e dei professori universitari. Non parlo del mio caso (su cui tornerò alla fine), che ha toccato vertici di silenziamento censorio ad un tempo scandalosi e comici, in quanto ritengo seriamente di essermi pienamente meritato questo silenziamento, dal momento che effettivamente la mia riflessione delegittima integralmente non tanto singoli pensatori di volta in volta principi del chiacchiericcio colto di «sinistra», quanto piuttosto l’intero baraccone ideologico di legittimazione dell’identità sinistrese, che in proposito tende a reagire retto da veri e propri animal spirits (nel senso di bestiali). Parlo di casi scandalosi come quelli di Domenico Losurdo, testimone dell’anti-imperialismo e della reazione all’impero ideocratico americano di oggi, che il chiacchiericcio semicolto fa passare come fiancheggiatore dei terroristi, e di Gianfranco La Grassa, pensatore che in più di trent’anni di attività si è sempre tenuto lontano dal salotto romanesco dei retori e ha sempre perseguito un programma di ricerca originale, alcuni chilometri al di sopra per dignità intellettuale del chiacchiericcio giornalistico dei «dubbiosi permanenti professionali» alla Pietro Ingrao, e per questo è stato appunto silenziato ed emarginato. A questo proposito, il libro della Corradi comincia finalmente a fare un minimo di giustizia. Ma ci tornerò.
4.La storia di Cristina Corradi è una vera miniera di stimoli e di informazioni per studiare nei dettagli il secolare rapporto fra il marxismo italiano e Hegel. È un vero peccato che questo rapporto sia stato talvolta interpretato come metafora dell’avvicinamento o al contrario dell’allontanamento di Marx dalla cosiddetta «borghesia». Insomma, se Marx era interpretato come troppo vicino a Hegel, ciò significava che era ancora invischiato nelle maglie del pensiero borghese, mentre se non aveva nulla a che fare con lui ciò avrebbe significato un attestato di purezza proletaria e rivoluzionaria.
Nulla di più demenziale, particolarmente se si studiano nel dettaglio le argomentazioni degli «allontanatori» e degli «avvicinatori». Fra gli allontanatori, abbiamo chi addirittura vuole avvicinare Marx all’empirismo di Hume (ad esempio Della Volpe, ed in parte Dal Pra), o chi lo vuole avvicinare invece a Kant (Lucio Colletti prima e dopo la «conversione» al craxismo ed al berlusconismo). Ma l’utilitarismo di Hume ed il criticismo di Kant sono stati mille volte più «borghesi» di Hegel, in quanto il primo è stato alla base dell’economia politica di Smith e di Ricardo (la società non si costituisce con un contratto politico, ma con una interazione armonica acquisitiva), ed il secondo pone le basi per considerare l’evoluzione sociale una totalità noumenicamente in conoscibile. Hegel è in proposito molto meno «borghese», perché il vero borghese mette la sovranità della merce molto al di sopra della sovranità dello stato, cosa che ovviamente Hegel si rifiutò sempre intelligentemente di fare.
La Corradi ricostruisce anche con grande precisione la «scena primaria» del marxismo italiano, e cioè il dibattito fra Labriola, Croce e Gentile. A mio giudizio Labriola non è stato un pensatore particolarmente originale, e la sua sostanziale adesione all’evoluzionismo storico si mostra in apparenti dettagli, come il suo vergognoso auspicio di un’azione colonialistica dell’Italia. Ma nello stesso tempo Labriola conosceva troppo bene Hegel per aderire semplicemente al positivismo, e questa fu probabilmente la ragione della sua preferenza per la dizione «comunismo critico» rispetto alla dizione «socialismo scientifico». In quanto a Gentile, per farla breve, a mio avviso in lui di Hegel ce n’è stato sempre molto poco, trattandosi piuttosto di una sua personale interpretazione dell’idealismo di Fichte, depurata della benemerita componente utopistica fichtiana ed invece inquinata dalla adesione al colonialismo imperialistico mussoliniano. Per finire con Croce, la sua teoria del modello di «economia pura» è la cosa meno hegeliana del mondo, se pensiamo che il vero Hegel riteneva l’economia politica una scienza dell’intelletto astratto cui negava ovviamente la minima «concretezza» (che in linguaggio contemporaneo potremmo definire come una fusione inestricabile di etica, economia e politica). È interessante anche che la Corradi, parlando di Gramsci, ne dia una valutazione giustamente molto positiva, ma nello stesso tempo non dimentichi di segnalare che la sua concezione di «economia», forse anche a causa dell’influenza di Piero Sraffa, era ricavata assai più da Ricardo che dal Marx originale.
