Relativismo culturale (Massimo Fini da Il ribelle)
di Massimo Fini - 17/06/2006
La nozione di relativismo culturale, che viene spesso confusa con quella di relativismo morale, con la quale si apparenta ma non coincide (vedi Ratzinger ), si fa risalire all'antropologia culturale e in particolare alla speculazione di Claude Lévi-Strauss, singolare figura di filosofo, antropologo, linguista, strutturalista, attivo dagli anni Quaranta fin quasi ai nostri giorni. Ma in realtà, oltre ad avere dei precursori, sia pur occasionali e non sistematici, in alcuni autori del XVI, XVII e XVIII secolo, da Montaigne a Voltaíre, le sue fondamenta più direttamente filosofiche si trovano in Nietzsche quando il pensatore tedesco, agli albori di quella che viene chiamata «la cultura della crisi» (crisi del positivismo ottocentesco, del pensiero occidentale e delle sue certezze), avverte, poi seguito dall'empiriocriticismo di Mach e Avenarius, che non esiste la realtà ma solo le sue interpretazioni. Tesi confermata di recente anche da una scienza «esatta» come la fisica che ha dovuto ammettere che non ci sono certezze assolute né verità oggettive, ma che la conoscenza di ogni fenomeno dipende dal punto di vista dell'osservatore. Oswald Spengler, che forse troppo sbrigativamente Thomas Mann ha liquidato come «la scimmia astuta di Nietzsche», è stato il primo a trasferire questa concezione in campo sociale, politico ed etico affermando che tutti i principi morali e religiosi e tutti i valori hanno un significato solo nell'ambito e per la durata della civiltà che li ha elaborati e professati. L'apporto di Lévi-Strauss sta nell'aver considerato ogni cultura come un sistema, con le sue compensazioni interne e i suoi contrappesi, un insieme di elementi logicamente coerenti e strettamente collegati fra loro per cui una qualsiasi modificazione di uno di essi comporta una modificazione di tutti gli altri. Ne consegue che non si può estrapolare o cancellare dalle culture «altre» gli aspetti che non ci piacciono – che è la pretesa omologante che domina oggi in Occidente – senza modificare profondamente tutto il sistema e, quasi sempre, farne crollare l'intera impalcatura. E questo è esattamente il motivo per cui ogni intrusione occidentale nelle società del Terzo Mondo e in quelle ancor più arcaiche e «primitive», anche la più onestamente filantropica (vedi Azande ), per non parlare delle altre, ha portato sconquassi inenarrabili, creato ibridi incoerenti e mostruosi e distrutto, di fatto, quelle società, quelle culture e quelle civiltà. Ma Lévi-Strauss, e con lui tutta l'antropologia moderna, a partire dai fondamentali studi di Franz Boas, rifiuta anche quella forma dello storicismo che è l' evoluzionismo, secondo il quale le società, partendo dal semplice (o dall'apparentemente semplice) e andando verso il sempre più complesso, tenderebbero a un unico fine e a un unico modello al cui culmine c'è, naturalmente, il modello di sviluppo occidentale quale è oggi. A parte il fatto che all'osservazione antropologica le civiltà cosiddette «primitive» dimostrano una straordinaria raffinatezza psicologica, una notevole complessità nell'organizzazione sociale (per esempio in tutto il complicato sistema dei rapporti di parentela e di scambio esogamico), ricchezza culturale (l'elaborazione dei miti, delle leggende e di cosmogonie che non hanno nulla da invidiare, anzi, a quelle di religioni ritenute più evolute) e, soprattutto, una capacità di comprensione intuitiva, immediata, diretta della realtà, scomparsa nel nostro mondo, la questione di fondo è tuttavia un'altra: è assurdo fare di una società «uno stadio dello sviluppo di un'altra società». Si tratta semplicemente di società diverse, che partono da presupposti diversi, ognuna delle quali sviluppa soltanto alcune delle potenzialità, e non altre, presenti nella natura umana. Quelle cosiddette tradizionali sono tendenzialmente statiche e privilegiano l'equilibrio e l'armonia a scapito dell'efficienza economica e tecnologica. Invece le «società calde», come le definisce Lévi-Strauss, a cui la nostra appartiene, sono dinamiche e scelgono l'efficienza e lo sviluppo economico a danno però dell'equilibrio, dato che «producono entropia, disordine, conflitti sociali e lotte politiche, tutte cose contro le quali... i primitivi si premuniscono e forse in modo più cosciente e sistematico di quanto non supponiamo». Non esistono quindi «culture inferiori» e «culture superiori». Ci vuole una bella dose di egocentrismo e di ingenuità, scrive Lévi-Strauss, per credere che il proprio modo di vivere e di pensare sia il solo «umano» e che tutto ciò che ne sta al di fuori