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Un profeta contro il deserto della tecnocrazia

di Alfredo Cattabiani - 12/06/2006

 

Nell'opera "Al muro del tempo", riproposta dopo 30 anni, si preannuncia l'approdo al cattolicesimo


Rileggendo a distanza di trent'anni Al muro del tempo, che ora Adelphi ripropone in una nuova edizione, si può intuire perché Ernst Jünger negli ultimi anni della centenaria vita abbia concluso il suo viaggio attraverso il deserto nichilista nella comunione cristiana. Certo, quel libro risentiva ancora della lezione nicciana, ma già ne faceva presentire un possibile superamento. Lo scrittore tedesco avvertiva profeticamente che l'umanità era giunta a una svolta epocale: troppi sintomi la denunciavano, anzi la denunciavano poiché essa non si è ancora conclusa; siamo infatti nel mezzo del guado di cui non conosciamo la fine. Lo sviluppo straordinario, inarrestabile, della tecnica, che egli giudicava una "proiezione dello spirito", la globalizzazione, l'aumento vertiginoso della popolazione mondiale, l'accelerazione temporale nella vita collettiva e individuale, le nuove forme di procreazione artificiale, la proiezione mediante le imprese spaziali verso altri pianeti, preannunciano una mutazione che sta cambiando il volto della terra ma anche il tipo umano. Che cosa nascerà di là dal "muro del tempo" è difficile capirlo. Jünger s'interroga su questo argomento accumulando domande, inquietudini, giudizi, che sono attuali ancora oggi come stimolo a una riflessione che si ponga di là dal nevrotico ritrarsi in un pessimismo da "profeti di sventura", ma anche di là dall'ottimismo progressista, oggi radicato nel liberalesimo faustiano. Era nello stesso tempo consapevole dei pericoli che si corrono qualora dovesse prevalere la mentalità tecnocratica, ovvero l'ideologia secondo la quale alle ragioni della tecnica si debba subordinare ogni altra considerazione: "La prospettiva più spaventosa è quella rappresentata dalla tecnocrazia, una sovranità sotto controllo, esercitata da spiriti mutili e mutilanti". Auspicava un approccio articolato e complesso alla realtà che permettesse di inserire lo sviluppo tecnico in un progetto globale più armonico.

Speciale Ernst Jünger Il visibile, il creato, il manifestato, non è infatti soltanto misurabile, può essere oggetto di approcci diversi, fra di loro complementari. La luna, ad esempio, può essere vista, studiata, contemplata sia da un punto di vista astronomico e chimico, sia mitico e fisiognomico. "Entrambe le qualità - scriveva - possono essere riunite in forma sinottica, se la mente ne ha la facoltà. In questo caso il salto è riuscito: il salto verso l'origine; e dalla coincidenza prospettiva degli opposti scaturisce stereoscopicamente una nuova dimensione, che non solo li unisce in senso spaziale ma li eleva pure qualitativamente". Parallelo a questo approccio conoscitivo Jünger sentiva la necessità di un ancoramento dell'uomo nel suo profondo, di là dalle ragioni storiche; anche perché la pura potenza e ricchezza, come le ragioni del lavoro, non possono appagare chi non è radicato in un fondamento che le trascenda. È infatti la mancanza di senso, di prospettiva a sottrarre all'uomo la felicità, il sentimento di vivere armonicamente; per questo motivo la forma di pianificazione e globalizzazione attuale suscita in molti inquietudine, se non un profondo pessimismo, anche perché tende a uniformare la terra a una ratio ispirata al solo criterio della efficienza. Ma la vita non può essere ridotta a quella sola dimensione. È indispensabile intuire, trovare, ancorare a "qualcosa d'altro". "Questo - soggiunge Jünger - è senza dubbio il compito delle religioni, cui ogni persona di senno, anche qualora non ne senta il vincolo, darà nei grandi conflitti il proprio sostegno, là dove, per esempio, esse sono alla mercé del razionalismo ateistico della pianificazione, con tutta la sua arroganza".

Sul filo dei capitoli emergeva continuamente questa sua preoccupazione: Jünger avvertiva la necessità che forze spirituali superiori orientassero il potente movimento in corso. Tuttavia giudicava insoddisfacenti per l'uomo contemporaneo le religioni esistenti, quasi non riuscissero più ad appagare la ricerca di Dio; né riusciva a concepire una "fede in dei personali". Eppure ripeteva continuamente che l'uomo educato dalla Ragione illuministica sentiva che l'ateismo non era sufficiente. Il suo oscillare fra un desiderio di fede e un rifiuto della Rivelazione, così come le sue vaghe esortazioni a un ancoramento trascendente, sembrano anticipare quel proliferare di ricerche, di approcci, di adesioni a nuovi culti che è uno dei "segni dei tempi". Ma a circa trent'anni da questo libro l'incontro con un sacerdote gli permetteva di rispondere ai suoi interrogativi, di concludere la nichilistica "traversata del deserto".



Tratto da Avvenire del 4.IV.2000.