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Consolare gli afflitti?

di Francesco Lamendola - 21/08/2011





Nel Discorso della Montagna, cuore vivo e pulsante del lieto annuncio di Cristo agli uomini, si dice, al secondo punto (Vangelo di Matteo, capitolo 5, versetto 3) «Beati gli afflitti, perché saranno consolati».
La Chiesa cattolica ha fatto di questa massima una delle Sette opere di misericordia spirituale, ispirata, come tutte le altre, dallo Spirito Santo: consolare gli afflitti; letteralmente: avere pietà degli afflitti (cfr. «ne ho avuto pietà», Zaccaria, 10, 6).
Ma che cosa significa, esattamente, consolare gli afflitti? Chi appartiene a questa categoria? E come si fa a consolarlo; quando è possibile; quando è opportuno?
«Afflictus», in latino, vale «abbattuto, rovinato, afflitto» (Cicerone, Sallustio) ed è il participio di «adfligěre, affligěre», che significa «battere, sbattere, gettare giù, abbattere», tanto nel significato materiale dell’espressione, quando in quello psicologico e morale. Cesare scrive: «Tempestas naves Rhodias  afflixit»: «La tempesta sconquassò le navi dei Rodi»; Cicerone dice che «Pompeius ipse se afflixit»: «Pompeo s’è rovinato da sé»; e sempre Cicerone afferma che «Perturbationes animos affligunt»: «Le passioni affievoliscono la forza d’animo»
Nell’italiano moderno è andato perso il significato materiale del verbo ed è rimasto solo quello spirituale: l’afflizione è uno stato dell’animo e l’essere afflitto è la condizione di chi sia profondamente triste, deluso, amareggiato, sconfortato, privo di fiducia e di speranza che le cose possano rimettersi al meglio.
Ciò detto, bisogna tuttavia osservare che gli afflitti non appartengono tutti ad un’unica, indistinta categoria, ma che in essi si possono riconoscere almeno due categorie fondamentali: quelli che soffrono per delle circostanze obiettive e quelli che soffrono essenzialmente per mancanza di fiducia in se stessi e perché ingigantiscono i problemi.
La distinzione, lo sappiamo bene, è estremamente ardua: è quasi impossibile separare, con una linea netta, le circostanze oggettive dalla percezione soggettiva; di fatto, ciascun essere umano esperisce la realtà esterna attraverso il filtro della propria coscienza, delle proprie aspettative, dei propri timori e pregiudizi e, così facendo, carica la percezione di quella di un pesante fardello di idee e sentimenti personali, che nulla hanno a che fare con il dato originario.
Pure con ciò, non possiamo fare a meno di constatate che sono essenzialmente due gli atteggiamenti fondamentali verso la vita: quello attivo e quello passivo; il primo rielabora incessantemente le proprie esperienze, positive o negative che siano, per approfondire la propria esperienza del reale e per perfezionare la propria evoluzione spirituale; il secondo si abbandona stancamente alla vita, inebriandosi quando le cose vanno bene ed abbattendosi, magari anche oltre la misura del giusto e del ragionevole, quando vanno male.
Il primo atteggiamento è quello delle anime forti, che non si scoraggiano facilmente e che, quando cadono, hanno solo bisogno di raccogliere nuovamente le forze per tornare ad alzarsi in piedi; il secondo è quello delle anime fiacche, le quali, essendo prive di una forma originaria, perché non sono mai riuscite a darsela da se stesse, continuamente assumono quella che le circostanze esterne impongono loro, così nel bene come nel male.
Tutte le anime, quando soffrono, anelano a udire una parola buona o a ricevere un gesto buono, anche soltanto uno sguardo di simpatia e di comprensione, da un amico, da un parente, da un conoscente, fosse pure da un estraneo; e non solo quelle umane, come ben sa chi abbia vissuto con un cane e abbia appreso a leggere nel segreto della sua anima.
D’altra parte, non tutte le anime desiderano realmente essere consolate per ricostituire le proprie forze e rimettersi in piedi; ve ne sono di quelle che vorrebbero seguitare a lamentare all’infinito per poter essere consolate all’infinito e via così, in una spirale senza fine.
Ed eccoci al secondo termine dell’espressione «consolare gli afflitti», ossia il verbo «consolare», da cui il sostantivo «consolazione».
In latino, «consōlor,-āris» significa «consolare, confortare; alleviare; compensare» (Campanini-Carboni), come in Cicerone: « (Spes) sola nomine in miseriis consolari solet», «La speranza sola può consolare gli uomini nella sventura».
