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Nel bene o nel male, è nel volto dell’altro che noi ci rispecchiamo

di Francesco Lamendola - 06/09/2011


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Gli altri non sono l’inferno, come diceva Jean-Paul Sartre, ma un elemento assolutamente essenziale del nostro stesso io e della nostra stessa consapevolezza: perché è nei loro volti che possiamo vedere, più o meno fedelmente riprodotta, giorno dopo giorno, l’immagine del nostro stesso volto.
Noi ci specchiamo nel volto di coloro che ci stanno intorno: quelli che ci vogliono bene e quelli che ci vogliono male; ciascuno ci rimanda, alla sua maniera, qualche cosa della nostra immagine e, di conseguenza, ciascuno contribuisce a far sì che noi pensiamo di noi quel che pensiamo, che diventiamo quello che effettivamente siamo.
Se frequentiamo persone che non ci amano, che mal ci sopportano, che non credono in noi, quel che vediamo nei loro volti è la nostra immagine miseramente intorbidata, offuscata, deformata: la nostra parte peggiore, quella che tiriamo fuori quando siamo più stanchi, o più delusi o più amareggiati, insomma quando noi stessi non ci vogliamo più bene.
Nello sguardo dell’altro noi possiamo vedere quel che egli pensa di noi, quel che sente per noi: è uno specchio, ma uno specchio magico, che ci restituisce i nostri lineamenti ingentiliti oppure imbruttiti, a seconda di come egli ci vede.
Ecco perché è tanto importante sforzarsi di essere sempre positivi e, al tempo stesso, frequentare il più possibile coloro che ci vogliono bene, che hanno stima e affetto nei nostri confronti; e stare invece alla larga, per quanto dipende da noi, da quanti nutrono scarsa considerazione o, addirittura, rancore nei nostri confronti.
Nei volti delle altre persone noi riconosciamo i loro sentimenti verso di noi ed è evidente che ciascun essere umano, per stare bene, dovrebbe fare in modo di specchiarsi il più possibile nei volti delle persone amiche, che gli rimanderanno la sua immagine migliore, quella in cui si potrà riconoscere più volentieri e che maggiormente lo gratificherà.
In ciascuno di noi esiste il bisogno di pensare bene di noi stessi, di andare fieri di noi stessi e di volerci bene: ma questo è possibile solo a condizione che, nei volti e negli sguardi degli altri, noi scorgiamo il riflesso e la conferma di quel giudizio positivo, con una immediatezza e con una evidenza che non mentono.
Certo, noi non dovremmo far dipende interamente la nostra immagine di noi stessi dal giudizio altrui; ma è pur vero che, nella nostra umana fragilità, abbiamo bisogno di conferme: abbiamo bisogno di sentirci stimati, amati e desiderati.
Nessun uomo è un’isola e l’ambiente in cui viviamo non è neutrale o privo di significato per la nostra vita.
Lo sguardo dell’altro non è mai indifferente, nemmeno quello di un semplice sconosciuto o di una semplice sconosciuta: immediatamente vi possiamo scorgere e riconoscere un lampo di simpatia, interessamento e ammirazione; oppure una sfumatura di indifferenza, di scarso apprezzamento, magari di avversione istintiva.
A maggior ragione, non ci è indifferente lo sguardo di coloro con i quali trascorriamo buona parte della nostra vita: i nostri familiari, i nostri colleghi di lavoro, i nostri amici.
L’immagine che noi ci siamo costruita di noi stessi è, in buona misura, la somma delle immagini che di noi possiedono le persone che vivono a contatto con noi, e di cui noi operiamo istintivamente una specie di sintesi.
Prendiamo il caso di una persona buona, onesta, leale, che si trovi, però, a dover vivere fra individui di tutt’altro livello morale: può succedere in un caso di convivenza forzata, una prigione, un collegio, una caserma; oppure può accadere nella sua stessa famiglia: una moglie o un marito superficiali, egoisti, prepotenti, dei figli insensibili e altrettanto egoisti; sono situazioni che accadono e sono, anzi, più frequenti di quel che non si creda.
