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La tristezza crea da sé i fantasmi che la alimentano

di Francesco Lamendola - 08/07/2011




Le persone naturalmente dotate di un carattere allegro, purché - ovviamente - non siano superficiali e inconsapevoli, godono di un grande vantaggio nella vita, un bene prezioso che le aiuterà moltissimo nei momenti difficili che tutti, prima o poi, dobbiamo attraversare.
Quelle che non possiedono un tale dono, vuoi perché non l’hanno ricevuto fin dall’inizio, vuoi perché le circostanze della vita lo hanno eroso e lentamente distrutto dentro di loro, dovrebbero sforzarsi di conquistarlo o di riconquistarlo e porsi tale impresa come un importante obiettivo esistenziale, da perseguire con impegno e perseveranza.
La capacità di porsi in modo sorridente e leggero nei confronti del reale, beninteso accompagnata da retto vedere, retto sentire e retto volere, non è, infatti, un qualcosa di estemporaneo ed aggiuntivo, un qualcosa di secondario: è, al contrario, un elemento fondamentale per sviluppare una relazione armoniosa con se stessi e con il mondo.
Una sana e benevola allegria non soltanto è di aiuto prezioso nelle difficoltà; è anche lo strumento che ci consente di relazionarci in modo corretto con il reale, impedendo alla nostra emozionalità di deformare oltre misura i dati del’esperienza e di imprigionarci nella ragnatela della tristezza, che subdolamente si insinua nella nostra vita e indebolisce le nostre difese.
La persona triste non vede il mondo così com’è e non riesce a vedere esattamente neanche se stessa: li vede come attraverso una nebbia, una nebbia popolata dagli orribili fantasmi che la tristezza crea incessantemente, traendo alimento dalla paura e dallo scoraggiamento che ne costituiscono l’essenza e la forza perversa e segreta.
La tristezza possiede la capacità di entrare silenziosamente nella nostra vita, dissimulandosi abilmente; e poi, una volta che vi si sia insediata, acquista forza e si alimenta da se stessa, in un circuito maligno che, se non viene riconosciuto e contrastato per tempo, rischia di creare degli automatismi pressoché cronici.
La tristezza, per esempio, si presenta alla nostra porta sotto le vesti, perfettamente rispettabili, della pensosità e della profondità: come si fa a stare allegri, in un mondo così pieno di sofferenze e di ingiustizie, senza cadere nell’indifferenza o, peggio, nel cinismo?
Per cui sembrerebbe che la persona triste sia, semplicemente, una persona sensibile e consapevole di tutti i dolori che affiggono il mondo; e spesso ella stessa, ignara del proprio male segreto, ama presentarsi in tal modo davanti agli altri.
In realtà, il fatto di essere sensibili e consapevoli non significa, automaticamente, che si debba essere tristi: valga per tutti l’esempio del medico americano Patch Adams (conosciuto in Italia grazie alla sua interpretazione cinematografica da parte dell’attore Robin Williams), che aveva deciso di fare della sua vita un costante impegno per portare il sorriso nei malati e specialmente nei bambini ricoverati in ospedale per gravi patologie.
Si può dire, pertanto, che la persona sensibile e consapevole, che riesca a mantenere una sana allegria per se stessa e per coloro con i quali si relaziona, ha raggiunto il vertice della saggezza e della benevolenza ed è in grado di creare ed alimentare continuamente un circuito virtuoso in se stessa e fuori di sé, nell’ambiente in cui vive e lavora.
I monaci del Medioevo, contrariamente alla Vulgata di cui sono espressione film come «Il nome della rosa», ben conoscevano l’importanza, se non proprio della schietta risata, certo del sereno e costante buon umore; e lo stesso vale per la saggezza orientale, a partire dal Taoismo, la più “sorridente” di tute le filosofie dell’Asia e, forse, del mondo: per il saggio taoista, la giornata deve iniziare con una franca, sana, liberatoria risata, che alleggerisce il cuore, apre la mente e predispone a bene interagire con i propri simili e con tutto il mondo circostante.
Malinconia e tristezza vengono spesso confuse e, in effetti, viste da lontano possono anche sembrare sorelle gemelle; tuttavia, da vicino, l’occhio un po’ esercitato a vedere oltre le apparenze, ne riconosce immediatamente la differente natura.