Con l’instaurazione politica del togliattismo dopo il 1945 ci fu anche la formazione del cosiddetto «storicismo», che i poco informati ritenevano essere una specie di simpatica fusione di Hegel e di Marx. Nulla di più inesatto. Di Hegel spariva integralmente la logica dialettica, che era in realtà una ontologia di ciò che è ed è eternamente (espressione letterale di Hegel), ed al suo posto si insediava una sorta di nichilismo progressistico del dileguare permanente, che poi Augusto Del Noce attribuì incautamente a Marx, a mio avviso invece innocente. Così Hegel diventava nella provincia semicolta italiana (e nei «dibattiti» fra presunti esperti) sinonimo di realismo machiavellico del più furbastro e di giustificazionismo ex post per cui chi vince è un bravo ragazzo e chi perde è una testa di cazzo. Questa immagine demenziale di Hegel è tuttora dominante nei riferimenti giornalistici a questi problemi. «Hegeliano» è, secondo questi pittoreschi anche se pagatissimi analfabeti, colui che afferma che chi vince ha sempre ragione e chi perde è un poveraccio utopico con le pezze al culo. Non dico che Togliatti sia personalmente responsabile di questo scenario di filodrammatica per deficienti. Lo è però il clima filosofico generale del cosiddetto marxismo storicista, una formazione ideologica che considero inferiore (e parlo letteralmente e non metaforicamente) alla previsione astrologica ed alla lettura dei fondi di caffè, in cui c’è almeno un po’ di intuizione psicologica da parte dei truffatori che la praticano, mentre l’intellettuale storicista è un idiota puro, per di più supponente e convinto di avere in tasca la chiave universale apriporte della storia.
A parte questo, Hegel è sempre stato in Italia una porta girevole per motivare la propria entrata ed uscita dal marxismo. La propria entrata per la leva intellettuale crociana e gentiliana di «sinistra» dopo il 1945. La propria uscita (esemplare è ancora il caso di Lucio Colletti, di cui la Corradi ci offre una ricostruzione veramente accurata) quando ci si rende conto con tragicomico stupore che la teoria (scientifica) del valore e la teoria (filosofica) dell’alienazione fanno tutt’uno (cosa già nota al tedesco Petry ed al russo Rubin fin dai tempi in cui Berta filava), e questa scoperta traumatica porta al ripudio di tutta la baracca in nome dell’eterno matrimonio fra il criticismo di Kant e la sovranità dei mercati finanziari.
Per chiudere su questo punto, la mia opinione sul rapporto fra Hegel e Marx è più o meno quella che Giuseppe Capograssi espresse in modo lapidariamente sintetico fin dal 1930: «…Marx, sarcastico e scettico critico di Hegel, è il solo scolaro che Hegel abbia avuto» (p. 51).
