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Il «passaggio» dell’India: da giardino del sacro a laboratorio della tecnica

di Stenio Solinas - 07/09/2011

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Paese a due dimensioni, l’India moderna si porta sulle spalle il fardello dell’India eterna senza sapere però cosa farne, un peso di cui vergognarsi, più che un peso di cui farsi carico. A un passo dall’essere ormai la terza economia del mondo, con una classe media di 300 milioni di persone e una crescita economica annua del 6 per cento, resta comunque una nazione con enormi problemi: lavoro minorile, analfabetismo, malnutrizione, sfruttamento sul lavoro, malattie...
Democrazia per eccellenza, a partire dalla sua indipendenza nel 1947, da un ventennio a questa parte i partiti storici che la tennero a battesimo sopravvivono al governo solo in virtù di alleanze sempre più vaste, sempre più eterogenee, sempre più instabili: attori, malfattori e giocatori di cricket fanno i deputati, i governatori o i ministri, nella Lock Sabha e nella Rajya Sabha, rispettivamente il Parlamento e il Senato federale, c’è un’altissima percentuale di inquisiti per reati che vanno dalla corruzione al ricatto, dal sequestro di persona all'omicidio…
Che cosa tutto ciò comporti dal punto di vista religioso e di costume è il tema di Nove vite (Adelphi, 367 pagine, 24 euro), l’ultimo bellissimo saggio di William Dalrymple, scrittore e viaggiatore inglese (Dalla montagna sacra, Il Milione, Nella terra dei Moghul bianchi alcuni dei suoi titoli tradotti in italiano), talmente appassionato di questo Paese da averne fatto la sua nuova patria.
Ancora negli anni Settanta e Ottanta, per molti europei e americani il «passaggio in India» nacque su basi anarchico-sessuali, l’idea che lì ci fosse quella liberazione dei corpi e delle anime che in patria, a loro dire, gli era negata. Le conseguenze furono spesso penose: patrimoni prosciugati, menti alterate, dipendenza da droghe… In KarmaCola, Gita Metha raccontò, praticamente in presa diretta (la prima edizione del libro è del 1979) l’incontro fra un Oriente e un Occidente foriero più di equivoci che di verità. Ashram si chiamavano -si chiamano- quei centri di meditazione e Poona divenne allora famosa per il Rajhashdan di Rajneesh, un santone indiano che girava in Cadillac, la sua segretaria che scappò con la cassa, lui che verrà arrestato mentre era in volo per le Bahamas…
È probabile che fra l’erotismo tantrico dei templi di Khajuraho o di Kailasa, a Ellora, dove il Linga, il simbolo maschile della sessualità, si erge maestoso fra miriadi di sculture rappresentati l’unione sessuale come unione cosmica, e la loro riproduzione moderna come strada per una rinascita individuale, ci sia la stessa distanza e la stessa impossibilità a ricreare un mondo che un pagano moderno avrebbe oggi nel cercare di rivivere l’eros della classicità greco-latina. Ciò che però rendeva e rende quella prima esperienza ancora ipotizzabile e la seconda invece impensabile è che l’India rimane, agli occhi di uno spirito religioso, ma senza fede, il terreno privilegiato degli archetipi, del mito, il sacro nella sua dimensione notturna, laddove, decretata la morte di Dio e trasformata la religione in istituzione, quello che altrimenti gli resta è disperazione e/o rassegnazione.
Questa idea dell’India come giardino notturno dei grandi sogni è resa perfettamente da Dalrymle nel suo libro. Mentre da noi i secoli hanno trasformato l’opera sacra in opera d’arte, facendo sì che si guardi alla cattedrale di Reims o a San Marco in modo estetico e non religioso, qui siamo ancora a una civiltà che ha mantenuto la sua dimensione mitica e che quindi rimanda all’elemento primigenio che fu alla base della sua creazione. Questo spiega perché fabbricare idoli di bronzo possa ancora essere considerata una vocazione sacra, danzare nel ruolo di una divinità durante la stagione del Thayyam, trasformi il ballerino, che nella vita di tutti i giorni è una guardia carceraria, in oggetto di venerazione, perché esista la figura della «prostituta sacra», o del tantrista negromante, del mistico sufi o del «santo itinerante»...
Tutto ciò scrive Dalrymple, solleva naturalmente interrogativi riguardo alla sopravvivenza o alla trasformazione delle diverse vie spirituali rispetto all’attuale metamorfosi dell'India stessa. «Ho visto mondi lontani scontrasi, con l'accelerare del cambiamento, nei modi più strani. Fuori Jodhpur visitai un santuario, un luogo di pellegrinaggio, che si era formato attorno a una motocicletta Enfield Bullet. Eretto inizialmente come monumento al suo proprietario dopo che questi era morto in un incidente stradale, il santuario con la moto era diventato un luogo di culto, e attirava pellegrini da ogni angolo del Rajasthan, specialmente camionisti devoti in cerca dei miracoli di fertilità che si diceva accordasse»...
E dunque, «cosa cambia e cosa resta immutato? L’India offre ancora un qualche tipo di reale alternativa spirituale al materialismo, o è ormai soltanto un’altra satrapia in piena espansione del più vasto mondo capitalista?». Nel suo libro, Dalrymple non dà risposte e preferisce raccontare le sue «nove vite» esemplari dall’interno, dando loro voce e restituendo a esse la fragilità e la convinzione che le rendono così uniche.
Ciò che ne emerge è l’idea di un continuo mescolarsi e rinascere, un eterno ritorno diverso eppure eguale, dove il cambiamento non è un valore, il progresso non è una conquista e la storia non è il destino.