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“Zorba il greco” e “L’italiano di Tangeri”

di Mario Grossi - 06/09/2011


Proprio in questi giorni, quando la calura si fa più intensa, in coda a un’estate piuttosto fresca, una duplice lettura può alleviare le pene di quei meteoropatici che soffrono il caldo.

Un ottimo antidoto a tutti quei pensieri pesanti e mortiferi che si scatenano nella testa depressa dei tartassati dai demoni meridiani, che attendono una stagione più sopportabile per cancellare quei pensieri di imminente catastrofe che aleggia sulle loro teste pronta ad esplodere.

I due libri in questioni sono una vecchia conoscenza che ritorna in libreria dopo anni di oblio il primo e un testo postumo, pubblicato nell’aprile scorso, il secondo.

Sto parlando di Zorba il greco di Kazantzakis, edito da Crocetti, e de L’Italiano di Tangeri di Carlo Mazzantini, edito da Marsilio.

Due romanzi molto distanti tra loro che alla fine, pur nella loro diversità, finiscono per assomigliarsi.

Leggendoli uno di fila all’altro queste somiglianze si accentuano e tendono a evidenziarsi tanto che, alla fine, prevalgono sulle diversità.

Zorba il greco credo non abbia bisogno di presentazioni, vista la fama che l’ha accompagnato nel passato, anche grazie a un fortunato film diretto da Cacoyannis, interpretato da un Anthony Quinn in stato di grazia ed impreziosito dalle musiche di uno dei mostri sacri della musica greca Mikis Theodorakis.

Lo spunto alla rilettura viene dalla prima edizione con traduzione in italiano che Nicola Crocetti ha curato personalmente. La precedente e unica edizione italiana veniva da una traduzione dall’inglese

La storia nella sua trama è semplice, scarna, lineare. L’io narrante, un giovane intellettuale cosmopolita, in cui si vede facilmente in tralice lo stesso autore, torna nella natia Creta, dopo aver affittato una miniera di lignite che vuole provare, almeno temporaneamente, a sfruttare.

Per farsi aiutare in questa impresa, assolda Alexis Zorba, greco macedone che guiderà la squadra di operai addetti alla miniera.

Il romanzo è tutto imperniato sulla figura di questo quasi settantenne eroe picaresco, dal cuore grande ma facile a ire violente e passeggere. Avventuriero, venditore ambulante, filosofo, imbroglione, donnaiolo, gran bevitore e amante della cucina.

La scena è tutta incentrata su di lui. L’io narrante è un occhio scrutatore esterno, oppresso da un mondo tutto di carta, di studi, di finzione intellettuale che cerca disperatamente della linfa vitale da suggere all’uragano Zorba che rappresenta, nel suo analfabetismo, una sorta di rovescio cui riferirsi.

Tutto il romanzo sembra quasi un rito d’iniziazione, del giovane e riluttante intellettuale, a una vita più genuina, non inquinata da sovrastrutture, frutto delle letture e degli studi.

Una vita che in apparenza può apparire semplice, a tratti brutale e rozza ma che trionfa nella sua animalità diretta da una filosofia di fondo che si racchiudere nel vivere stesso.

Quando Zorba lavora, si fa lavoro, non pensa ad altro, nulla per lui vale niente se non il lavoro stesso. Così quando è intento a mangiare o a bere o a sedurre una donna. Una cosa alla volta, mettendoci tutto l’entusiasmo e la forza di cui si è capaci, non pensando a domani o a qualcos’altro.

È questa filosofia vitalistica di Zorba che lentamente fa breccia nel cuore, più che nella testa, del giovane intellettuale. Zorba non sa spiegare un mucchio di cose, così, quando le parole non lo sostengono, balla e invita il giovane a fare lo stesso.

Liberarsi dell’apollineo, tuffarsi nel dionisiaco. Non c’è altra strada per esaltare la vita così come ci viene proposta. A nulla importa che alla fine saremo sconfitti, ci toccherà invecchiare, passare la mano, morire.

Per Zorba l’unico modo per affrontare questa tragedia che è la vita è viverla, così come succede, ora, adesso, come se non esistesse un domani. Anzi proprio perché domani esisterà solo quando si sarà fatto oggi.

Il contorno, che si amalgama pienamente con questo personaggio e che gli calza come un guanto, l’isola di Creta, con le sue terre brulle, con le sue capre, i suoi piccoli paesi popolati da gente che, con la stessa energia e desiderio, affronta senza paure posticce le insidie che il vivere comporta. Su tutto, il caldo torrido del sole, lo scintillante mar libico, i profumi aromatici delle erbe arrostite dal sole e cotte in quella fornace di ribollente umanità. Una grande speranza, un’esplosione quasi erotica di tutti i sensi che alla fine, anche se per un breve attimo, avranno il sopravvento sull’algido intelletto del giovane che se ne farà ammaliare, curandosi temporaneamente dai tutti i suoi mali prosciuganti che lo imbalsamo in una vita artefatta, distante, ingessata, cerebrale, liberandolo infine da quel peso.

