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L’umiltà del male

di Mario Grossi - 16/08/2011

L’anima volgare, riconoscendosi volgare,
ha l’audacia di affermare il diritto della volgarità
e lo impone dovunque

Ortega y Gasset

C’è una domanda che nelle menti degli adolescenti fa divampare, come in un incendio, le più stravaganti elucubrazioni. Una domanda che, nell’età acerba che precede quella dell’adulto, su cui si posa una patina sempre più spessa di quella polvere che smussa gli spigoli e rende le riflessioni meno incisive, seppur più tonde, di quelle ferite sanguinanti che sono i ragionamenti un po’ infantili ma senza sconti degli adolescenti, risuona come un rombo minaccioso, un boato lacerante.

Una domanda che trova difficile e farraginosa risposta nel realismo un po’ intorpidito, tipico dell’età inacidita, che s’insinua, scalzandolo poco alla volta, nel senso acuto e affilato dell’anima giovanile.

Una domanda che suona così: “Perché il Male esiste e perché trionfa costantemente sul Bene?”.

Domanda che, nella sua ingenuità onnicomprensiva, nasconde in realtà una selva d’inestricabili questioni irrisolte: i rapporti che intercorrono tra etica e politica, quelli tra potere e gente comune, la fragilità della natura umana, che oggi appaiono più attuali che mai.

Da adulto, con fresco cuore adolescenziale, a tutto questo tenta di dare risposta, Franco Cassano con un saggio breve, agile, facile alla lettura, denso di umori e dal titolo evocativo, L’umiltà del male, un ossimoro al servizio della curiosità del lettore che l’editore Laterza, non casualmente, inserisce nella collana Anticorpi.

Il saggio ha come cuore centrale un’interpretazione originale della Leggenda del Grande Inquisitore, che Fedor Dostoevskij ne I fratelli Karamazov fa raccontare ad Ivan.

Nella Spagna del Cinquecento il Grande Inquisitore fa arrestare il Cristo che è tornato sulla terra e gli rende visita in carcere.

La leggenda è un monologo dell’Inquisitore, il Cristo non apre mai bocca e ascolta in silenzio, in cui viene rimproverata a Gesù la sua perfezione morale, la sua intransigenza nel proporre un modello adatto a coloro che, dotati di grande anelito spirituale, riescono, con enormi sacrifici e sofferenze, ad imitarlo ma che inevitabilmente trascura e abbandona a se stessi tutti colori, i comuni mortali, che sono invece costantemente alle prese con i loro limiti, con le loro pochezze, con le loro debolezze.

Insomma gli rimprovera di promuovere un percorso buono solo per i pochi migliori che si salveranno, “i dodicimila santi”, che probabilmente si salverebbero comunque e di buttare ai pesci tutti gli altri che invece avrebbero sommo bisogno del suo aiuto, della sua comprensione, del suo appoggio.

Di contro, il Grande Inquisitore, dopo aver assaporato le durezze e le privazioni di questa via d’eccellenza, “Sappi che anch’io sono stato nel deserto, anch’io mi sono nutrito di locuste e radici, anch’io ho benedetto la libertà con la quale Tu avevi benedetto gli uomini, e anch’io mi ero preparato a entrare nel numero degli eletti Tuoi, nel numero dei capaci e dei forti”, ha voluto rivolgere il suo sguardo agli umili, ai deboli, ai comuni che non hanno forza sufficiente per seguirlo, “ Ma io ho aperto gli occhi, e non ho voluto servire la follia. Ho virato di bordo, e mi sono aggregato alla schiera di quelli che hanno emendato le Tue gesta. Ho girato le spalle agli orgogliosi, e mi sono rivolto agli umili, per la felicità di codesti umili”.

Accusa durissima mossa al sedicente Salvatore. Se la Fede è un atto di libertà, il compito è del tutto sproporzionato alla forza degli uomini comuni. Gli uomini non sono fatti per la libertà, non ne sono all’altezza. Hanno bisogno di una guida, di un puntello, di una strada delineata da altri per non deflettere ma che sia congrua alle loro miserie, alla loro povertà, alla loro labile volontà.

È bene dunque che la Chiesa si occupi degli uomini comuni, non per trasformarli in santi, ma per guidarli, utilizzando anche l’inganno, la paura, la soggezione per evitare loro di finire schiacciati sotto il peso di una libertà, fardello troppo oneroso per la loro limitatezza.

Il potere temporale della Chiesa, ha acquistato la sua forza proprio perché ha permesso a tutti di peccare, perché ha tollerato e tollera le cadute, è pronto a perdonarle, si è mostrato indulgente.

Nelle interpretazioni classiche la Leggenda viene rappresentata come un attacco alla Chiesa, in cui il Grande Inquisitore è la rappresentazione del male ed il Cristo del bene.

Nell’interpretazione di Franco Cassano le cose sono molto più complicate, a partire proprio dai due concetti cardine del saggio: l’umiltà del male e l’”aristocratismo etico” del bene.

Il male trionfa, ed è in costante vantaggio sul bene, proprio per la sua vicinanza con la maggioranza dei comuni mortali. Ne conosce in profondità i vizi e le debolezze, li affianca blandendoli senza alcuna contrapposizione, visto che il bene, forte della sua supremazia etica, volge lo sguardo altrove.

È questo il motivo principale per cui il bene si trova sempre in affanno e deve recuperare strada nei confronti del male.

