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C’è qualcosa di male a voler fare il geologo?

di Francesco Lamendola - 02/08/2011



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Conosco un uomo che, da ragazzino, sognava che sarebbe diventato un geologo.
C’è forse qualcosa di male nel voler diventare un geologo? Alzi la mano chi è in grado di esporre una sola ragione al mondo per cui un ragazzo non dovrebbe coltivare il sogno di intraprendere la carriera del geologo…
In realtà, lo affascinavano tutte le scienze della Terra, oltre all’astronomia; lo affascinava la terra: tanto è vero che, più o meno negli stessi anni, lo seduceva l’idea di fare l’agricoltore, in modo da essere quotidianamente a contato con essa, con i suoi ritmi, i suoi colori, i suoi profumi, il suo soffio vitale.
Andava in giro per la campagna, talvolta con gli amici, talaltra da solo, in cerca di fossili di qualunque tipo e, magari, anche di selci lavorate e di qualsiasi testimonianza del passato più remoto; tanto da riempire parecchi scatoloni di rocce o lastre di ardesia, contenenti impronte di ammoniti, che poi ficcava sotto il letto, in mancanza di un luogo più idoneo.
È successo anche, nel corso di quelle scorribande in bicicletta, che si trovasse seriamente in difficoltà, magari tutto solo, sospeso precariamente su qualche pendio roccioso da cui era cosa ardua sia andare avanti, che tornare indietro; oppure, più prosaicamente, che il proprietario di una risaia, infuriato, corresse loro dietro, prendendoli a male parole, perché, tutti intenti a rovistare nei solchi in cerca di fossili, non si erano resi conto che stavamo calpestando le piantine sul punto di spuntare…
Era anche appassionato di montagna e di speleologia; aveva frequentato un corso di roccia e tutte le domeniche mattina, estate e inverno, andava ad arrampicare; scendere nelle caverne, poi, dapprima lungo la scaletta metallica e indi strisciando fra i meandri rocciosi, in mezzo a stalattiti e stalagmiti, nei recessi più bui e profondi, costituiva per lui un’emozione tutta particolare.
Gli piacevano la terra, le montagne, i fiumi, le cascate, il sole e la pioggia, il vento e la grandine; i mutamenti atmosferici repentini, tipici di certe giornate d’inizio estate, l’improvviso scatenarsi del temporale in un mattino soleggiato; e poi le vette, il fascino immacolato delle vette, lassù, sempre più in alto, fra i ghiaioni e le nevi che persistono anche in agosto, dove regna un silenzio irreale, sovrumano, che taglia l’udito come una lama.
Una volta prese il treno e si fece, tutto solo, il giro di un lago alpino di discreta ampiezza, così, tutto d’un fiato, nel giro di una sola mattinata; un’altra volta, in bicicletta - di cui era appassionatissimo, anche se più come velocista che come scalatore - nello spazio di una settimana, e dormendo in tenda, si arrampicò su per le Dolomiti e si spinse, senza mai smontare una volta, fino al Passo Pordoi e oltre, a 2.239 metri sul livello del mare, tra il Gruppo del Sella e la Marmolada, mitico arrivo di tappa nella geografia del Giro d’Italia…
La geologia, dunque, come compendio di tutto ciò che è terrestre, terricolo, terraneo; come un modo per sentirsi stretto e abbracciato alla terra, per contemplarne la bellezza, per cercare di penetrarne i segreti, con umiltà, ma anche con incessante stupore e con sconfinata riconoscenza: dal mistero dei cristalli alla deriva dei continenti, dalle eruzioni vulcaniche al magnetismo terrestre, dalle aurore boreali all’enigma degli oceani perduti.
Lo intrigavano, in effetti, soprattutto gli aspetti poetici, misteriosi, non ortodossi, di quel particolare ramo delle scienze: come era scomparsa Atlantide e dove era stata localizzata? Che aspetto doveva avere l’Antartide, quando era popolata di felci arborescenti e di enormi uccelli non volatori? Che spettacolo doveva essere stato quello dell’eruzione del vulcano Krakatoa o quello della inesplicabile esplosione di Tunguska? Come mai la flora di certe isole oceaniche non presenta alcuna affinità con quella del continente più vicino, ma con solo con quella di terre lontanissime o, addirittura, di remote epoche geologiche?
