Perché bisognerebbe ri-pubblicizzare le Autostrade
di Paolo Cacciari - 17/06/2006
L’ operazione in corso di “vendita simulata” della concessione di 3.000 Km di sedimi autostradali, con tanto di infrastrutturazioni e utilyties incorporate, ad una società spagnola tramite “fusione per incorporazione” di Autostrade spa alla Abertis, mette a nudo la fallimentare operazione della privatizzazione avviata nel 1997 dai primi governi di centrosinistra.
Una vicenda vergognosa dagli esiti paradossali che lo stesso ministro Di Pietro nella audizione in Commissione alla Camera ha ironicamente definito di “indebito impoverimento” dello Stato italiano. Sono molti i fatti che le autorità pubbliche dovrebbero spiegare, a partire dalla svendita della concessione (che si aggiudicò il gruppo Benetton, ma ve ne sono altre 24 che per trasparenza ed efficienza sono gestite ancora peggio), cioè di un’opera pubblica realizzata dall’Iri a partire dagli anni ’50, già ampiamente ammortizzata e che avrebbe dovuto essere riconsegnata allo Stato alla scadenza contrattuale nel 2003. Invece le cose andarono diversamente: la concessione fu prorogata al 2038 e furono inserite clausole contrattuali che prevedono automatici aggiornamenti delle tariffe dei pedaggi tali da rendere sicuri gli introiti.
L’intento dichiarato era quello di far fare cassa “una tantum” alle finanze pubbliche ma, come spiega bene il preside di Economia dell’Università di Bari, Ernesto Longobardi: «L’operazione fu, nella sostanza, quella di imporre una tassa (agli automobilisti) e di vendere (a un privato) il diritto a riscuoterla». Tanto appetitosa e priva di rischio che ha comportato il balzo delle azioni di Autostrade spa da 7 a 24 euro dal ’99 al 2005 e la distribuzione ai fortunati azionisti e soci di maxidividendi da 5 miliardi di euro.
Non contenta, Autostrade non ha nemmeno rispettato gli impegni contrattuali omettendo di realizzare investimenti preventivati per quasi 2 miliardi di euro. Tanto che finalmente sono partite le lettere di contestazione formale del ministero all’Anas, la società pubblica che avrebbe dovuto funzionare da intermediazione e controllo sulle società concessionarie. C’è da chiedersi: se il caso non avesse voluto che gli spagnoli venissero in Italia a fare shopping di società autostradali, tanto da far scattare l’orgoglio nazionale per la perdita della sede sociale del gruppo, quando mai le nostre autorità di vigilanza avrebbero cominciato a fare il loro mestiere?
Siamo di fronte alla Caporetto del sistema delle concessioni autostradali e dell’ideologia delle privatizzazioni. E’ del tutto evidente che le autostrade costituiscono un bene-servizio monopolistico naturale. Nessuno è libero di scegliere quale autostrada percorrere. Non è possibile creare alcuna concorrenza tra beni o servizi unici. Affidare a privati la loro gestione significa regalare una rendita di posizione. Per “controllarla” servirebbero regole, autorità di vigilanza, controlli… costosi, mai efficaci e, soprattutto, assolutamente inutili, solo se la loro proprietà rientrasse in uno schema di regole pubbliciste. E’ tempo di fare un bilancio “laico” delle privatizzazioni.
E’ tempo di riproporre la ri-pubblicizzazione della proprietà di quei beni e di qui servizi che per ragioni di accessibilità universale garantita (quali l’acqua e l’energia) o per ragioni banalmente materiali, quali la scarsità e il posizionamento dei suoli, non potranno mai essere merce scambiabile in mercati davvero aperti e liberi. Se ne stanno accorgendo anche gli imprenditori veri. I balzelli che servono a realizzare i facili arricchimenti dei gruppi oligopolisti ricadono non solo sui cittadini, ma anche sulle imprese. L’ottimo Massimo Mucchetti sul Corriere Economia ci segnala che in Florida «la proprietà delle autostrade è pubblica e dunque non ci sono soci da remunerare e azioni da sostenere«e che in tutti gli Stati Uniti le «Public Authorities (vere aziende pubbliche di gestione dei beni comunali, statali, federali) sono un numero così grande che è difficile addirittura fare un censimento». Se l’obiettivo deve essere il servizio, non il profitto, è bene scegliere le forme di gestione davvero più efficienti e meno costose.