Ebbene: quella persona, nei volti e negli sguardi degli altri, vedrà riflessa costantemente una immagine deformata e immiserita di se stessa; non vi scorgerà il riflesso delle proprie qualità, ma solo di ciò che, allo sguardo di simili vicini, appare come un insieme di difetti; non qualcosa di cui essere soddisfatta di sé, ma, semmai, qualcosa di cui vergognarsi.
Lo sguardo altrui non è sempre limpido, così come non sempre limpido è il nostro: eppure esso funziona come uno specchio, uno specchio, però, che ci rimanda delle immagini distorte e contraffatte, quanto meno esso è terso e trasparente.
E anche una persona che, in fondo a se stessa, sappia di valere, se si vede continuamente riflessa nello sguardo deformante degli altri, finisce per dubitare di sé, per sentirsi inadeguata, per disamorarsi di se stessa.
Il megalomane, all’opposto, è colui che possiede un’altissima idea di se stesso e non sa leggere lo sguardo degli altri, non sa riconoscervi la disapprovazione e il disgusto che egli suscita nel prossimo, perché, qualunque cosa egli guardi, gli fa velo l’opacità del proprio stesso sguardo, i depositi e i sedimenti che lo intorbidano irrimediabilmente.
Il tiranno, a sua volta, è colui che ha bisogno di specchiarsi in sguardi carichi di ammirazione, e, pur di riuscirvi, è disposto a minacciare o corrompere tutti i suoi collaboratori, affinché essi simulino quello sguardo ammirato che è per lui come una dose di droga quotidiana, senza la quale non potrebbe andare avanti.
Anche un vecchio danaroso che mantenga nel lusso una giovane e spregiudicata amante fa ricorso ad un simile espediente: esaudendo ogni suo capriccio e ricoprendola di ori e di gioielli, egli fa in modo che lei lo guardi con ammirazione e con trasporto, anche se, in qualche parte della sua coscienza, sa benissimo che si tratta di uno sguardo mercenario e che quella luce incantevole che vi brilla si spegnerà immediatamente, non appena venissero meno i regali.
La persona di animo retto, viceversa, non solleciterà mai sguardi insinceri e interessati, anche perché non farà mai nulla per apparire diversa e migliore da ciò che sa di essere; e tuttavia anch’essa, come chiunque, avrebbe bisogno di incontrare, negli occhi dell’altro, una grata immagine di sé e soffre, come chiunque altro, se ciò non avviene.
È utile e opportuno, pertanto, che noi cerchiamo di frequentare persone buone e amiche, nei cui sguardi possiamo scorgere il riflesso della nostra parte migliore, perché questo ci dà la possibilità di perdonarci per i nostri difetti, di volerci bene e di metterci in pace con noi stessi; e, inoltre, perché ci aiuta a ricaricare le batterie, quando la nostra energia si va esaurendo e la stanchezza morale ci minaccia, con tutte le sue possibili conseguenze.
Quante persone scivolano inesorabilmente verso la disistima di sé e perfino verso il pozzo oscuro della depressione, per non aver potuto ricostituire le energie che spendono con generosità ed altruismo; e ciò, a sua volta, per la mancanza di persone amiche e benevole, nei cui sguardi affettuosi esse avrebbero potuto specchiarsi e confortarsi!
Una legge fondamentale della vita è che noi non possiamo dare più di quello che abbiamo; ma è altrettanto vero che noi possiamo attingere a risorse incredibili di energia, se solo riusciamo a trovare il nostro equilibrio e a ricollegarci con la Fonte di ogni energia e di ogni pensiero positivo: la sorgente dell’Essere.
L’Essere, però, noi non possiamo vederlo; possiamo, tutt’al più, averne una qualche percezione nei momenti privilegiati della vita dell’anima, come la preghiera o la meditazione; per il resto, possiamo scorgerne un labile riflesso nel volto delle persone sagge e buone che, talvolta, ci è dato incontrare nel corso della nostra vita, e la cui presenza istintivamente andiamo cercando, come il viandante stanco e assetato che cerca dell’acqua per dissetarsi, lungo il cammino nella polvere e nell’afa della pianura.
In fondo, si tratta di una verità abbastanza semplice, per non dire elementare: per stare bene con noi stessi, noi abbiamo bisogno di stare in mezzo a delle persone che ci vogliano bene; per poterci perdonare e amare, in mezzo a persone che ci perdonino e ci amino.