sia «barbarie». E aggiunge: «Il barbaro è innanzitutto l'uomo che crede nella barbarie». La società occidentale non è barbara o più barbara di altre – a meno di non voler fare del razzismo al contrario e dell'evoluzionismo negativo – ma oggi è piena zeppa di «barbari», di uomini e donne che fan parte di quella vastissima e cupa compagnia cantante la superiorità della nostra cultura e del nostro modello di sviluppo, gente con la verità in tasca che crede seriamente e fermamente che il proprio punto di vista sia l'unico possibile, valido e accettabile e non è in grado di comprendere e nemmeno di concepire tutto ciò che è «altro da sé». Eppure non dovrebbe essere poi così difficile da capire se, prima di Nietzsche, prima di Mach, prima di Avenarius, prima di Boas, prima di Lévi-Strauss e prima della fisica moderna, già Montaigne (1533-1592), all'epoca delle grandi esplorazioni transoceaniche e della scoperta dei «selvaggi», scriveva nei suoi Saggi, in un famoso capitolo intitolato I cannibali: «Ognuno chiama barbarie quello che non è nei suoi usi. Sembra infatti che noi non abbiamo altro punto di riferimento per la verità e la ragione che l'esempio e l'idea delle opinioni e degli usi del Paese in cui siamo. Ivi è sempre la perfetta religione, il perfetto governo, l'uso perfetto e compiuto di ogni cosa. Essi sono selvaggi nello stesso modo che chiamiamo selvatici i frutti che la natura ha prodotto da sé nel suo naturale sviluppo; laddove in verità sono quelli che col nostro artificio abbiamo alterati e distorti dall'ordine generale che dovremmo piuttosto chiamare selvatici». E in ogni caso i filosofi e i pensatori europei, in quel tempo di scoperte e di conquiste, si posero perlomeno il problema di come rapportarsi alle culture «diverse» e «altre», estranee alla storia della civiltà mediterranea, in un dibattito intenso e appassionato che da Montaigne in poi è andato avanti per due secoli, fino a quando l' Illuminismo assolutizzando la Ragione ha assolutizzato anche se stesso e il nostro mondo facendone l'unico punto di riferimento, «il migliore dei mondi possibili». Oggi, com'è noto, rimossa la «cultura della crisi», come si rimuove un incubo che si preferirebbe non aver mai sognato, dimenticato Lévi-Strauss (considerato un mezzo eretico dall'ortodossia marxista arrogantemente egemone per quasi tutta la seconda metà del Novecento), e ignorando persino le conclusioni della scienza, che pur è uno dei pilastri del nostro mondo, la cultura largamente dominante in Occidente (soprattutto fra le élite politiche e intellettuali che hanno diritto di parola e accesso ai mass media, molto meno fra le popolazioni dove aleggiano da tempo, sia pur sottotraccia e senza la possibilità di esprimersi pubblicamente, i dubbi più angosciosi) è quella del più ottuso e cieco evoluzionismo, espresso emblematicamente da Francis Fukuyama – e dagli innumerevoli Fukuyama – secondo cui esisterebbe una Storia universale dell'umanità valida per tutte le civiltà, per tutte le culture, per tutti i popoli del mondo che sarebbero inevitabilmente e inesorabilmente condotti dalla ferrea logica di un disegno finalistico, deciso non si sa bene da chi, immanente e insieme trascendente (una sorta di ircocervo, un animale mostruoso e inesistente), verso «la Terra Promessa della Democrazia», della «diffusione di una cultura generale del consumo», del «capitalismo su base tecnologica». Cioè verso il modo di vita, economico, sociale, istituzionale, etico, e gli schemi mentali dell'Occidente. Per il «relativista culturale» non esistono invece né sistemi, né morali, né religioni, né principi universali. Naturalmente, poiché non siamo fatti di ghiaccio, ma di sangue, di carne, di sensazioni, di emozioni e non osserviamo la realtà con la freddezza dell'entomologo e della sua lente, ma viviamo in società concrete, anche il «relativista» ha le sue preferenze, ma è consapevole che sono semplicemente le sue, non una verità oggettiva valida anche per gli altri o addirittura per tutti. Per quanto mi riguarda, se l'aspirazione dell'essere umano è di raggiungere non dico la felicità, parola proibita che gli americani hanno avuto l'imprudenza di includere nella loro Dichiarazione di Indipendenza, ma una certa serenità, mi pare più astuta, quantomeno dal punto di vista psicologico e della tenuta nervosa, una società che ricerca l'equilibrio in ciò che c'è già e dove ci si accontenta di quello che si ha, piuttosto di una come la nostra dove, come dico nel mio Cyrano, se vi pare..., tutto il meccanismo economico e produttivo e l'intero sistema spingono, con una coerenza ferrea e quasi omicida, «all'inseguimento inesausto di un