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Dietro l’instabilità in amore c’è, ancora e sempre, il mancato «conosci te stesso»

di Francesco Lamendola - 09/09/2011





Perché le persone s’innamorano e poi i loro sentimenti cambiano bruscamente, talvolta da un giorno all’altro, spostandosi, magari, su un nuovo oggetto del desiderio, del quale sembrano non poter fare assolutamente a meno, così come, il giorno prima, pareva che non potessero fare assolutamente a meno di quell’altro?
Che cosa si nasconde dietro questa estrema instabilità sentimentale, dietro questo continuo andare a tentoni da un desiderio all’altro, da un amore all’altro, ogni volta illudendosi di aver fatto l’incontro “giusto”, ogni volta con il convincimento di aver finalmente trovato la persona di cui si andava in cerca da sempre, fin dall’inizio?
Siamo forse dei burattini impazziti, mossi dai fili invisibili di un burattinaio capriccioso e imprevedibile, che si diverte alle nostre spalle, attirandoci nella sua rete e inducendoci a svolazzare come falene intorno a una lampada, assurdamente, con autolesionistico accanimento, fino a quando non ci bruceremo le ali e cadremo morti ai suoi piedi?
Oppure tutto dipende da una mancata conoscenza di noi stessi, per cui, ignorando chi veramente siamo e ciò di cui abbiamo bisogno, ci incamminiamo per mille strade che non portano da nessuna parte e lungo le quali soffriremo senza scopo e faremo soffrire gli altri, a nostra volta, reiterando in continuazione sempre le stesse dinamiche, sempre gli stessi errori?
La spiegazione che individua la responsabilità di siffatti meccanismi in un “burattinaio pazzo” è certamente la più comoda, ma anche la più sciocca: perché, se da un lato ci “assolve” dalle nostre precise responsabilità, dall’altro ci priva della possibilità di imparare qualcosa dai nostri sbagli e ci consegna a una fatalità che è tale solo in apparenza, esponendoci a subire incessantemente le stesse delusioni e a vivere le stesse amarezze; senza parlare del male che infliggiamo a nostra volta, e sia pure senza volerlo e senza provocarlo intenzionalmente.
Molto più credibile e molto più costruttiva è l’altra ipotesi, che noi, cioè, continueremo ad andare incontro ad abbagli ed equivoci sentimentali d’ogni sorta, fino a quando resteremo ignoranti della nostra essenza e della nostra natura, fino a quando volgeremo le spalle alla nostra autentica verità interiore, per crederci quello che non siamo e per atteggiarci a quello che vorremmo essere o a quello che ci piacerebbe far credere di essere.
Il “conosci te stesso”, dunque, è fondamentale non solo per sapere da cha parte dirigerci, ma anche per relazionarci in maniera matura e costruttiva nei confronti del prossimo, evitando di proiettare su di esso le nostre aspirazioni incoerenti ed i nostri bisogni frustrati, che non potremo mai soddisfare per mezzo dell’altro, perché trovano la loro radice in un conflitto e in una ambiguità che sono dentro di noi, per cui noi soltanto possediamo la chiave per affrontarli adeguatamente e per oltrepassarli.
Che altro è, in effetti, scambiare continuamente l’altro per una sorta di ancora di salvezza, allontanandocene poi delusi e  amareggiati, se non la spia di un rapporto conflittuale con noi stessi, al quale rispondiamo non in modo propositivo e maturo, bensì cercando delle vane scorciatoie al di fuori di noi, un “deus ex machina” che venga a risolvere al posto nostro quei nodi e quelle contraddizioni che hanno sede nelle profondità della nostra anima?
Il meccanismo dell’innamoramento fugace ed instabile, della labilità dei sentimenti e della apparente incomprensibilità della pulsione erotica è stato magistralmente descritto, fra gli altri, da William Shakespeare (chiunque si celi dietro questo nome) nel suo giustamente celebre «Misummer Night’s Dream», una commedia che dietro la incantevole lievità di una favola cela la pensosità malinconica di una profonda riflessione sui meccanismi più nascosti del cuore umano (cfr. anche il nostro precedente saggio: «Malinconia e platonismo nel “Sogno di una notte di mezza estate” di Shakespeare», apparso nel sito di Arianna Editrice in data 28/0/2007).