Le sale di geologia del museo di Scienze naturali della sua città, e più ancora quelle di paleontologia, esercitavano su di lui un fascino arcano, irresistibile: quei minerali dai colori meravigliosi, quelle rose del deserto, quei cristalli di quarzo, quegli scheletri di orsi delle caverne, quei mammut incredibilmente conservati: tutto ciò scatenava nel suo animo una autentica esplosione di emozioni, di pensieri, di fantasticherie.
Sognava ad occhi aperti che, da grande, sarebbe partito per qualche regione remota del pianeta, per qualche isola artica simile all’Ultima Thule; che avrebbe esplorato una nuova catena di montagne, forse ne cuore della Nuova Guinea o tra i fiordi della Terra del Fuoco; che avrebbe dati il suo nome a qualche ghiacciaio, o studiato un grandioso meteorite piovuto da chissà quali distanze siderali, oppure scoperto, in mezzo alle sabbie d’un deserto asiatico o africano, un monumentale cimitero di dinosauri.
Così, verso la fine delle scuole superiori, cominciò ad informarsi presso la sede universitaria più vicina e si procurò il programma del corso di studi per la laurea in Geologia: non stava più nella pelle per l’emozione…
Poi, un po’ alla volta, egli comprese che non era quella la sua autentica vocazione; non intraprese gli studi di geologia e non è mai diventato un geologo di professione.
Non se ne è pentito e so che non ha rimpianti o rammarichi di sorta.
Noi abbiamo davanti parecchie strade aperte, specialmente quando siamo giovani e pieni di entusiasmo e di energia: così tante, che è difficile riconoscere quella giusta, quella che realmente siamo stati chiamati a percorrere.
Non che le altre siano sbagliate; sono tutte giuste, se affrontate con animo puro e con buona volontà: ma una sola, in effetti, è quella in cui noi possiamo dare il meglio di noi stessi, in cui possiamo far venire alla luce la nostra parte più vera e più profonda; una sola è quella che ci era stata preparata sin dall’inizio, a preferenza di tutte le altre.
Certo, una persona che non pensi soltanto al guadagno, ai beni materiali, al proprio personale divertimento e che possieda salute, intelligenza e disponibilità ad impegnarsi al massimo, può fare bene qualsiasi cosa; questo, però, non significa che sia indifferente intraprendere l’una o l’altra strada nella vita.
C’è chi è portato per il matrimonio e, anche se non si sposa, porta con sé quella particolare disposizione, quella tolleranza, quella capacità di relazionarsi con gli altri, che gli derivano dalla sua indole fondamentale.
C’è chi si sente chiamato alla maternità o alla paternità e, sebbene non abbia figli, sa rapportarsi con i bambini e con i giovani con quella apertura, con quell’entusiasmo, con quel rispetto che sono tipici della madre o del padre.
C’è chi si sente portato ad aiutare gli altri: e non è detto che debba farlo partendo per lontani continenti e sprofondandosi in qualche villaggio nella foresta tropicale; può darsi benissimo che le persone da aiutare siano lì, nella sua stessa regione o nella sua stessa città, magari perfino nella sua stessa famiglia.
Tutto lo si può fare bene, se non si ha paura di rimboccarsi le maniche e di spremere un po’ di sudore; una sola, però, è la cosa per la quale noi siamo stati chiamati da sempre, forse da prima ancora che nascessimo e che venissimo concepiti nel ventre di nostra mamma: e, se riusciamo a individuarla, allora nessuno saprà mai farla meglio di come la faremo noi.
Precisiamo subito che il concetto di «farla meglio» non va inteso assolutamente in senso puramente tecnico: non si tratta di eccellere come in una prestazione di tipo sportivo.
Lo sportivo deve comprendere la propria vocazione per poter eccellere nella disciplina che avrà scelto: il lancio del peso o quello del giavellotto, il pattinaggio o il ciclismo, il nuoto o la pallavolo; e, all’interno di ognuna di esse, nella ulteriore sotto-specialità: nel nuoto, ad esempio, i duecento metri stile libero, oppure i quattrocento metri; e così via.
Ma l’uomo, l’uomo completo, quello no: egli non è un insieme di muscoli e di riflessi, non è un bagaglio vivente di nozioni tecniche e di abilità pratica; è qualcosa di infinitamente più complesso, più prezioso, più raro.
