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Facciamo quel che possiamo, meglio che possiamo: e poi affidiamoci alla corrente dell’Essere

di Francesco Lamendola - 21/08/2011



Ci sono dei momenti, nella vita, in cui ci si sente afferrati alla gola dalle preoccupazioni, dagli impegni, dalle responsabilità; in cui sembra di soffocare, di annaspare, di girare a vuoto come delle trottole nelle mani di un bambino capriccioso; di dare il massimo senza però vedere il benché minimo risultato, senza raccogliere nulla.
Ci sono dei momenti in cui ci si sente sovraffaticati, esausti e demoralizzati: perché si ha la sensazione che sia tutto inutile, che sia solo fatica sprecata; coloro ai quali vogliamo bene non vedono, non capiscono; il nostro disinteresse non viene riconosciuto e tanto meno apprezzato; e tutto il nostro impegno sembra destinato a dissolversi come fumo al vento.
Allora subentrano la frustrazione, l’abbattimento, l’amarezza: perché faticare tanto per vedere qualche sia pur minimo risultato, prodigarsi per altri e scorgere almeno un sorriso di riconoscenza sui loro volti, questo può già costituire una forma di ricompensa; ma spendere tutte le proprie energie per venire ignorati o, addirittura, mal ricompensati, ciò è davvero un po’ troppo per un normale essere umano, che non sia né un santo, né un superuomo.
E tuttavia, è proprio in quei momenti che si vede quel che valiamo: quando ci sembra di essere completamente soli e completamente incompresi anche da chi ci dovrebbe meglio capire, sostenere, incoraggiare.
Non si tratta di essere degli eroi: si tratta soltanto di rimanere fedeli a noi stessi, al nostro impegno con la vita, al rispetto che abbiamo per tutto ciò in cui abbiamo sempre creduto e per cui abbiamo sempre lottato, nella buona e nella cattiva fortuna.
Bisogna pur riconoscere che, non di rado, il nostro senso di frustrazione non è del tutto giustificato, se analizziamo bene i meccanismi psicologici che ci hanno portati alla sensazione d’avere imboccato un vicolo cieco.
Forse abbiamo peccato di presunzione; forse, abbiamo creduto di essere onnipotenti, di poter «raddrizzare le zampe ai cani», come si usa dire, cioè di poter rimettere in piedi e puntellare delle situazioni che, invece, erano irrimediabilmente compromesse, sopravvalutando oltre ogni misura le nostre forze e le nostre possibilità.
Dovremmo sempre ricordarci di essere umani, cioè deboli, fragili, limitati; né possiamo compensare qualunque vuoto con la sola forza di volontà, e sia pure con la forza della buona volontà. Se l’automobile rimane senza più una goccia di benzina, si ferma in mezzo alla strada e non va più avanti, c’è poco da fare: non potrebbe avanzare nemmeno di un altro centimetro, anche se la si prende a calci e a male parole.
Non dovremmo esigere troppo da noi stessi, non dovremmo pretendere l’impossibile: vi sono delle situazioni in cui, pur con tutto l’impegno e la generosità di questo mondo, non è possibile rimediare a dei gravi deficit di partenza; non siamo onnipotenti, dopo tutto, questa è la pura e semplice verità e dovremmo tenerla sempre bene a mente.
Possiamo arrivare fino ad un certo punto e non oltre, anche se ci siamo abituati a pretendere sempre di più da noi stessi, fino al punto da ignorare i campanelli d’allarme e ad inoltrarci su una strada pericolosa, consumando energie che non saremo poi in rado di ricostituire; come chi, dopo aver fatto cento, pensa di poter fare centoventi, poi centoquaranta e così via, all’infinito.
Ma verrà fatalmente il momento in cui la natura gli presenterà il conto, sul piano psicofisico: e sarà un conto maledettamente salato.
Dunque, la regola numero uno: è ricordarsi che non siamo onnipotenti, che abbiamo dei limiti, che non possiamo fare tutto.
La regola numero due è: fare quel che si può fare, meglio che se ne è capaci.
La regola numero tre è: arrivati al termine delle proprie risorse, non lasciarsi vincere dallo scoraggiamento, ma rimettersi nelle mani di una Forza più grande di noi, della quale siamo parte, o forse siamo una scintilla; una Forza possente, benevola, che è in grado di risolvere i nostri problemi molto meglio di come lo faremmo noi, purché ce ne fidiamo interamente e la lasciamo operare attraverso di noi e attraverso gli altri: la forza dell’Essere.