Dalle ultime due scene del secondo atto del «Sogno di una notte di mezza estate», traduzione di Gabriele Baldini, Milano, Rizzoli, 1981, 1985, pp. 77-81):

«ELENA: Ahimè, che per tanto folle rincorrersi non m’è rimasto più fiato!! E tanto più l’impètro e tanto minore è la grazi che m’è accordata: felice è al certo Elena, ovunque ella si trovi, poiché ha gli occhi belli e maliosi. E come fecero gli occhi suoi a divenir tanto splendidi? Non certo per aver pianto salse lagrime! Perché se così fosse, i miei sarebbero stati rilavati più spesso assai che non i suoi. No, io son brutta come un oro, e le stesse fiere che m’incontrano se ne fuggono via per la paura. E quindi non c’è da meravigliarsi se Demetrio fugge la mia presenza come se io fossi un mostro. Qual specchio malvagio e dissimulatore m’indusse mai a paragonare i miei  con gli occhi astrali di Ermia? Ma chi è costui? Lisandro! E steso al suolo! È morto? o dorme soltanto. Non vedo né sangue né ferita alcuna: Lisandro, se sei vivo,  mio buon amico, svegliati!
LISANDRO [si sveglia]: Attraverserei il fuoco soltanto per amor tuo, o Elena splendente! La natura ha l’arte di far miracoli,  nel mostrarmi, così, attraverso il tuo seno,  il tuo cuore. Dov’è Demetrio?  Oh, come questa parola esprime appieno il nome vilissimo di colui che deve morire infilzato dalla mia spada1
ELENA: Non dir così, Lisandro, non dir così. Che t’importa s’egli Ama la tua Ermia? Che cosa te ne importa,, signor mio? Ermia ama pur sempre te soltanto, e tienti dunque per soddisfatto.
LISANDRO: Soddisfatto di Ermia? No davvero: io mi pento per tutti gli istanti di tedio infinito che ho dovuto spender con lei. Non è Ermia, è Elena ch’io amo: e chi non darebbe in  cambio un corvo per una colomba? I desiderii dell’uomo son governati dalla sua propria ragione, e la ragione dichiara che, tra le due, sei tu la fanciulla più degna. Nulla perviene a maturazione se non è giunto il suo tempo, e così io, ch’ero ancor troppo giovane, non avevo ancor maturato la mia facoltà di ragionare, ma poiché ho attinto alfine la capacità d’intendere, la ragione si elegge soltanto ora a guida della mia volontà, e mi conduce a rimirare i tuoi occhi, là dove io non ero stato ancor capace di riconoscere le vicende d’amore  iscritte per l’appunto nel più prezioso libro d’amore  che sia mai stato composto.
ELENA: Ma perché dovevo esser serbata anche a queste burle crudeli? Quando mai ho meritato da te che mi venisse quest’irrisione?  Non ti basta, non ti basta neppure, giovanotto, ch’io non abbia meritato né possa aver mai a meritare anche una sola tenera occhiata dallo sguardo di Demetrio?  Ed ora vieni anche tu a prenderti giuoco della mia pochezza?  È proprio vero che tu mi usi torto; è proprio vero che mi usi un gran torto, corteggiandomi così per dileggio. Addio: confesserò d’aver creduto che maggior cortesia e urbanità albergassero in te.  Ah, che una donzella rifiutata da un giovane debba poi, solo per questa ragione, ricevere offesa da un altro. [Exit]
ERMIA: Aiuto, Lisandro, aiuto! strappa con tutta la tua forza questo serpente che  mi s’avvolge in spire attorno al seno! Ahimè, che sogno pauroso non era il mio? Lisandro, guarda come tremo di paura: m’era parso che un serpente mi venisse rodendo il cuore, e che tu assistessi divertito alla sua rapina! Lisandro! come? se n’è andato? Lisandro! amico mio! che? Non mi senti?  Te ne sei andato? Non odo nulla, nemmeno una parola. Ahimè, dove sei? Parla, se mi ascolti. parla, in nome del nostro amore, ché io mi sento venir meno dalla paura. Non rispondi? e allora vuol dire  che non sei qui vicino. Ed io voglio trovar subito o te o la morte. [Exit]»

Ecco che Lisandro, sui cui occhi Puck ha versato il succo del fiore che provoca il desiderio amoroso, di colpo s’infiamma per Elena, colei che invano amava Demetrio, e dimentica, anzi rinnega con parole sprezzanti, il suo precedete amore per Ermia; fra poco Puck commetterà un secondo errore, versando il succo sugli occhi di Demetrio e, così, entrambi i giovani ateniesi arderanno d’amore per la sola Elena, che prima nessuno voleva, abbandonando completamente la povera Ermia, che, prima, era oggetto dell’amore appassionato di entrambi.
