Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Ingmar Bergman, quattro anni fa

Ingmar Bergman, quattro anni fa

di Federico Magi - 02/08/2011

http://4.bp.blogspot.com/-N5hn0FAj2Q4/TcZQoh7hrxI/AAAAAAAAEZ4/nIFCsckygDE/s1600/La+Morte.jpg

Il 30 luglio di quattro anni fa si congedò dalla vita, conservando pero l’immortalità artistica, Ingmar Bergman, grande regista svedese che grazie ai suoi capolavori prenotò senza dubbio un posto nell’Olimpo della settima arte. Nato a Uppsala da Karin ed Erik Akerblom, un pastore luterano, Bergman cominciò in giovanissima età a respirare quelle intense suggestioni familiari che furono alla base delle sue più importanti pellicole.  Erik, difatti, impartì al giovane Ingmar un’educazione molto severa che Bergman porterà in diverse occasioni sul grande schermo, consacrandola artisticamente nella saga familiare capolavoro Fanny e Alexander.

Proprio Fanny e Alexander (1982), ultima pellicola premiata del maestro svedese, ci dà la misura della grandezza e degli importanti riconoscimenti che ebbe il suo cinema nel mondo, soprattutto oltre oceano dove le pellicole non anglofone difficilmente potevano competere ad armi pari con i kolossal hollywoodiani.  Nato originariamente come film per la televisione, Fanny e Alexander fu e resta un opera monumentale per il cinema europeo, la cui costosissima produzione rischiò di far finire in bancarotta il Filminstitutet, l’istituto cinematografico statale di Svezia. Ma il gioco, come si usa dire in questi casi, valse la candela, perché Fanny e Alexander rimane ancora oggi il film non in lingua inglese più premiato alla notte degli Oscar. Ben 6 nomination, tra le quali regia e sceneggiatura, e 4 premi vinti: miglior film straniero, fotografia del grande Sven Nykvist, scenografia e costumi, nonché Golden Globe come miglior film straniero e miglior regia. Un amore incondizionato della critica d’elite americana, un privilegio assoluto per un autore europeo a cui nessuno, probabilmente nemmeno Fellini e De Sica si sono mai avvicinati tanto.

Ma siamo partiti dalla fine, a ben guardare, perché la prolifica  e ineguagliabile carriera di Ingmar Bergman comincia quarant’anni prima di quello che può essere considerato il suo capolavoro di congedo, fino a trovare i primi importanti consensi di critica con una commedia beffarda (premio per l’umorismo poetico a Cannes) ispirata da atmosfere shakespeariane, Sorrisi di una notte d’estate (1955), pellicola nella quale Bergman dimostra la sua duttilità e la sua capacità di mescolare i generi e registri emotivi.  Di li a due anni sarà il tempo di due capolavori assoluti, forse le sue due opere più note e celebrate, Il settimo sigillo e Il posto delle fragole. Il settimo sigillo, in particolare, che regala una delle sequenze immortali del cinema d’ogni tempo (la morte con la falce che gioca a scacchi col cavaliere di ritorno dalle crociate), ha influenzato l’immaginario non solo artistico di più epoche e ha innescato dibattiti che mantengono la loro attualità anche agli occhi dei contemporanei.

La dicotomia fede-miscredenza, difatti, sarà il leitmotiv riconoscibile del suo cinema più introspettivo ed ispirato; il suo sguardo laico, la vena beffarda ma non necessariamente dissacrante, consentiranno a Bergman di dare credibilità e al contempo vita pulsante ad un universo onirico e metafisico dagli approdi sovente angosciosi la cui gravità, però, si stempera più volte in modo scioccante ed imprevisto. Il linguaggio criptico e simbolico del suo cinema, attraversato peraltro da un’ispirata vena poetica, si palesa all’ennesima potenza proprio ne Il posto delle fragole, storia di un illustre professore che deve andare a ritirare una prestigiosa onorificenza: una meditazione profonda e agrodolce sul senso della vita e della morte, ancora una volta sospeso in un duplice universo che alterna l’onirico al reale. Premiato ovunque, da Berlino a Venezia, da New York alla Norvegia fino all’Argentina, Il posto delle fragole è probabilmente l’opera più ispirata, profonda e commovente dell’intera prima parte di carriera del regista svedese.

Le suddivisioni ideali della carriera bergmaniana sono figlie dei suoi travagli sentimentali, dato scaturente dall’analisi delle sue opere, sempre fortemente autobiografiche. Nel 1943 Bergman sposò Else Fischer, ballerina coreografa che influenzò palesemente Un’estate d’amore (1951), il film della consapevolezza artistica, a suo dire.  Complessivamente Bergman si sposò cinque volte ed ebbe anche otto figli, alcuni dei quali frutto di relazioni extraconiugali. Bibi Andersson e Liv Ullman sono state le sue muse, amanti e anche qualcosa di più, attrici che segnarono due momenti differenti della carriera del regista. Più bella la Andersson, forse più brava la Ullmann, ambedue hanno incarnato personaggi indimenticabili. Il connubio artistico tra le due si consuma in un altro capolavoro bergmaniano, senza alcun dubbio la sua opera nota più criptica e inquietante, Persona, film che rende manifesta la necessità del regista di sondare i terreni dell’incomunicabilità e dello sperimentalismo.

Gli anni Novanta vedono il regista svedese impegnato con la televisione, come sceneggiatore di Con le migliori intenzioni, diretto da Bille August, e de L’infedele, diretto da Liv Ullmann, e come regista di Vanità e affanni (1997), ultima sua opera che finì anche sul grande schermo. Artista unico e irripetibile, ispirato più volte dalle sue stesse opere teatrali, Bergman morì nella quiete solitaria dell’isola di Faro lasciando all’umanità un patrimonio artistico enorme riguardo al cinema e non soltanto, per temi espressi e talento autoriale.