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La pericolosa psicologia dell'allevamento intensivo

di James McWilliams - 09/09/2011

   
   

Uno sguardo alla mentalità che consente agli allevatori di allevare ed uccidere migliaia di animali e di considerarsi comunque felici

Conosco un allevatore di nome Bill. Nel suo ranch nel Texas si allevano oltre 4000 capi di bestiame in una maniera che caratterizza l’agricoltura animale intensiva. Le vacche vengono numerate, non gli viene dato un nome. Gli animali non mangiano cibo, convertono il foraggio. L’obiettivo finale non potrebbe essere più ovvio: allevare gli animali il più velocemente, efficientemente e sicuramente possibile; trasformarli in bei tagli marmorizzati di carne di manzo; e durante tutto il processo, minimizzare i costi e massimizzare la produzione.

Che ne pensa Bill della sua vocazione? Ne è assolutamente entusiasta. L’allevamento intensivo gli ha permesso di vivere in campagna, un’opportunità di crescere la sua famiglia in un ambiente rurale, e gli frutta un reddito abbastanza sostanzioso da poter mandare i suoi figli a studiare in prestigiosi college. Quando recentemente ho confrontato Bill sull’eticità dell’allevamento intensivo, ha sorriso e scosso il capo, insistendo che le vacche che ingrassava e macellava non avevano più valore morale delle grate di ferro che le racchiudevano.

Bill è una persona emotivamente consapevole che dà l’impressione di un tranquillo accademico. Ha un sorriso affabile, e può essere sorpreso a leggere il New Yorker come pure Horse and Livestock. Per come la pensa lui, un allevamento intensivo è semplicemente un buon investimento, un po’ come una catena di montaggio per fabbricare le auto. Il consolidamento è una risposta logica agli incentivi economici.

Ma penso che Bill trascuri un punto cruciale. È vero, anche senza i sussidi, ci potrebbero senz’altro essere vantaggi economici ad allevare gli animali in condizioni intensive. Ma non dovremmo mai tralasciare le implicazioni psicologiche di una cosa così emotivamente intensa come il macello di animali per il cibo. E quando si arriva a questa impresa, la scala e la densità di produzione riescono a fare qualcosa di essenziale per tutti gli allevatori di allevamenti intensivi: recidono il legame emotivo tra allevatori e animali. In parole povere, permette al mio amico Bill di uccidere migliaia di animali e di rimanere una persona felice.

Per comprendere questo fenomeno bisogna ritornare al diciannovesimo secolo. Prima del 1850, quando la maggioranza dell’allevamento era su una scala relativamente bassa, gli allevatori vedevano i loro animali come animali. Ossia li vedevano come degli esseri senzienti con bisogni unici che, se non soddisfatti, avrebbero portato ad un prodotto inferiore. I manuali agricolturali del tempo indicavano di routine agli allevatori di parlare ai loro animali con toni di voce piacevoli, di assicurarsi che le loro lettiere fossero morbide e abbastanza spaziose, e di lavarli con affetto tutti i giorni. Gli allevatori non si riferivano mai ai loro animali come a degli oggetti. Erano più saggi.

Erano più saggi perché il sistema di pastoralismo misto che praticavano era definito dalla vicinanza fisica. Questa intimità garantiva che gli allevatori interagissero quotidianamente con i loro animali, sviluppando un senso emotivo delle loro personalità e capricci individuali. La scala personale dell’allevamento animale rendeva il macello – che gli allevatori tendevano a praticare loro stessi – un’occasione solenne nella migliore delle ipotesi. Nessuna persona normale, nemmeno nella più dura frontiera di insediamento, sarebbe rimasto indifferente di fronte al macello di un animale che aveva allevato per anni. Nessuno avrebbe potuto dubitare che toglieva la vita ad un essere senziente con bisogni ed esigenze.

Dopo il 1850 le cose sono cambiate. L’agricoltura americana è caduta preda dell’allevamento scientifico. Gli scienziati agricolturali, seguiti dagli allevatori, hanno incominciato a concettualizzare l’allevamento come un’iniziativa strettamente quantificabile. Iniziando con le piante, per poi proseguire con gli animali, si sono sempre meno preoccupati delle idiosincrasie individuali, preoccupandosi più delle valutazioni collettive della produttività. La catena di produzione si è ampliata e, mentre questo succedeva, gli allevatori hanno iniziato a parlare in termini di contributo nutritivo, tempi di allevamento, spazi di confinamento e di gestione delle malattie. Già intorno al 1870 gli allevatori parlavano regolarmente dei loro animali non come tali, ma letteralmente come fossero delle macchine che venivano costruite nelle industrie. “Il maiale”, spiegava un manuale di agricoltura, “è una delle macchine più preziose nell’allevamento”.

Il balsamo psicologico di questa retorica offriva un sollievo agli allevatori che portavano il fardello del macello di massa. Come all’inizio del XIX secolo gli allevatori comprendevano intuitivamente, gli animali di allevamento sono creature senzienti che hanno interessi, un senso di identità, e la capacità di presagire e sentire il dolore. È nel contesto di queste qualità – qualità che la costante interazione con gli animali rendeva impossibile ignorare – che il “beneficio” psicologico dell’allevamento intensivo diventa chiaro. La sua struttura impersonale, altamente razionalizzata è ideata per proteggere chi è coinvolto dalle conseguenze emotive dell’uccidere.

Oggi molti critici dell’agricoltura industriale insistono che dobbiamo ritornare al sistema di allevamento antecedente al 1850. Sono scettico su questo, non tanto per ragioni economiche – sì, è più conveniente allevare animali su più grande scala – ma per ragioni psicologiche. Mi chiedo se, in un’era post-darwiniana di etologia animale (lo studio delle menti animali), ne sappiamo troppo sulle emozioni e sull’intelligenza animale per guardare negli occhi a milioni di vacche – animali allevati con sincero affetto e attenzione – e macellarli. Mi chiedo in altre parole, se siamo pronti come cultura di carnivori, a fare ciò che il sistema di produzione industriale di Bill lo assolve dal fare: contemplare il peso morale dell’allevamento animale.

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Fonte: The Dangerous Psychology of Factory Farming

24.08.2011

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di MICAELA MARRI