L’Italiano di Tangeri è l’ultimo romanzo, postumo, di Carlo Mazzantini che altrettanto non ha bisogno di presentazione alcuna, visto che si è fatto conoscere al pubblico per una trilogia sulla sua esperienza di giovane repubblichino scrivendo A cercar la bella morte, I balilla andarono a Salò e L’ultimo repubblichino.

La storia che sottende tutta la narrazione è altrettanto semplice e scarna di quella di Zorba, ravvisandone la prima affinità, quasi un complemento al denso condensarsi di umori nelle pagine.

Claudio, il protagonista e io narrante è lo stesso Mazzantini (seconda affinità con Zorba), che, conclusa la sua esperienza nella guerra che lo ha visto orgoglioso sconfitto dalla parte dei reprobi, si ritrova reietto esule a Parigi, dove conosce quella che poi sarà la sua compagna di tutta la vita, la pittrice irlandese Oona che lo segue prima in Spagna, in un’Andalusia moresca e mitologica che avvolge la giovane coppia in un sogno d’amore, solitudine, rapimento, fino a che non viene espulsa dal suolo iberico, ormai sotto la cappa franchista, verso il Marocco, trovando riparo a Tangeri.

Città simbolo carica di fascino, puzza e mistero, ultima spiaggia dove si sono andati ad arenare tutti i relitti di un’Europa che, uscita dalla guerra, vuole rialzarsi senza la presenza ingombrante di tante canaglie.

La vita di Claudio è tutta immersa in questa realtà in cui recitano un professore italiano che finge cinismo nel suo sarcasmo che maschera una personalità poliedrica, un ex-ufficiale della marina militare tedesca che, dopo aver perso moglie e figli in uno degli innumerevoli bombardamenti alleati, trova conforto in quella città cosmopolita, accogliente e brulicante di vita, un nobile russo della Guardia Bianca padrone di un hotel dove Claudio troverà lavoro prima di impiegarsi come insegnate presso il liceo italiano, una ballerina sinuosa e sensuale di cui s’innamorerà, una combriccola di fuorusciti anarchici impossibilitati a rientrare in patria perché inseguiti da ordini di cattura vari e da una selva di comprimari marocchini che condiscono il resto.

Su tutto anche qui domina (terza affinità con Zorba) il sole infuocato del Marocco, lo scintillante colore del mare, gli odori, i colori, gli umori di un mondo a se stante, alle prese con la vita e con la sopravvivenza di ogni giorno. Il ritorno alla vita di Claudio è prepotente, anche se venato di tanto in tanto di tinte malinconiche. È una rinascita dalle macerie della guerra, un ritrovarsi gioioso, anche se carico di problemi e responsabilità, di nuovo nel flusso incontenibile della vita che si presenta, anche qui, così come viene, piena di tutte le angosce dell’oggi e delle sue bellezze.

Tutto è un progressivo trionfo di descrizioni di piccole cose, le battute di pesca, le chiacchiere dei caffè, la sensualità delle ballerine, le bevute, la ricostruzione di un piccolo veliero che riprende vita, metaforicamente, nello stesso modo in cui le ossa di Claudio e la sua coscienza rattoppata riprendono respiro.

È un vortice di tutti i sensi che trascina, e per certi versi sostiene quasi inconsapevolmente, i protagonisti e i comprimari di questo lungo racconto di sentimenti che ci restituisce, come credo abbia restituito all’autore, quella voglia di vivere nonostante tutto, quella felicità al di là delle difficoltà del momento, quel desiderio tenace di rimanere attaccati alla terra che ne costituisce lo splendore.

La vittoria del dionisiaco (quarta affinità con Zorba) che erompe con gentilezza, senza eccessi esasperati, completamente scevro da quelle pulsioni autodistruttive che talvolta fanno da contrappunto al vitalismo di tanti epigoni che l’hanno frainteso.

Un romanzo solare (quinta affinità con Zorba), dominato dalla potenza disseccante dell’astro luminoso che spadroneggia su tutto, donando però la vita. Il mare, la sponda sud del Mediterraneo, tutti i sensi che ne vengono esaltati diventano, come in Zorba, il brodo primordiale cui fare ritorno per rigenerarsi. Primordiale, brutale, rozzo, animalesco se volete ma fonte di tutte le energie che si sprigionano dalla terra, con una forza tellurica e primigenia necessaria per irrorare di nuovo sangue le flaccide carni smorte di tutti i freddi adoratori dell’algido pensiero razionale, in uno stordente turbinio rigeneratore.

I due romanzi ci rimandano infine alla potenza della definizione del Mediterraneo come Mare Nostrum. Una culla e un liquido amniotico unico per affrontare i gelidi venti del Nord che soffieranno incessanti con l’arrivo dell’inverno.

Prima che sia troppo tardi, leggeteli, fate un carico di vitalità e calore che vi permetterà di passare indenni per tutti i demoni tiranni che il freddo e le piogge si porteranno con sé in un autunno che si preannuncia, soprattutto per noi, carico di angosce.