Un tempo era assolutamente normale lasciarsi sostenere da quest’ultimo pensiero; nelle difficoltà della vita che non si possono umanamente padroneggiare, anche le persone più sagge, anche i santi più grandi, continuamente ricorrevano con fiducia all’aiuto che viene dall’Alto, quando si agisce con retta intenzione e con animo limpido.
Tutti, e specialmente le persone incolte, gli umili contadini, sapevano che l’essere umano può agire sulla realtà fino ad un certo punto, anche impegnandosi allo stremo delle forze; che perfino i progetti umani più sottili, quelli preparati e studiati in ogni dettaglio e realizzati con ogni cura, sono soggetti all’incertezza e al fallimento; che è vano presumere di poter piegare il destino e fare tutto da soli, perché l’uomo propone, ma è Dio che dispone.
L’uomo che conta solo su se stesso pecca di orgoglio e va inesorabilmente incontro allo scacco: tale era la saggezza dei nostri padri, dei nostri avi.
Il fatto che questa elementare consapevolezza sia andata in larga misura smarrita e che anche i cosiddetti credenti, oggi, tendano a far conto soprattutto su di sé, inventandosi perfino delle teologie negative, per giustificare teoreticamente la loro scarsa o nulla fiducia in quella che un tempo si chiamava Provvidenza e rifiutando, come essi dicono, l’idea del «Dio tappabuchi» per sostituirla con quella di un Dio che vuole l’uomo adulto e capace di sbrigarsela da sé, la dice lunga su quanto sia penetrata nell’uomo moderno l’opera dissolvente delle filosofie laiche e materialiste affermatesi a partire dal XVII secolo.
La verità è che moltissimi credenti, moltissimi religiosi, moltissimi teologi, sono ormai degli atei che non hanno quell’ultimo barlume di onestà intellettuale per riconoscersi tali, ma preferiscono riempirsi la bocca di strani sofismi per dimostrare che il “vero” Dio è quello che si nasconde, che tace, che non fa nulla, non perché voglia vedere se l’uomo sia capace di rimboccarsi le maniche e sbrigarsela un po’ da solo, ma perché proprio Egli è divenuto un fantasma, lo sbiadito fantasma di Se stesso, buono ormai soltanto per delle chiacchiere senza costrutto.
Meglio, mille volte meglio sono quegli atei dichiarati i quali, dopo essersi seriamente confrontati con la sfida della Trascendenza, onestamente concludono, non senza una sfumatura di intima malinconia: «Quaesivi et non inveni», «Ho cercato, ma non ho trovato».
Se, poi, ci domandiamo quali siano le radici non già filosofiche, ma psicologiche di questo autentico rovesciamento di prospettiva, per cui gli uomini, invece di confidare in Ciò che sta sopra di loro, vorrebbero fare tutto da soli, attribuendosene sia i successi che gli insuccessi, giungiamo rapidamente alla risposta che esse risiedono nella feroce volontà dell’uomo moderno di manipolare il reale nel suo egoistico ed esclusivo interesse, riducendo la scienza a mera tecnica di potere: «Sapere è potere», come diceva orgogliosamente Sir Francis Bacon.
Ora, se il successo dell’azione umana si misura unicamente, o principalmente, con il metro dei risultati immediati, tangibili, concreti, è evidente che il mancato conseguimento di tali risultati comporta un immediato senso di frustrazione, di impotenza, addirittura di insignificanza.
Se io valgo in quanto sono capace di manipolare a piacere la realtà, nel momento in cui fallisco, questo vuol dire che non valgo più nulla.
Si passa, così, da un eccesso di sicurezza in se stessi all’eccesso opposto, a sentirsi delle nullità, dei falliti, dei perdenti, come oggi si usa dire: e, in un mondo costruito sula misura dei vincenti, essere dei perdenti è la peggiore squalifica che possa toccare ad un essere umano.
Non hai trovato l’uomo o la donna giusti, con cui costruire un progetto di vita? Sei un fallito. Non sei riuscito a importi nella tua professione, portando a casa un bel mucchio di soldi e facendo crepare d’invidia vicini e colleghi? Sei un fallito. Sei stato inganno, tradito, abbandonato, dal tuo amante o dalla tua amante? Sei un fallito o una fallita.