È questo costante volgere lo sguardo verso l’alto, verso le mete che si è prefisso, tronfio della sua superiorità morale, che non gli permette di trovare una breccia nel cuore della gente comune.

È proprio qui che invece il male compie la sua opera più raffinata. Da un lato si affianca ai molti imperfetti circuendoli (il male alla fine lo fa, non per benevolenza nei loro confronti, ma per il suo disegno luciferino di dominio e di potere), dall’altra avvolgendoli, taglia i ponti, pochi del resto, che sono l’unico contatto con i migliori e con il bene, isolandolo e inaridendolo in un empireo troppo elevato e irraggiungibile per essere appetibile. “Avvelena i pozzi” per usare l’espressione dell’autore.

Il saggio approfondisce il rapporto tra il bene e il male e come il potere fonda la sua legittimazione, indagando, nello splendido capitolo La zona grigia, quel territorio opaco in cui il potere del carnefice s’incontra con la sopportazione della vittima. È un’analisi profonda che parte dalle pagine de I sommersi e i salvati di Primo Levi per indagare appunto quest’area in cui si confondono i ruoli. Zona grigia su cui è necessario sospendere ogni giudizio, in quanto le vittime diventate carnefici furono coartate a farlo da condizioni straordinarie, al limite dell’umano e quindi non scandagliabili con i criteri della normalità. Analisi che mette a nudo le relazioni ambigue di complicità che s’instaurano tra chi comanda e i comandati che si fanno convincere in forza della loro cedevolezza. Non c’è comunque innocenza nella zona grigia: chi comanda corrompe, chi è comandato si fa corrompere per ottenere dei vantaggi e così facendo si fa fiancheggiatore, complice del potere.

Il capitolo conclusivo, prima dell’epilogo, ripercorre infine un dibattito radiofonico sulla natura umana tra Arnold Gehlen e Theodor Adorno, assolutamente coerente col resto del testo.

Gehlen/Inquisitore sostiene che le istituzioni, organizzando gli uomini con regole di comportamento definite, li solleva dal dover ogni volta, con atto di libera adesione, scegliere, liberandoli dalla fatica della decisione. Adorno/Cristo vi vede invece l’espressione di un potere imposto che rende sudditi gli uomini.

Per Gehlen/Inquisitore le istituzioni sono un utile strumento per sorreggere uomini naturalmente incapaci di sopportare il peso di una libertà che li costringe a decidere sempre e comunque con atto di responsabilità.

Per Adorno/Cristo sono invece una fonte di alienazione che li priva della necessaria autonomia per prendere in mano i fili della propria vita.

Gehlen/Inquisitore osserva la natura umana e valutandola per quello che vede, esclude ogni possibilità di libertà, respinge ogni forma  di utopismo, nega ogni possibilità di emancipazione.

Adorno/Cristo, pur riconoscendo la difficoltà della sua posizione, non si sottrae a sostenerne la necessità per realizzare una vera libertà per gli uomini, aprendo il fianco alla pericolosissima utopia pedagogica dell’”uomo nuovo”.

C’è qui declinata tutta la questione relativa all’uomo: se sia entità naturalmente malvagia o naturalmente buona, se sia possibile quindi correggerla e migliorarla oppure solo assecondarla perché incorreggibile e la riflessione seppur nota si fa vertiginosa.

Appare chiarissimo, dopo la lettura del saggio e alla luce di questa nuova interpretazione, perché la Leggenda del Santo Inquisitore sia tanto attuale e disegni, nei nostri tempi foschi, una raffigurazione frustrante e negativa del potere politico che ora, come allora, utilizzando solo mezzi differenti, si comporta come l’Inquisitore.

Ma al contempo il saggio è anche un invito a non lasciare che l’Inquisitore continui nella sua opera distruttiva, richiamando i migliori ad abbandonare i panni spocchiosi dei primi della classe, dei catari senza peccato, della presunta superiorità morale del loro comportamento che gli aliena simpatie, gli fa volgere lo sguardo altrove e soprattutto gli impedisce quella vicinanza che sarebbe vitale per l’affermazione dei loro principi.

Il saggio è un richiamo forte a rimboccarsi le maniche, abbandonando per sempre quello che, a ben vedere, è un vero e proprio “mito incapacitante”, quello di una razza padrona, di una classe eletta, antropologicamente diversa, moralmente superiore, salva per diritto di censo (o di partito), come “i dodicimila santi” della Leggenda, che non vuole sporcarsi le mani con gli abietti cittadini che sono maggioranza e che, se ben supportati, sarebbero ottimo materiale umano.

Insomma per far vincere le ragioni del bene bisogna avere il coraggio di mettersi al fianco dei peccatori, dei poveri di spirito, dei cittadini comuni, conoscerne i limiti, le debolezze, i vizi e provare a volgerle al meglio.

In breve, il bene deve imparare dall’”umiltà del male” e dalla sua capacità di devastante concretezza, consapevole dei pericoli che corre.

«Chi non vuole rimanere rinchiuso nel narcisismo etico rischia dunque molto, è esposto continuamente al pericolo di perdersi, all’illusione di dominare ciò che in realtà lo sta dominando. E può quindi accadere che un mattino, mentre si guarda nello specchio, egli scopra riflessa nel vetro la figura del Grande Inquisitore».

È un rischio da correre per non impantanarsi beati ma sterili, nei propri solipsistici sogni da moralista.