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W Petrolini: un poeta

di Miro Renzaglia - 13/06/2006

 

 

Uno dice, fa: ”La poesia è bella se ha un bel significato; se tratta di valori alti e ha un nobile messaggio; se commuove; se consola; se dà parola alla sofferenza; se incanta con la melodia della sua voce; se stabilisce un nesso fra l’uomo e il divino; se rispetta le forme tradizionali, della sintassi, dell’ortografia, della metrica; se è lirica; se è aulica; se è mitica e simbolica; se è ispirata; se è seria, se è solenne; se è sublime”.

 “Tutte cazzate - dice un altro - la poesia è una macchina di parole; la sua benzina sono vocali, consonanti, sillabe e accenti; il verso libero non esiste, esiste solo la libertà del poeta di creare forme; l’ispirazione accende la miccia, ma è il mestiere che fa esplodere l’immaginazione; non ha scopo: non tende “a” e non è scritta “per”; il significato ce lo metta il lettore.”

 

Potrei continuare ma non voglio infastidirvi con le annose questioni su cosa sia o non sia “la” poesia. La disputa è vecchia come l’uomo e ognuno è libero di scegliersi i suoi criteri e perfino di spaziare a sua libido fra i prodotti notevoli del bel versificare, a prescindere da tutte le scuole di pensiero, buone al massimo per le schedature poliziesche dei critici di professione. La questione è semplice: la poesia è l’invenzione di “un” linguaggio, felice se la forma è identificabile con lo stile del suo autore; infelice se si risolve in un fantomatico messaggio.

 

Detto ciò, non riesco a capire perché nelle scientifiche e prestigiose antologie della poesia italiana (non dico di sempre, ma almeno del Novecento; ma al minimo di quelle che trattano l’argomento a cavallo tra le Due Guerre), nessuno si sia mai sognato d’inserire qualcosa di Ettore Petrolini. Al quale, in vero,  non si può negare d’essere l’inventore di un linguaggio irripetibile: se non per imitazione o per virtuosismo interpretativo (penso a Mario Scaccia). Magari, un debituccio originario Petrolini ce l’ha con Palazzeschi ma - ditemi - quale poeta non ne ha con qualcun altro?

 

Sarà che è passato alla memoria come artista di varietà, un macchiettista che, in quanto tale, e come i guitti di un tempo, è inibito a pernottare entro le mura blindatissime dei castelli letterari: come se i suoi testi fossero inscindibili dall’interpretazione teatrale (fulminante) e non abbiano, invece, una forza espressiva tutta loro; sarà che il comico ed il grottesco non rientrano nella categoria prediletta dalla lirica nobiltà letteraria (ma allora buttiamo nella spazzatura pure “Gargantua e Pantagruel”); sarà che il successo in vita di un poeta (sissignori…) ha sempre dato fastidio, prima agli sfigatissimi versificatori a cui rare volte la gloria in terra ha arriso e, poi, a quei falliti che, senza mai essere riusciti a scrivere un verso accettabile, hanno optato per le più redditizie carriere di critici accademici e/o patinati (“criticofessi”, li definiva Petrolini). Sarà quel che sarà: fatto sta che Petrolini-Poeta resta per i più una blasfemia (escludo dal novero dei puristi-puritani Annamaria Calò e Giovanni Antonucci, che hanno curato l’opera omnia del Nostro per i tipi rispettivamente della Ruzante, 1977 e Newton, 1993).

 

Mi domando perché a quello splendido non sense che è “M’illumino d’immenso” (Ungaretti) non possa essere giustapposto il petroliniano: “Disse la tinca al luzzo: ove te n’ vai?/ Rispose il luzzo alla tinca: al lago di Braguzzo. Morale: o tinca o luzzo o lago di Braguzzo”. Entriamo nel merito della tecnica poetica (solo un attimo, ché non vi voglio annoiare: Petrolini non me lo perdonerebbe) per notare che nel primo la sinestesia si rende memorabile per nell’allitterazione quasi-anagramma delle due parole “illumino” e “immenso” e, nell’altro, la filastrocca si risolve, con non minore mestiere, nella rima, in mezzo e in coda, e nella reiterazione dei sostantivi. E adesso non venite a dirmi che illuminarsi d’immenso è più poetico perché allude al Sublime Assoluto, mentre il luzzo esprime “solo” un lazzo terra terra, perché allora non avete capito che non sono i significati il discrimine fra poetico e impoetico ma l’uso dei significanti nella creazione della forma. Che, inoltre, il problema non sono i nostri personalissimi gusti, ma stabilire se Petrolini è o non è un inventore di linguaggio, alias: un poeta. E io non ho dubbi: sì, lo è. Poi, ad ognuno il suo: a voi le stelle, a me le stalle. Tanto, sui gusti mica è lecito disputare.

Si dice, ma non ne sono convinto -  benché lui stesso amasse avvalorare l’ipotesi - che Petrolini fosse tutto istinto e poca cultura… Può darsi. Punto è che, a conti fatti, balza evidente ad occhi non miopi che il medesimo seppe far sua l’intera - ripeto: intera  - lezione poetica delle Avanguardie storiche. Che lo abbia fatto perché, (lui, astemio), fosse una spugna capace di assorbire naturalmente tutti gli umori letterari dell’epoca, anziché essere un topo da biblioteca come Leopardi a me, personalmente, non fa né caldo né freddo: per me conta solo l’espressione.

 

Per fare un esempio, prendete la lezione di Pound: “La poesia si può fare con qualsiasi cosa”. Che ne fosse a conoscenza per istinto o per intelletto, che ti combina quel mattocchio dell’Ettore nostro? Mica si accontenta di infilare tinche, luzzi e “ruzzoloni per le scale” nei suoi non sense, nelle filastrocche, nei calembour, nei paradossi, nelle tiritere idiote… macché! Perché limitarsi alle forme consolidate dalla tradizione-tradizione o dalla neo-tradizione dell’avanguardia? Eccedere, eccedere bisogna! E, allora, eccolo là ad usare come contenitore formale delle sue invenzioni linguistiche farcite di sciarade, anagrammi, perifrasi, anfibologie, nomi, cognomi, parodie (stupenda quella della già fortunatissima canzone “…ma l’amor mio non muore…”); eccolo là - dicevo -  ad usare la forma delle barzellette, dei colmi, delle differenze, dei cartelloni pubblicitari, locandine, biglietti da visita, interviste… Come dire: “La poesia si può fare con qualsiasi cosa”? E sia: allora facciamola con tutto, ma proprio con tutto, eh?

 

In sintesi finale, potremmo definire l’invenzione linguistica di Petrolini un colossale, geniale gioco di parole. Vi sembra poco? Va beh, siccome mi costringete, “un po’ per celia e un po’ per non morire” vi ricorderò il gioco di parole più risaputo che, secondo tradizione, Cristo inventò per vaticinare la sua chiesa: “Tu sei Pietro e su questa pietra…” con quel che segue. E ne è conseguito. Non abbiatevene a male. W Petrolini.