L’uomo e la donna completi, realizzati, consapevoli, non scelgono una strada a caso e non si impegnano là dove possono dare solo una piccola parte del loro potenziale umano, ma intraprendono la strada in cui sono in grado di dare tutto, attingendo instancabilmente, come da un pozzo magico, sempre nuove riserve di forza, di coraggio, di entusiasmo, a dispetto delle circostanze esterne, quand’anche fossero le più sgradevoli e le più ingrate.
In loro si realizza il doppio mistero della necessità e della libertà: essi liberamente scelgono ciò che deve essere fatto proprio così; proprio da loro e non da altri; proprio qui e non altrove; proprio in questo modo e in nessun altro.
Nelle persone inconsapevoli, incapaci di udire la voce del proprio maestro interiore, libertà e necessità entrano continuamente in conflitto: solo nelle persone che hanno compreso il senso della propria vita e, più in generale, il senso della vita in quanto tale, ciò non accade: anzi, le due cose si armonizzano pienamente l’una con l’altra.
Questo non significa, sia ben chiaro, che agli esseri umani sia lecito lamentarsi continuamente e scusare le proprie insufficienze, semplicemente adducendo il fatto di non aver potuto seguire la propria vocazione: il mondo è pieno di questi bambocci di trenta, quaranta e cinquant’anni che seguitano ad incolpare i genitori, la sorte e chissà chi altri ancora, perché, a suo tempo, sono state tarpate loro le ali, è stato impedito loro di fare ciò che volevano, ciò che avrebbero saputo fare in maniera eccellente…
No: se si è onesti con se stesi e con la vita, si può fare bene tutto, ma proprio tutto: anche i camerieri, anche le domestiche, anche gli spazzini.
È certo, però, che alcune cose le sappiamo fare meglio di altre; che per alcune ci sentiamo naturalmente predisposti; che alcune ci ispirano un sacro fuoco, una passione disinteressata, al punto che, quasi quasi, pagheremmo noi, invece di pretendere un compenso, purché ci venisse consentito di dedicarci ad esse a tempo pieno, con tutto il cuore.
Vi sono delle anime pigre che non hanno mai provato questo sacro fuoco, che non si sono mai appassionate per niente e per nessuno, tranne, tutt’al più, per la propria tranquillità e per il proprio benessere economico: non è di esse che stiamo parlando ora.
Chi non ha compreso che la vita è una cosa seria; che non siamo stati chiamati ad essa per un caso, né per una spensierata villeggiatura; che abbiamo un lavoro da svolgere, o, per dir meglio, una missione; e che dal modo in cui lo faremo, dipenderà quella che - nel linguaggio comune - si usa chiamare “la felicità”: ebbene, chi non ha compreso nessuna di queste cose, si trova ancora molto indietro nel cammino verso la consapevolezza e dovrà fare ancora molta, molta strada, prima di arrivarci.
Eppure, si dirà, costoro sono proprio quelli che riescono a vivere meglio; che non devono sopportare affanni, ansie, fatiche; che riescono, spesso, a scansare abilmente le più dure difficoltà che, invece, si creano sovente sulla strada di quegli altri, di coloro i quali prendono la vita con tutta la serietà che le è dovuta.
Noi non lo crediamo; o meglio, crediamo che ogni livello evolutivo rechi con sé, naturalmente, le proprie gioie e le proprie sofferenze.
Tutti fanno l’esperienza della gioia e del dolore, nel corso della loro vita; ma le gioie della persona spiritualmente evoluta non sono le stesse della persona inconsapevole; e lo stesso vale per le sofferenze.
La mosca prova piacere a soffermarsi sugli escrementi; un Buddha prova piacere a contemplare il mondo intero con sguardo benevolo, equanime, armonioso. Un individuo rancoroso e vendicativo prova piacere a far soffrire i suoi nemici; una bella persona non prova mai piacere davanti al dolore di alcuno, nemmeno dell’uomo peggiore che esista al mondo.
Allo stesso modo, chi si è inoltrato almeno un poco sul cammino della consapevolezza, riesce a trovare motivi di purificazione e di perfezionamento interiore anche in mezzo alla sofferenza; quella stessa sofferenza che appare come un crudele scherzo del destino, come un fardello insensato e insopportabile, a colui che, dalla vita, si aspettava solo carezze e cioccolatini.
Gli altri, intanto, ci osservano: anche in ciò, e specialmente verso i giovani, sta la nostra missione…