E il giudizio, spietato, inappellabile, non è solo quello che viene dagli altri, ma - prima ancora - quello che si emette contro se stessi.
Perché tutti, o quasi tutti, hanno ormai introiettato questo modo di pensare e di giudicare persone e situazioni: un modo cinicamente utilitaristico e piattamente, banalmente materialistico; ma tant’è, nella società di massa il numero detta le regole e plasma anche le coscienze.
È necessario, pertanto, reagire ad un simile andazzo, rivendicando l’assoluta, irriducibile alterità fra ciò che appare e ciò che è, fra la Civitas terrena e la Civitas Dei: i sentieri dell’Assoluto non sono i nostri sentieri, il Suo giudizio non è il nostro giudizio.
Non si può emettere una valutazione circa il reale soltanto sulla base del successo apparente: spesso, dal punto di vista dell’anima, la vittoria materiale equivale ad una sconfitta e la sconfitta, a sua volta, ad una occasione o ad una opportunità di progresso.
Inoltre, non si può pensare che tutto ciò che accade dipenda soltanto dalla nostra volontà, dalla nostra intelligenza, dal nostro sforzo: non siamo onnipotenti; al contrario, siamo fragili: ma questa nostra fragilità non equivale affatto all’insignificanza, anzi, è proprio in essa che si cela il mistero della nostra grandezza.
Siamo grandi perché siamo fragili: ecco la profonda lezione di umiltà e di saggezza che i nostri nonni conoscevamo benissimo, anche se avevano studiato soltanto fino alla terza elementare; mentre noi l‘abbiamo completamente dimenticata o, peggio, derisa e scacciata, con tutti i nostri diplomi di laurea e le nostre specializzazioni in qualche prestigiosa università estera.
C’è, poi, un’altra cosa che dobbiamo considerare.
Esiste, nella natura, una saggezza intrinseca, che coincide con la saggezza della vita universale: è bene e va a buon fine ciò che vi si attiene; è male e produce errori e sofferenze ciò che vi si discosta, per ignoranza o presunzione.
Noi vorremmo continuamente correggere la natura e imporre alla vita il nostro metro di giudizio: ma non è la natura, siamo noi che dobbiamo operare delle correzioni in noi stessi; e non è la vita che deve uniformarsi alle nostre egoistiche pretese e alle nostre mode fuggevoli, siamo noi che dobbiamo imparare a metterci in armonia con essa.
Ogni qualvolta ci dimentichiamo questa regola aurea, operiamo contro noi stessi e ci mettiamo al servizio delle forze negative che tendono a indebolirci, danneggiarci, disgregarci; ogni qualvolta la teniamo bene a mente, ci poniamo in sintonia con le forze benefiche che sostengono, rafforzano ed espandono il nostro essere.
In realtà, tutto quel che ci si chiede è di aprirci con fiducia alla forza dell’Essere e lasciarci ispirare, guidare, trasportare da essa: finché ci regoliamo in tal modo, non dobbiamo avere paura di nulla, perché tutto quello che potrà capitarci sarà - a dispetto delle eventuali apparenze contrarie - un bene, checché ne dicano gli altri.
E adesso, su in piedi, povero uomo stanco e povera donna cui sembra di non farcela più; su la testa, dritte le spalle: non siete soli, non siete abbandonati come credevate.
Nessuno è abbandonato a se stesso, a meno che lo voglia: perché nessuno è separato dalla corrente viva e luminosa dell’Essere, che è tutto in tutti.
Ecco perché, nei testi religiosi, si dice che colui che vorrà salvarsi, si perderà; e colui che si perderà, verrà salvato: infatti, noi non possiamo salvarci da soli.
Per l’uomo rozzamente materialista, abituato a giudicare secondo le apparenze, lasciare la presa sulle cose equivale a perdere il controllo su di esse e, di conseguenza, anche a perdere se stesso: perché egli misura il proprio essere sul metro delle cose che possiede.
Se potesse, si aggrapperebbe anche alla vita, rifiutandosi di morire: per questo non è mai pronto a lasciare ciò che ha ricevuto in usufrutto, ma non in proprietà.
L’uomo umile e saggio, invece, sa che non aggrappandosi alle cose, ma lasciandole andare, egli ritroverà se stesso: perché ritroverà in se stesso quella scintilla divina che gli farà da guida anche nella notte più oscura.