5.Lo studio di Cristina Corradi è anche una vera miniera di informazioni e di valutazioni sulla storia di quella specifica corrente marxista italiana denominata «operaismo». L’operaismo è un prodotto nazionale di esportazione come la pizza, il design automobilistico e la moda di lusso, ed il recente successo «globale» delle teorie di Negri sulle moltitudini in lotta contro l’impero ne è la prova, lasciando ovviamente da parte l’insignificante dettaglio per cui né l’impero né le moltitudini di Negri esistono come lui li descrive. Possiamo dire che in un certo senso solo il gramscismo e l’operaismo sono veramente tradizioni nazionali autoctone, in quanto tutto il resto viene in qualche modo da fuori, attraverso la mediazione di pensatori e teorici di altre nazionalità. Su questo ci sarebbe molto da riflettere anche e soprattutto metodologicamente. A mio avviso Gramsci ai suoi tempi fu molto buono, in quanto fu una negazione determinata della concezione del mondo veicolata dal settarismo di partito di tipo staliniano, laddove il «gramscismo» togliattiano non fu per nulla buono, ma fu solo una formazione ideologica di legittimazione e di manipolazione di una determinata linea politica, il cui terminale finale si chiama Occhetto, D’Alema e guerra del Kosovo 1999. Dico questo, ovviamente, senza alcun necessitarismo teleologico. Non era certo fatale che finisse così. Ma dal momento che concretamente è finita così, bisognerà pure riflettere su questo fatto, anche se il farlo implica l’emarginazione dalla tribù fiancheggiatrice degli intellettuali proni alla dittatura del politicamente corretto.
Prima di valutare se l’operaismo preso nel suo complesso e nella sua dinamica ormai quarantennale sia stato buono o cattivo (io ritengo che sia stato cattivo) bisogna chiedersi perché è nato. E possiamo dire che sia nato per una ragione giustissima, e cioè per l’esigenza di una ricerca e di una prassi autonoma dall’elefante PCI (vedi Raniero Panzieri, pp. 138-142), un’esigenza che costituì poi di fatto gran parte dei gruppi dirigenti dei partitini sessantottini e post-sessantottini. La genesi dell’operaismo è pertanto di tipo non comunista, ma socialista di sinistra (Panzieri non aveva nulla a che fare con l’elefante PCI, che nei suoi confronti reagì pavlovianamente con il tipico «chi lo paga?»). Questo non è un caso, perché tipico del socialismo basista di sinistra è la preferenza verso la classe direttamente interpellata piuttosto che verso il partito.
Tuttavia Panzieri non era ancora «operaista» in senso proprio. La «rivoluzione copernicana» che portò all’operaismo vero e proprio l’attuò Mario Tronti (pp. 167-173), che ne attuò anche la comunistizzazione, nel senso che il modello operaista (i movimenti contestativi di classe operaia all’interno del processo di produzione sono primari e costitutivi dello stesso rapporto di capitale), nato originariamente come socialista di sinistra, diventò «comunista» proprio con Tronti. Di qui partirono poi tutte le derive di tipo entrista nell’elefante PCI e tutte le teorie (a mio avviso penose e grottesche) sulla cosiddetta «autonomia del politico», che portò gli operaisti più opportunisti ed astuti al laticlavio, seguendo in questo modo la gloriosa tradizione nazionale, che aveva già portato l’iconoclasta futurista Martinetti alla feluca di accademico. Su questo (ma a mio avviso solo su questo) hanno ragione gli azionisti gobettiani, tribù dalla quale peraltro mi sono sempre tenuto lontano: la mancata rivoluzione protestante e la tradizione trasformistica rendono possibile ed anzi facile il passaggio dei futuristi alla feluca di accademico e degli operaisti al laticlavio di senatore.
Alla luce degli eventi del trentennio successivo, la rivoluzione copernicana di Tronti si è rivelata un miraggio, o più esattamente una fantasia da ubriachi. Ma dal momento che si possono fare scoperte geografiche anche sulla base dell’errata teoria della terra piatta, l’asfissiante metafisica operaista servì ad una causa buona, e cioè al processo di integrazione di tipo socialdemocratico della classe operaia italiana fra il 1969 ed il 1976. Che poi questo processo di integrazione subalterna di tipo socialdemocratico in una società neocapitalistica dei consumi sia stato pensato, attuato, gridato, urlato ed addirittura «sparato», ciò è dovuto a mio avviso non solo alla secolare tradizione della commedia dell’arte, del sangue di San Gennaro e di Padre Pio (in proposito, un po’ di Finlandia non farebbe male, e non intendo solo la sauna), ma al clima di falsità e di illusione generale creato dall’elefante PCI. Se si ha la faccia tosta di chiamare «via italiana al socialismo» la palese integrazione consociativa subalterna nel sistema politico ed economico, e si espellono come provocatori pagati dai padroni tutti coloro che rilevano questa evidente impossibilità, non ci si può poi meravigliare se individui coraggiosi ma del tutto fuori dal mondo cominciano a sparare alla Bonnie and Clyde contro lo stato imperialista delle multinazionali (SIM) incarnato in un politico pugliese garante dello stato sociale migliore che l’Italia abbia mai avuto (anche se ovviamente corrotto e pieno di false pensioni di invalidità e di svincoli autostradali di Isernia più grandi ancora di quelli di Los Angeles).