futuro orgiastico, che pare sempre lì lì per essere colto, e che invece arretra costantemente davanti ai nostri occhi con la stessa inesorabilità dell'orizzonte davanti a chi abbia la pretesa di raggiungerlo», provocando così nell'individuo, nell'uomo concreto che questa società deve viverla, frustrazione, angoscia, anomia, nevrosi, depressione e, soprattutto, una formidabile perdita di senso (vedi Globalizzazione/Modello paranoico ). Se non esiste una morale universale, né tantomeno la certezza di un Dio, ciò significa che il «relativista» è necessariamente un amorale o, peggio, un immorale come sembra pensare Papa Ratzinger, confondendo peraltro il relativismo culturale col relativismo morale? Per nulla. Il fatto che rispetti i valori di culture diverse dalla sua, anche quando gli paiono aberranti, e finché rimangono all'interno di quelle culture e non pretendono di prevaricarne altre, non vuol dire che non ne abbia dei propri. Possono essere quelli dominanti nella società cui appartiene oppure, se questi valori non lo convincono, non lo riguardano, non sono i suoi, li sente eterodiretti o ipocriti o fasulli, si apre allora per lui la strada tracciata da Nietzsche in Al di là del bene e del male: si creerà da sé la propria tavola di valori. Ma questa posizione lungi dall'essere un cinico disimpegno o un'autorizzazione a fare ciò che più ci pare e piace è, al contrario, una tremenda e prometeica assunzione di responsabilità. Perché costui — e non la famiglia, la società, i vicini, le cattive compagnie o «n'imporre que» — è individualmente e totalmente responsabile dei propri atti e se ne assume tutte le conseguenze davanti alla comunità in cui vive, senza esitazioni, senza piagnucolamenti, senza autocommiserazioni e autogiustificazioni. Senza scuse. Senza sconti, perché quello che ha assunto è un impegno con se stesso e verso se stesso. Questo tipo d'uomo è il Ribelle. In tale ottica anche un criminale può essere un uomo morale, se rimane fedele ai codici che si è dato. Immorali sono invece quei bonshommes, quelle brave persone, quei puri gigli di campo che affettano pubblicamente di onorare i valori comuni alla loro società (magari considerandoli "universali"), cui sono soliti obbligare gli altri, scandalizzandosi e indignandosi se non lo fanno, e che poi li tradiscono quotidianamente sottobanco. Sono gli uomini dalla «doppia morale», una pubblica, buona per i gonzi che ci vogliono credere o per coloro che, senza essere gonzi, per un intimo sentimento di lealtà nei confronti dei propri concittadini, non intendevano violarla (vedi Poker ), e una tacita, nascosta, e del tutto contraria, valida solo per loro e i loro simili che, sentendosi straordinariamente intelligenti, han capito, o credono di aver capito, come vanno le cose del mondo. Sono quel fior fiore della società che Sartre, nella Nausea, facendo visitare al suo protagonista, Antonio Roquentin, il museo di Bouville, dove sono raccolti i ritratti degli uomini più rispettabili e commendevoli della città, alla fine di un lungo e memorabile capitolo, definisce con una sola parola: «Sporcaccioni». Di questi uomini sleali, di queste femmine della morale, è piena la nostra società complessa dove i comportamenti degli individui sono difficilmente controllabili e verificabili e altrettanto facilmente mistificabili e che ha quindi completamente perduto alcuni valori, relativi anch'essi, naturalmente, ma indispensabili per poter vivere insieme, che erano invece fondamentali non solo fra i popoli «primitivi» (per i quali l'onta massima è «perdere la faccia»), ma anche presso ogni comunità ristretta, di ridotte dimensioni, semplice, come il villaggio preindustriale e premoderno, dove ognuno conosceva tutti ed era da tutti conosciuto e barare al gioco della vita era impossibile o molto difficile. Questi valori si possono riassumere in uno solo. Si chiama dignità. Quel che si è detto per gli individui vale anche per le società e i regimi. Tutti i sistemi di governo, oltre che relativi, sono illegittimi (sono solo, quando lo sono, legali, che è cosa diversa), perché poggiano su un punto di partenza necessariamente arbitrario, ma possono essere più o meno tollerabili a seconda che, come l'individuo singolo, rispettino le premesse e i postulati su cui si sostengono o dicono di farlo. Se, sottobanco, stravolgono o addirittura capovolgono queste premesse e questi postulati, allora siamo alla frode in grande stile. E questa è la storia della democrazia moderna, rappresentativa, della «democrazia reale» e, insomma, della democrazia che oggi governa in Occidente in attesa di imporsi definitivamente anche nel resto del vasto mondo.