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Dispersi fra mille cose arranchiamo nel deserto della vita

di Francesco Lamendola - 02/08/2011




Se degli esseri extraterrestri intelligenti ci potessero osservare con comodo (e moltissimi indizi lasciano credere che lo stiano già facendo, e non da ieri), probabilmente la cosa che balzerebbe loro all’occhio sarebbe la fatica con cui la stragrande maggioranza degli esseri umani si trascina lungo le strade accidentate e polverose della vita, arrancando come in un deserto.
La fatica: una fatica psicologica, morale, spirituale, che si riflette fisicamente nello sguardo spento, nei gesti opachi, nei movimenti del corpo privi di ogni slancio, di qualsiasi leggerezza e, diciamolo pure, di qualunque gioia.
A partire dall’adolescenza, in certi casi perfino dall’infanzia, e poi, via via, lungo tutta l’età adulta e fino alla vecchiaia, lo spettacolo è sempre lo stesso: un arrancare faticoso, un arrabattarsi sempre più asfittico e frustrante, uno sprofondare sempre più demoralizzante nella stagnante palude dei sogni infranti, delle aspirazioni mancate, delle dure, impietose necessità e preoccupazioni della vita d’ogni giorno, da quelle economiche a quelle lavorative, burocratiche, mediche e di cento e cento altri generi.
La seconda cosa che i nostri imparziali osservatori (non importa se bene o male intenzionati, questa è un’altra faccenda) noterebbero, se solo potessero disporre di un sufficiente periodo di tempo, sarebbe la causa di un tale affaticamento cronico: la dispersione degli esseri umani in mille diversi impegni e attività, perfino in mille svaghi e distrazioni, che assorbono e prosciugano completamente, senza peraltro dar loro pace e benessere, le energie fisiche, mentali e spirituali, di cui pure sono variamente dotati, talvolta in maniera superba.
La dispersione costante, sistematica, incontrollabile del proprio io, del proprio impegno, del proprio lavoro, nasce a sua volta da una radice relativamente semplice: la mancanza di un centro interiore, di un progetto di vita consapevole, di uno scopo complessivo bene individuato.
Qualsiasi stratega degno di questo nome, anzi, qualsiasi modesto allievo di una accademia militare sa che la mancanza di un obiettivo definito e la conseguente dispersione delle forze costituiscono, in guerra, l’errore fondamentale che nessun condottiero dovrebbe mai commettere, perché lo espone a subire pesanti rovesci ad opera di forze avversarie magari meno numerose e peggio equipaggiate, ma capaci di sfruttare il vantaggio che si offre loro, attaccando in massa nel punto più debole e coscienti della scarsità di riserve del nemico.
Così, nella vita, è chiaro che, per procedere in maniera ottimale, bisogna sapere dove si vuole andare, che cosa ci si propone di ottenere, quali sacrifici si è disposti a sopportare e, soprattutto, sulla base di quale motivazione si sa e si vuole preservare il più possibile l’integrità delle proprie forze, evitando di disperderle e di logorarle in maniera autolesionistica, inseguendo, magari, obiettivi irrealistici ed esponendosi avventatamente a tutti i colpi fisici, psicologici e spirituali che la vita può infliggere a chi non impara l’arte della conoscenza di sé.
In realtà, il problema della stanchezza non nasce dal fatto che facciamo troppe cose, ma dal fatto che le facciamo disordinatamente e inconsapevolmente; che le facciamo, sovente, male e con cattiva coscienza, ossia sapendo bene che non sono le più importanti, né quelle che ci aiuterebbero a stare bene con noi stessi; che le facciamo superficialmente, da dilettanti, mano a mano che ci vengono incontro: e quest’ultimo è un altro errore marchiano di strategia, perché una battaglia è già vinta per tre quarti, allorché si riesce a combatterla là dove lo si vuole e lo si è stabilito, e non dove lo stabiliscono il caso o, peggio, il nemico.
La verità è che la gente si stancherebbe molto di meno, e di conseguenza si ammalerebbe molto di meno, se imparasse a disinserire il pilota automatico e a lasciarsi pervadere dalla forza benefica della propria autenticità, della propria freschezza spontanea.
Ciascuno di noi potrebbe lavorare molto di più, e senza stancarsi, sia sul piano fisico, sia sul piano mentale, se imparasse a sfruttare pienamente le immense risorse che possiede in se stesso, ma che utilizza piuttosto male e solo in minima parte.