Defunto in Italia, in cui è morto di vergogna, l’operaismo è rinato su scala globale ad opera del visionario Negri, che a suo tempo la nostra incredibile magistratura considerò seriamente come il possibile teorico delle Brigate Rosse. Questa globalizzazione dell’operaismo, in cui le moltitudini desideranti e teurgiche (si, teurgiche, non c’è limite alla follia visionaria, cfr. Hardt-Negri, Impero, p. 366) sostituiscono il povero operaio-massa fordista nel frattempo pensionato, licenziato e deindustrializzato, è anch’essa il frutto di una illusione edificante scambiata colpevolmente per analisi sociale scientifica. Negli anni sessanta del novecento essa era però confezionata su scala italiana, mentre oggi essa è stata sublimata su scala mondiale nell’astrazione auspicabile, e nello stesso tempo inesistente, del cosiddetto «movimento dei movimenti».
In quanto episodio «marxista» del più generale «pensiero magico», l’operaismo può contare su solide basi anche per il futuro. Laddove il vecchio messianesimo si fondava su basi religiose, questo nuovo messianesimo si fonda su basi sociologiche. Ma mentre la religione è permanente, perché implica un arresto simbolico del tempo per costituire valori morali di coesione sociale, la sociologia è ballerina, in quanto cambia continuamente, ed è quindi fonte di nichilismo strutturale. Negri verrà a mio avviso ricordato come colui che tentò di fondare il comunismo direttamente sul nichilismo, impresa impossibile perché come è noto il nulla non è un fondamento, e non potrà mai diventarlo.
6.Apro qui una parentesi sulle pagine che Cristina Corradi dedica a Gianfranco La Grassa, perché c’è probabilmente fra noi una differenza di valutazione critica che vorrei esplicitare. Secondo la Corradi (pp. 319-332), La Grassa è soprattutto colui che ha riportato la centralità dell’anticapitalismo dall’autonomia del politico operistico-trontiana all’interno dei rapporti sociali di produzione, e più esattamente all’interno delle vicende evolutive della divisione tecnica del lavoro capitalistico. Viene così valorizzata soprattutto la fase, temporalmente abbastanza breve, in cui La Grassa lavorava in simbiosi con Maria Turchetto, con l’esito paradossale di far diventare il pensiero di La Grassa un episodio eccentrico della corrente operaista. L’operaismo, infatti, incarna bene quello che potremo alla Lenin definire il tecnologismo, fase suprema dell’economicismo. È vero che La Grassa si baloccò a lungo con l’ipotesi di una sorta di «capitalismo lavorativo», ma a mio avviso il suo merito sta proprio nell’avere abbandonato radicalmente questa ipotesi una volta che si è accorto che essa era del tutto sterile ed astratta.