Nella letteratura latina, esisteva un vero e proprio genere letterario, la «consolatio», che vanta insigni esempi, da Cicerone (che aveva per oggetto la perdita dell’amatissima figlia Tullia, ma il cui testo è andato perduto) a Seneca e fino all’Alto Medioevo, con la celeberrima opera di Severino Boezio «De Consolatione Philosophiae», scritta in carcere e in attesa della morte, per volontà del re ostrogoto Teoderico.
Nella prospettiva cristiana, la vera consolazione è sempre quella che viene da Dio, eventualmente per mezzo degli uomini, ma anche direttamente da Lui; tanto è vero che Gesù, nel racconto giovanneo dell’Ultima cena (14, 16), promette ai suoi discepoli la venuta del Paraclito, il Consolatore, che è poi un altro nome dello Spirito Santo. παρα κλητος, (paracletos) non viene dal latino, ma dal greco - la lingua dei Vangeli - ed è un termine tratto dal linguaggio giuridico, che significa «avvocato», ossia qualcuno che parla in difesa di qualcun altro.
Dicevamo che non tutte le anime desiderano davvero essere consolate nelle loro afflizioni: perché non tutte sono disposte ad accettare la fatica di rialzarsi in piedi, dopo essere cadute; alcune, infatti, preferiscono continuare a lamentarsi senza fine, piangere e pestare i piedi in terra.
Tale è il comportamento di una parte delle anime deboli, mai di quelle forti: un’anima forte, quando ha bisogno di essere consolata, utilizza la consolazione come un bastone per rimettersi in piedi e riprendere il cammino, là dove l’aveva interrotto quando era scivolata giù; e anche un’anima debole può comportarsi così, se le rimangono un po’ di coraggio e di rispetto di sé..
Se, invece, non le restano più né l’uno né l’altro, allora succede che l’anima debole, senza forma, senza spina dorsale, completamente afflosciata su se stessa, non desideri realmente di rimettersi in piedi; preferisce restare in terra, sdraiata, reiterando incessantemente le stesse litanie contro il mondo cattivo, contro la sfortuna che la perseguita, contro gli altri che non la capiscono e che non la apprezzano come, invece, ritiene di meritare.
Insomma, gira e rigira, il problema è sempre lo stesso: lo stesso del pensare, lo stesso del capire, lo stesso del valutare e perfino lo stesso della salute: non è possibile consolare chi non voglia realmente essere consolato, così come non è possibile aiutare colui che non desideri essere aiutato e nemmeno curare colui che non abbia la volontà di affrontare e vincere la malattia (sia essa fisica o psicologica o spirituale).
In questo senso, bisogna stare attenti a non farsi confondere dalle apparenze.
Non è detto che una persona, per il fatto di piangere e disperarsi, stia realmente chiedendo aiuto; così come non è detto che una persona che si lascia andare, che si abbatte, che sprofonda in un cupo fatalismo, desideri realmente essere aiutata ad uscirne.
Lasciamo da parte il caso della depressione vera e propria, della depressione in senso clinico, perché è chiaro che, in essa, la malattia consiste proprio nella abdicazione della volontà; nella rinuncia, per così dire, a contrastare il proprio malessere e a mostrare la determinazione di ritrovare il proprio equilibrio ed il proprio benessere.
Parliamo invece di tutte quelle persone, il cui numero è legione, le quali, pur non potendosi definire, a rigor di termini, depresse, presentano tuttavia una deviazione della volontà ed un ripiegamento della coscienza di sé, del proprio diritto-dovere di star bene, cioè di vivere in equilibrio con se stesse e con il mondo esterno; di tutte quelle persone le quali, senza del tutto rendersene conto, e tuttavia con un qualche barlume di ciò, stanno barando con se stesse e soffrono senza una vera volontà di uscire dalla sofferenza, perché, per varie ragioni, hanno finito per adattarvisi.
Non si tratta di simulatori, perché il loro comportamento non è intenzionale o, almeno, non lo è del tutto; un po’ come gli ipocondriaci, dei quali abbiamo recentemente parlato, questi afflitti di un genere un po’ particolare non desiderano consolazione, ma compatimento a tempo indeterminato, il che è una cosa completamente diversa.