Sarebbe un brutto giorno per la genia dei guaritori a pagamento - medici, psicologi, psichiatri e i più lugubri di tutti, i signori psicanalisti - quello in cui gli uomini decidessero di vivere in un altro modo, pacificandosi con le proprie istanze più autentiche, ignorando il richiamo dei falsi bisogni ed il miraggio di beni illusori, per rientrare in se stessi e procedere con forze unite e compatte, senza dispersioni e senza incertezze, dritti verso la meta che decidessero di porsi.
E sarebbe un bruttissimo giorno per quella oscena organizzazione a delinquere che va sotto il nome pomposo di industria farmaceutica quello in cui gli uomini smettessero di girare intorno ai loro problemi e di fuggire davanti alla inevitabilità della sofferenza, ma prendessero virilmente in pugno le loro esistenze, per dirigerle con determinazione e coraggio verso la meta, ossia verso la realizzazione della loro parte più vera e profonda.
Ciò che saremmo in grado di fare, una volta che volessimo riappropriarci della nostra vita, sarebbe prodigioso: sul piano fisico, sul piano mentale, sul piano spirituale.
Sul piano fisico: saremmo più forti, più energici, più resistenti alle malattie; potremmo gettare nel cestino della spazzatura tranquillanti, ansiolitici, sonniferi, ma anche aspirine, antibiotici e cortisone: ne faremmo a meno, semplicemente, come ne facevano a meno i nostri nonni, che pure non mangiavano così tanto come noi, non si coprivano così tanto in inverno, non usavano il condizionatore in estate, non si spostavano in macchina anche per fare cento metri: e campavano novant’anni, cento anni, senza beccarsi nemmeno un raffreddore.
Mi sono sempre chiesto come facevano, i nostri progenitori di alcune migliaia d’anni fa, ad erigere quegli straordinari monumenti megalitici che costellano letteralmente tutto il mondo e anche tutta l’Europa, dall’isola di Malta alle Isole Orcadi; come facevano, voglio dire, in senso materiale, ché la loro formidabile perizia astronomica e matematica è ormai dimostrata oltre ogni ragionevole dubbio.
Scartate le ipotesi più fantasiose, care a tante correnti New Age, dagli extraterrestri, ai giganti, alla magia, resta la spiegazione più semplice: essi erano straordinariamente forti. Potevano tagliare le pietre e trasportarle dalle cave ai luoghi di destinazione finale, talvolta per centinaia di chilometri, e poi innalzarle come giocattoli, anche se pesavano centinaia di tonnellate, per l’ovvia ragione che possedevano un vigore fisico eccezionale, a paragone del nostro.
Ebbene: sono convinto che anche noi potremmo fare le stese cose, se solo liberassimo la nostra mente dalle mille limitazioni che ci siamo auto-imposti e se ritornassimo ad un regime di vita completamente diverso e più naturale.
Sul piano mentale: potremmo ricordare un numero assai maggiore dei milioni e milioni di informazioni che il nostro cervello continuamente accumula e tesaurizza; potremmo elencare con assoluta precisione, per esempio, tutti i rami del nostri albero genealogico, per decine di generazioni, come facevano i popoli nativi, anche quelli che non conoscevano la scrittura, quali i Maori della Nuova Zelanda; o recitare a memoria migliaia e migliaia di versi, come facevano gli aedi della Grecia in età omerica.
Potremmo applicarci a qualsiasi problema di matematica o di geometria e risolverlo con facilità, se solo ci liberassimo dalla convinzione auto-castrante che non ne siamo capaci; potremmo giocare contemporaneamente due, tre, quattro, dieci partite a scacchi, senza sbagliare una mossa, senza dimenticare un passaggio, anche senza avere anni e anni di pratica scacchistica alle spalle, come i grandi campioni acclamati in televisione e sulla stampa.
Sul piano spirituale: potremmo staccarci dalla condizione impermanente nella quale siamo immersi e ricollegarci con l’assoluto, con il divino, sperimentando non in qualche rarissima occasione, ma tutte le volte che lo volessimo, l’estasi dell’unione con la Coscienza cosmica di cui siamo parte, l’ebbrezza di sentirci una molecola viva e pulsante dell’universo; potremmo vedere chiaramente nel passato e nel futuro; potremmo viaggiare in luoghi lontani e in pianeti sconosciuti; potremmo vedere nei recessi del nostro corpo, o di quello altrui, e individuare e diagnosticare per tempo l’insorgenza di tumori, di ulcere, di disfunzioni renali o d’altro genere.