Da dove deriva questa valutazione (a mio avviso errata) di Cristina Corradi? Azzardo qui un’ipotesi personale: la Corradi, come tutti noi del resto, lavora su grandi dicotomie concettuali esplicite od implicite; nel suo caso, salvo errore, la dicotomia principale è quella di autonomia del politico (errata) e centralità del rapporto di produzione (esatta); se questo è vero, allora non è affatto casuale che il La Grassa che più la interessa sia anche quello che a mio avviso è obsoleto e meno interessante. Il La Grassa veramente interessante è a mio avviso l’ultimo, che ha sottoposto il modello di Marx ad una critica radicale ed ha rivalutato Lenin ed il leninismo in una forma inedita e del tutto incompatibile con la rifritture «partitiche» del leninismo da parte dei gruppetti neostaliniani, neotrotzkisti e neobordighisti. In definitiva, il La Grassa del suo ultimi libro (cfr. Il capitalismo oggi. Dalla proprietà al conflitto strategico. Per una nuova teoria del capitalismo, Petite Plaisance, Pistoia 2004), che per me è per alcuni aspetti veramente «copernicano». Questo non fa di me in alcun modo un «lagrassiano», dal momento che sono in insanabile dissenso con la sua concezione riduzionistica della filosofia, ma nello stesso tempo devo ammettere che fino ad oggi non ho ancora trovato sul mercato editoriale un modello più plausibile di capitalismo. Ma è forse proprio questo che non piace a Cristina Corradi, che sotto molti aspetti è una «ortodossa», e perciò probabilmente teme che La Grassa stia uscendo dagli estremi «confini» del marxismo così come è stato fino ad oggi concepito, pensato e praticato. Che è invece la ragione del mio apprezzamento.
7.Ed ora terminiamo in crescendo ispirandoci all’immortale detto del grande attore comico Petrolini («parliamo tanto di me»). Farò qui alcune osservazioni sul modo in cui Cristina Corradi parla di Costanzo Preve (pp. 278-294), cercando di evitare le trappole del narcisismo autocompiaciuto per discutere invece i veri problemi che ci stanno dietro. Dico subito, contro ogni falsa modestia, che credo di meritare completamente le quindici pagine che la Corradi mi dedica. È indubbiamente strano (o più esattamente «straniante») il fatto di leggersi attraverso l’interpretazione autonoma di un altro. Una perfetta coincidenza di valutazione è ovviamente impossibile, e sarebbe anzi del tutto contronatura, perché dal momento in cui consegniamo al tipografo una testo scritto esso non ci appartiene più, ed appartiene integralmente alla libera valutazione di chi lo legge. Detto questo, ringrazio la Corradi non solo perché si è occupata del mio pensiero, ma anche e soprattutto perché lo ha esposto in modo corretto, credibile, pertinente e per me veramente soddisfacente.
Secondo la Corradi (pp. 278-79) la mia riflessione può essere distinta in due periodi successivi. Nel primo periodo (1975-1991 circa), ho cercato di oppormi alla deriva post-moderna e dissolutoria seguita dalla stragrande maggioranza dei miei colleghi intellettuali di «sinistra» con un recupero dei punti alti della tradizione marxista indipendente, del tutto estranea alle incorporazioni burocratiche del marxismo come ideologia di legittimazione di partiti e di stati (Lukács, ma anche Bloch, Althusser, Adorno, eccetera). In un secondo periodo, dopo la fine irreversibile ed ingloriosa del comunismo storico novecentesco (1917-1991), ed in dissenso con tutti i frettolosi tentativi di sua continuazione/rifondazione puramente politico-organizzativa, avrei invece lavorato su di una generale rifondazione antropologica del comunismo, marcando sempre più la discontinuità teorica ed anche la mia sempre crescente estraneità politica ed umana con i conglomerati identitari di partiti, partitini, partitozzi e partitelli.
A suo tempo il grande Hegel scrisse che tutto quello che c’era di personale nei suoi scritti era falso. Nello stesso modo affermo solennemente che la persona meno indicata per dare di sé stessa una interpretazione «autentica» è la persona stessa. Freud non è mica venuto per niente. Noi ci ricostruiamo un inesistente passato lineare in cui tutto va al suo posto, a partire dal punto in cui siamo arrivati, e che non sarà più lo stesso fra qualche anno. Fatta questa premessa, Cristina Corradi ed il lettore benevolente mi permetteranno alcune brevi valutazioni finali.