La malinconia non è uno stato d’animo, ma un modo dell’essere e non smarrisce mai, quanto a se stessa, né la benevolenza verso il prossimo, né la capacità di scorgere la bellezza, ovunque si trovi; mentre la tristezza tende alla chiusura di sé nel cerchio della sofferenza e, pertanto, fatalmente finisce per divenire insensibile ai bisogni degli altri, quando addirittura non si trasformi in attiva e deliberata malevolenza.
A sua volta, la tristezza può facilmente degenerare in depressione e ciò può avvenire in modo tanto più insidioso, quanto meno facilmente viene riconosciuto di primo acchito: come un tumore al cervello che si annunci come un semplice mal di testa e venga così scambiato per una banale nevralgia, ritardando la presa di coscienza della sua gravità.
Tuttavia, anche se non degenera in depressione vera e propria, la tristezza costituisce una grave patologia dell’anima e va combattuta energicamente, se non  altro per il diaframma che essa pone tra noi e il mondo, deformando la nostra visione delle cose e alimentando i fantasmi della nostra mente, cui finiamo per attribuire consistenza reale.
Ecco perché per la persona triste sembra che le cose vadano sempre storte: è come se un’aura negativa la seguisse e la perseguitasse; e, di fatto, è proprio così: tristezza chiama ancora tristezza e, a sua volta, la tristezza cronica chiama le negatività, gli ostacoli, i malintesi, i contrattempi e ogni genere di sofferenze.
C’è un personaggio, nella saga del commissario Maigret creata da Georges Simenon, che bene incarna questa figura della persona triste e perennemente sfortunata: l’ispettore Lognon, la cui tristezza genera ad un tempo scortesia e sfortuna: quasi che il destino volesse punirlo per non aver imparato quale sia il giusto modo di porsi nei confronti della vita.
Un altro fattore importante da tener presente è il contesto socioculturale nel quale attualmente ci muoviamo e che, inevitabilmente, ci condiziona assai più di quanto non siamo, di norma, disposti ad ammettere.
La società contemporanea è fondamentalmente una società depressiva, che vampirizza le nostre energie migliori e si alimenta di quelle negative, più o meno artificialmente indotte dai meccanismi alienanti e brutali della massificazione: indifferenza, stupidità, cattiveria, egoismo, gelosia, rabbia, rancore, brame smodate e paure irragionevoli.
A ciò sono preposte le apposte agenzie di rimbecillimento collettivo, dalla pubblicità alla televisione, il cui scopo deliberato, e nemmeno tanto nascosto, è - appunto - quello di conseguire un pieno e incondizionato controllo sulle nostre menti: fino al punto da suscitare in noi, a comando, emozioni, bisogni, speranze e paure, trasformandoci in docili e volonterosi (soprattutto volonterosi: già Etienne De La Boëtie parlava della nostra “servitù volontaria”, in pieno XVI secolo!) burattini telecomandati
Non vi è da stupirsi se, in una società di questo genere, ove ogni barlume di spirito critico viene immediatamente censurato e messo a tacere, episodi di per sé assolutamente banali fungono da catalizzatori di tutte le nostre frustrazioni, di tutte le nostre ansie, di tutte le nostre ambizioni sbagliate, represse, distruttive e autodistruttive; e la tristezza è certamente uno degli aspetti della nostra vita quotidiana che maggiormente vengono alimentati dalla società depressiva.
Possiamo anzi ipotizzare, e non crediamo di andare troppo lontano dal vero, che oscure forze economiche e politiche abbiano ogni interesse ad alimentare il circuito perverso della tristezza, della paura, della depressione, con tutto lo squallido ma redditizio mercato che esso foraggia, dalla droga agli psicofarmaci; per non parlare della convenienza che ha un sistema formalmente democratico, ma in  realtà profondamente totalitario, di tenere le persone rinchiuse nel cerchio stregato della tristezza, dello scoraggiamento e dell’isolamento reciproco.