In realtà, tutte queste cose già vengono realizzate da un piccolissimo numero di esseri umani “illuminati”; alcune sono state documentate scientificamente, ad esempio la capacità di mantenere integre le funzioni vitali dopo settimane e mesi di assoluto digiuno, perfino dopo essersi fatti seppellire sotto terra; oppure quella di vivere a quattromila metri di quota, con abiti succinti e leggerissimi, senza risentirne minimamente e senza contrarre neppure un modesto raffreddore; per non parlare della chiaroveggenza, della retrocognizione, del cosiddetto sdoppiamento corporeo che è, in realtà, una proiezione del proprio corpo astrale (e che era, fra l’altro, una caratteristica di alcuni santi cristiani, tra i quali S. Antonio da Padova).
Il nostro vero problema è che disperdiamo continuamente la nostra vita in mille cose secondarie e insignificanti, che consumiamo la nostra energia in mille vane occupazioni, più o meno artificiali, più o meno nevrotiche, che non ci danno serenità e pienezza, ma ci lasciano più vuoti ed esausti di prima; corriamo sempre, ma non riusciamo mai a ricaricare le nostre batterie.
Il mio amico Ruggero sostiene che questo è il risultato della perdita dell’egemonikon, del sovrano interiore e, perciò, del centro vitale; conseguenza, a sua volta, di un rapporto folle e distorto con la natura, rispetto alla quale vorremo sentirci onnipotenti e, quindi, eliminare dalla nostra vita ogni più piccola traccia di dolore e ogni possibile imprevisto che sfugga al nostra controllo.
Così, per voler sfuggire le sofferenze piccole, andiamo incontro a quelle grandi; per inseguire continuamente dei palliativi e degli anestetici, aggraviamo i nostri mali e li facciamo proliferare a dismisura, fino a soggiacere a delle sindromi che noi stessi abbiamo innescato, con il  nostro atteggiamento presuntuoso e al tempo stesso infantile e compulsivo.
Per usare le sue parole precise: «Non si riconosce la Natura, ma si vuole imporre ad essa una visione distorta che, peraltro, tutto il sistema della disumanizzazione e della ignorantizzazione programmata foraggia. Dal narcisismo collettivo alla solitudine individuale. Dalla predica della potenza al labirinto senza uscita, alla ragnatela, alla prigione.»
E l’unica via d’uscita, secondo lui e secondo chi sta scrivendo, è tornare a confrontarsi lealmente con la propria sofferenza, osservarla, riconoscerla, accettarla, trascenderla; in altre parole: accettare la propria fragilità, la propria mortalità; accettare l’idea della propria morte.
Questa è filosofia: come diceva Platone, filosofia è preparazione alla morte; e, poiché la filosofia è sapere vedere non soltanto le singole parti, ma il tutto, la vera terapia dei nostri mali e il mezzo per potenziare le nostre immense facoltà latenti è ritornare ad una visione globale, onnicomprensiva della vita, che non nasconda la testa sotto la sabbia quando si parla della morte, ma la accetti e la introietti con serenità e dolcezza.
Potremmo mandare in pensione quasi tutti i medici e gli psichiatri di questo mondo (con tutto il rispetto per quelli di loro che svolgono la propria professione in buona fede e con spirito di servizio) se solo imparassimo a diventare filosofi, a vedere il processo della vita umana nella sua interezza e se solo ristabilissimo un giusto equilibrio fra noi e la natura, invece di continuare a farle la guerra, come insensatamente hanno proclamato i cattivi maestri della cosiddetta Rivoluzione scientifica, nel XVII secolo, e come imperterriti continuiamo a fare.
Certo, la vita non è sempre rose e fiori; vi sono momenti di difficoltà, di stanchezza, di scoraggiamento. Tutto questo è umano, molto umano.
Il punto è che noi dovremmo vivere quei momenti sino in fondo, considerandoli altrettante preziose occasioni per conoscere meglio noi stessi e per porci con maggiore chiarezza il senso che vogliamo dare alla nostra vita; non sfuggirli o nascondere la sofferenza sotto il tappeto, come fa la cattiva massaia, che non ha voglia di pulire veramente la propria casa, ma che si accontenta di farla sembrare pulita allo sguardo altrui.
Ce n’è, di sofferenza che abbiamo cercato d’ignorare e che abbiamo sospinto, a colpi di scopa, sotto il tappeto della nostra coscienza: è da lì che dovremmo ripartire, per ridare splendore all’oggi...