La compassione è il sentimento che l’anima ben nata non può non provare davanti allo spettacolo del dolore, dell’infelicità, dello smarrimento di un’altra anima: è il sentimento che proviamo quando udiamo un gattino abbandonato miagolare nella notte, per la fame e per la paura; quando vediamo un passerotto caduta dal nido e incapace di volare, che si trascina, goffo e terrorizzato, quasi presago della fine imminente che lo aspetta; ma anche, ovviamente, quando c’imbattiamo in un uomo o in una donna soli e abbandonati, sofferenti nel corpo o nell’anima, privi di qualunque speranza e di qualunque umano sollievo.
Il compatimento è una cosa diversa: pur venendo dalla stessa radice, «patire insieme a qualcuno», nel compatimento vi è sempre una sfumatura di fastidio, se non di disprezzo, perché ci si trova in presenza di qualcuno che il dolore se lo è andato a cercare, di qualcuno che ha fatto di tutto per rendersi infelice; e dunque colui che cerca il compatimento degli altri è un individuo che ha smarrito il senso della propria dignità e del rispetto dovuto a se stesso.
Se, poi, qualcuno è alla perenne ricerca di un perenne compatimento, allora la cosa diventa fin troppo chiara: si tratta di un’anima che non ha alcuna intenzione di farsi aiutare, perché ciò implicherebbe un impegno per aiutarsi da sé o, quanto meno, una volontà di cambiare la propria situazione; ma il cui unico piacere consiste nel sentirsi dire quanto sia infelice, quanto sia sfortunata, quanto la vita sia stata ingiusta con lei, eccetera.
Consolare gli afflitti, dunque? Certamente, ma a patto che costoro vogliano essere davvero consolati e non semplicemente commiserati, ciò che non li aiuterebbe ad uscire dalle loro difficoltà, né a prendere coscienza della reale natura del loro problema.
Ogni difficoltà umana, infatti, presenta un duplice aspetto: esterno ed interno.
Quello esterno è in gran parte nelle mani di altre persone o di circostanze che non dipendono da noi, se non in minima parte: una moglie o un marito impossibili, dei figli o difficili o dei genitori latitanti, dei colleghi di lavoro sgradevoli e invidiosi: non è in nostro potere cambiare gli altri e non sempre è possibile cambiare lavoro o luogo di residenza, al massimo possiamo studiare delle strategie per ridurre l’impatto negativo che essi esercitano su di noi.
L’aspetto interno è quello in cui abbiamo la possibilità di agire in maniera radicale, non accontentandoci di compromessi o palliativi: perché si tratta di agire su noi stessi, e questo niente e nessuno possono impedircelo, se noi non lo vogliamo; ma è anche, a ben guardare, il più impegnativo, quello che richiede la più lunga e metodica preparazione.
Qui, infatti, non sono possibili scorciatoie, né si danno colpi di fortuna improvvisi: siamo a tu per tu con noi stessi, indipendentemente dal luogo in cui viviamo, dal lavoro che svolgiamo, dalle persone che ci circondano; non esistono scuse, non esistono giustificazioni di sorta, quel che riusciamo a fare di noi dipende solamente da noi stessi, tanto nel bene come nel male.
E la nostra nuda verità, non di rado, ci spaventa: vorremmo ritrarci, vorremmo guardare altrove: non abbiamo il coraggio di osservarci a lungo con spirito imparziale, con animo non giudicante, ma neppure troppo propenso alla facile assoluzione.
Torniamo sempre all’antichissima, fondamentale regola numero uno, quella da cui sono partiti tutti i veri filosofi: conosci te stesso.
Quanto male esiste nel mondo, per causa nostra; quanto male facciamo, a noi stessi e agli altri, per una radicale, colpevole ignoranza di noi medesimi.
È quasi incredibile il fatto che molti esseri umani inseguano forme elevate di sapere, riescano a distinguersi e persino ad eccellere nel campo della scienza, della ricerca, del pensiero, senza avere mai trovato il coraggio e l’onestà intellettuale necessari per guardarsi dentro, a lungo e senza trucchi né inganni; per guardarsi così come sono realmente.
Eppure, tutto parte da qui e tutto ritorna qui: la salute e la malattia; la verità e la menzogna; il bene e il male; il giusto e l’ingiusto; il dare e l’avere; la salvezza e la perdizione.
Una vita ben vissuta è quella di chi abbia saputo gettare uno sguardo chiarificatore dentro se stesso, spingendosi fino alle proprie più riposte profondità, riconoscendole, accettandole, elaborandole, trasportandole verso le regioni superiori del proprio palazzo interiore.
Non vi è compito più importante di questo, anche se molte sono le cose che ci paiano urgenti.