Se, infatti, come diceva Aristotele, l’uomo è prima di tutto un animale sociale, è evidente che uno dei primissimi effetti di un sistema che riesca a tenere gli esseri umani divisi, dispersi, frammentati (pur nella promiscuità della massa che dà l’illusione, ma soltanto l’illusione, delle relazioni sociali) sarà appunto quello di intristirlo, come avviene agli animali rinchiusi negli zoo, che giungono fino alla pazzia dietro le sbarre delle loro gabbie.
Basterebbero queste semplici considerazioni per farci comprendere che combattere la tristezza e lottare per conquistare una sana allegria nei confronti della vita è non solo un nostro diritto sacrosanto, ma anche un doveroso strumento per contrastare la sottomissione mentale, l’alienazione ed il plagio di cui siamo costantemente minacciati dalle oscure forze economiche e politiche cui abbiamo fatto cenno, e che molti indizi fanno pensare essere organizzate entro strutture segrete dedite al satanismo e volte al controllo totale dell’umanità, dietro il paravento di una democrazia puramente formale ed apparente.
Anche al livello della vita quotidiana, comunque, va sottolineato che un atteggiamento “leggero”, allegro ed ottimista si presta magnificamente ad affrontare nel modo più idoneo le piccole e grandi difficoltà con le quali dobbiamo confrontarci e che troppo spesso hanno il potere di scoraggiarci, prostrarci, sfinirci.
Se i nostri processi vitali implicano un continuo scambio di energie fra noi stessi e l’ambiente circostante - persone, animali, piante e cose -, allora noi dobbiamo fare di tutto per proteggere e mantenere il più alto possibile il nostro potenziale energetico e tenere a bada quelle presenze e quelle situazioni che tendono a sottrarci energia senza restituircela, prosciugando le nostre forze migliori e sottoponendo la nostra mente ad un continuo stato di stress.
Le emozioni, di per sé, sono faticose, anche quando sono di carattere positivo; figuriamoci quelle negative, come l’ansia, la paura e, appunto, la tristezza.
La persona consapevole è a conoscenza del rischio che il continuo bombardamento emozionale rappresenta per il proprio equilibrio interiore e fa in modo da non esporvisi in misura eccessiva e senza protezione alcuna.
La persona inconsapevole, invece, non solo vi si espone in modo imprudente, ma fa in modo di aggravare il pericolo, andando essa stessa in cerca di quelle situazioni e di quei contesti ove vige la massima intensità emozionale: dai megaconcerti rock, ai film televisivi che trasudano orrore e violenza gratuita, al frastuono ossessivo delle discoteche, all’abuso di superalcolici, alla guida spericolata e in mille e  mille altre maniere di tal genere.
Se questo è il rischio al quale si espongono le persone superficiali e immature, ve n’è un altro che riguarda, invece, proprio le persone più sensibili, scrupolose e moralmente oneste: quello di lasciarsi coinvolgere esageratamente nei problemi della vita quotidiana e specialmente nelle relazioni affettive, disperdendo immense quantità di energia psichica che, poi, sarà loro assai difficile reintegrare e ricostituire.
Il nostro equilibrio interiore è un bene prezioso che dovremmo imparare ad amministrare saggiamente, almeno tanto quanto dovremmo imparare ad amministrare con saggezza e intelligenza il bene insostituibile della salute fisica.
Orbene, la volontà di lottare contro la tristezza e la capacità di coltivare il buonumore e l’allegria dovrebbero costituire il nucleo di questo necessario abito mentale, fatto di prudenza, di saggezza e di consapevolezza di sé.
La tristezza è una forma di prostrazione della vita, di abbassamento e di mortificazione delle immense potenzialità positive che essa quotidianamente ci offre; è una nemica, dunque, che va riconosciuta come tale, allontanata e scacciata senza tanti complimenti, anche e soprattutto allorché si presenta sotto le mentite spoglie di un atteggiamento esistenziale nobilmente e austeramente pensoso.
Non vi è nulla di nobile e nulla di austero nella tristezza; non è altro che compiacimento masochista nella solitudine e nella sofferenza, subdolo richiamo del nostro io più infantile e ciecamente, selvaggiamente autodistruttivo.
Non ascoltate le sue sirene incantatrici: quando bussa alla vostra porta, reagite e mandatela via.