Questa, almeno, è la regola per le persone comuni: perché gli illuminati sono giunti da sé ad un tale punto di equilibrio, pace e benessere, che non solo non hanno bisogno dell’altrui benevolenza, ma sono pronti a ricambiare l’altrui malevolenza con pensieri, parole e gesti di benedizione; al punto che perfino le creature non umane percepiscono l’aura di beatitudine che avvolge questi esseri eccezionali e ne restano soggiogati.
Nell’attesa di avvicinarci a quei sublimi livelli di chiarificazione interiore e di piena consapevolezza di sé e del mondo, noi comuni mortali accontentiamoci di favorire tutte quelle strategie che possono consentirci di ricaricare le energie in via di esaurimento e di rafforzare l’immagine positiva di noi stessi, della quale abbiamo bisogno per procedere con passo più energico e sicuro in mezzo alle difficoltà della vita.
Si tratta di una ecologia della mente, dei sentimenti e delle emozioni: un abito esistenziale che dovremmo adottare quotidianamente, se davvero desideriamo avere cura di noi stessi e, di riflesso, se vogliamo prenderci cura delle persone alle quali vogliamo bene.
Non si può vivere in mezzo a pensieri, sentimenti ed emozioni negativi, senza subirne, impercettibilmente ma inevitabilmente, le conseguenze.
La nostra anima è come una spugna che assorbe tutto, il bene come il male; sta alla nostra intelligenza e alla nostra volontà svolgere la funzione di filtro e impedire che gli elementi più dannosi ed esiziali possano arrivare fino alle profondità del nostro essere, inquinandole in maniera forse irreparabile.
Dobbiamo stare lontani, per quanto ci è possibile, dalle persone negative, invidiose, malevole; quelle, per intenderci, che sono pronte a fraintendere anche un gesto disinteressato, una parola altruista, un impulso generoso: dai loro sguardi e dai loro volti non potremmo che ricevere una immagine imbruttita di noi stessi, perché esse vedono gli altri come vedono se stesse: malfidenti, interessati, opportunisti.
Nello stesso tempo, dobbiamo incessantemente lavorare su noi stessi e rendere la nostra facoltà visiva interiore sempre più tersa e trasparente, sia riguardo a noi medesimi, sia nei confronti degli altri.
Se il nostro occhio diventa limpido, non solo saprà giudicare secondo verità e giustizia i nostri impulsi, i nostri pensieri, le nostre aspirazioni; esso saprà riconoscere senza errore anche gli impulsi, i pensieri e le aspirazioni dell’altro: e l’altro si specchierà nei nostri occhi secondo verità e giustizia.
L’immagine che di noi stessi ci rimanda lo sguardo altrui, infatti, è simmetrica e speculare all’immagine altrui che viene rimandata dal nostro stesso sguardo: si pensi all’incantevole gioco di riflessi che vi è in certi capolavori dell’arte raffiguranti la Madonna che tiene in braccio il divino Fanciullo e lo contempla amorosamente, ricevendone, a sua volta, tutta la luce e tutto il calore di cui uno sguardo è suscettibile.
Ed ecco che, ancora una volta, siamo tornati al fondamentale punto di partenza sulla vita dell’anima: al conosci te stesso, senza il quale non si dà vita autentica dell’anima, ma solo un confuso e inconsapevole vagare a tentoni qua e là, andando a sbattere contro infiniti ostacoli e senza mai imparare alcunché.
Chi lavora su stesso al fine di imparare a conoscersi, poco a poco sviluppa la seconda vista e, con essa, la limpidezza e la trasparenza dello sguardo, che gli permetteranno di giudicare secondo verità e giustizia i movimenti della propria anima e quelli dell’anima altrui.
Chi, invece, non sa o non vuole rendere limpido il proprio sguardo, continuerà a specchiarsi in una mediocre immagine di sé e a reiterare, soffrendo inutilmente, sempre le stesse dinamiche e sempre i medesimi errori: esattamente come fa la mosca che continua a sbattere contro i vetri della finestra chiusa, disperatamente, ossessivamente.
Ora, noi siamo qui con un compito ben preciso: che non è quello di addormentare la nostra anima, indulgendo in ogni sorta di mollezze, ma di realizzare la nostra parte migliore, che geme come la madre nelle doglie del parto.