Il mio pensiero può essere liberamente interpretato sia come un’interpretazione eccentrica del marxismo e comunque interna alla tradizione marxista stessa sia pure eretica (centralità dell’ente naturale generico all’interno di una concezione ontologica dell’essere sociale distinto in via di principio dall’essere naturale, contestualmente ad un rifiuto radicale di ogni visione messianica e teleologica della storia), oppure come un pensiero che è ormai del tutto fuoriuscito dalla tradizione marxista sia pure allargata per dar luogo ad un potenziale nuovo «ismo». Il lettore scelga pure la variante che preferisce. Si dirà che chi non crede più nei due pilastri del marxismo tradizionale, l’incapacità della produzione capitalistica di sviluppare le forze produttive e la decisività intermodale rivoluzionaria della classe operaia, salariata e proletaria non può più essere marxista, ma personalmente non lo credo. Il paradigma proposto da Marx a mio avviso può sopportare questa rivoluzione scientifica, nel senso dato a questa parola dall’epistemologo americano Kuhn. Lo stesso uso dei Grundrisse da parte della scuola di Toni Negri, che io pure personalmente non condivido ed anzi critico radicalmente, contiene però un nocciolo di verità, e cioè che a fianco della concezione tradizionale della centralità della classe operaia, salariata e proletaria ci può essere una nuova concezione basata sul cosiddetto General Intellect, e che inoltre questa concezione risulta filologicamente ineccepibile a partire dagli stessi testi (sia pure inediti di Marx).
La questione però se Preve sia ancora marxista oppure no è a mio avviso puramente nominalistica e di lana caprina. Non esiste più (per fortuna) un apparato teologico-inquisitorio dotato di braccio secolare armato di pistola (PCUS) o di decreti di espulsione (PCI) che certifichi con tanto di bollo di autenticazione burocratica chi è marxista e chi non lo è. I posteri saranno anzi stupiti dal fatto che per quasi un secolo intellettuali che si rifacevano nominalmente a Galileo ed all’autonomia razionale della sua ricerca abbiano poi di fatto e di diritto accettato la sovranità inquisitoria del cardinal Bellarmino. Io comunque non ho mai fatto parte di questa indegna marmaglia, e già solo per questo modesto fatto posso dire di non aver sprecato la mia vita intellettuale.
Il problema allora non sta nell’etichettatura (marxista? Ancora marxista? Marxista eretico? Non più marxista?), ma sta nella radicalità con cui interpretiamo la complessa dialettica fra continuità e discontinuità con il nostro recente passato. Personalmente, sono un deciso «continuista» non solo con Spinoza, Hegel e Marx (di cui mi riservo ovviamente la più sovrana interpretazione personale), ma addirittura con alcuni modelli del pensiero greco classico. In questo senso, non conosco nessuno più «continuista» di me. Ma nello stesso tempo sono un deciso «discontinuista» con alcuni pilastri della tradizione da cui vengo. In particolare, ritengo che sia necessario rompere radicalmente, almeno qui in Italia (non parlo del Venezuela o della Colombia), con la dicotomia fra Sinistra e Destra, per il semplice fatto che la sinistra politica italiana si è suicidata avallando ed anzi incoraggiando con rauche grida sportive la guerra NATO contro la Jugoslavia del 1999, e più in generale dopo il colpo di stato giudiziario extraparlamentare denominato impropriamente «mani pulite» ha adottato una sorta di antiberlusconismo estetico e moralistico come chiave di interpretazione della realtà. Ritengo che in assenza di fascismo, ed in presenza di riciclaggio del vecchio neofascismo in apologia del sionismo e dell’americanismo interventistico, anche l’antifascismo appartenga ormai alla storia, e che anzi l’agitare ideologicamente un «fascismo» fantasmatico serva a giustificare la aggressioni illegali contro i «dittatori fascisti» Milosevic e Saddam Hussein (che Dio invece benedica entrambi!). Ritengo che a proposito del comunismo, sempre che questa parola non venga usata come semplice fantasma identitario di appartenenza nostalgica, non abbia senso oggi anticipare improbabili «rifondazioni» in totale assenza di una teoria strategica di orientamento come era bene o male il vecchio marxismo, ma sia preliminare l’attivazione di un processo progressivo di dialogo reale condiviso.
Ma con questo la recensione è finita, e da Preve si passa ai veri problemi dell’oggi.