È chiaro che Shakespeare, dietro l’azione maldestra del folletto Puck, voleva rappresentare non già qualcosa di estrinseco, bensì un meccanismo intrinseco all’anima umana e, più ancora, un grande mistero: il mistero dell’innamoramento, della sua imprevedibilità, della subitaneità del suo sopraggiungere, così come del suo dileguarsi.
Ed è altrettanto chiaro come il fatto che, al termine della commedia, gli equivoci si sciolgano e ciascuno torni a impersonare il proprio ruolo, Lisandro come innamorato di Ermia ed Elena come amante ricambiata (finalmente) nella propria passione per Demetrio, non è che un espediente teatrale, tanto rassicurante sul piano scenico, quanto inattendibile sul piano dei contenuti.
Di fatto, nella realtà della vita “vera”, noi sappiamo benissimo che non sempre, anzi ben raramente, le cose ritornano “al loro posto” e che la caratteristica principale della instabilità amorosa è proprio la sua “ingiustizia”, ossia la clamorosa mancanza di qualunque ragionevole proporzione fra l’investimento sentimentale degli amanti ed il risultato conseguito, in termini di “ritorno” di quanto è stato offerto e donato senza riserve.
Se vi è una cosa pressoché certa, in questo ambito, è, infatti, che non si dà alcun rapporto di causa ed effetto tra le energie dispiegate da colui che s’innamora e la remunerazione che ne riceve; anzi è quasi una regola che colui che non ha messo in gioco nulla o quasi, riceve senza misura; mentre colui che si è messo in gioco interamente, senza risparmio, finisce per non raccogliere altro che un pugno di mosche.
Ciò non è casuale, ma risponde a una sorta di legge della vita affettiva, in base alla quale viene premiato dall’amore altrui quegli che è in grado di farne a meno, avendo maturato una completa autonomia e padronanza di se stesso; mentre è condannato ad essere eternamente bramoso e carente di amore proprio colui (o colei) che ne avverte dolorosamente la mancanza e non può rassegnarsi a vivere senza di esso.
Si tratta di un apparente paradosso, per cui chi più desidera, meno riceve e chi più è capace di vivere in pienezza la solitudine o, in ogni caso, l’autonomia rispetto ai bisogni affettivi, riceve frequentemente offerte d’amore; apparente, perché la vita “premia” colui che è forte ed espone alla privazione colui che è “debole”.
Quanto alla assoluta imprevedibilità e subitaneità dell’innamoramento e alla sua altrettanto imprevedibile e subitanea scomparsa, solo in parte le si può attribuire ai meccanismi dell’edonismo e del consumismo esasperati e al prevalere delle logiche del desiderio artificiale su quelle del bisogno reale, nonché dell’avere e dell’apparire su quelle dell’essere.
Se così fosse, allora si dovrebbe concludere che si tratta di un “male” tipicamente moderno, riconducibile alle logiche mercantilistiche e pubblicitarie; mentre sappiamo, non solo da Shakespeare, ma dalla lirica greca e latina (specialmente Catullo), per non parlare della letteratura cavalleresca medievale (Lancillotto e Ginevra, Tristano e Isotta), che, per quanto si risalga indietro nel tempo, sempre ci si imbatte in questa incomprensibilità dell’innamoramento e nella continua instabilità delle sue suggestioni.
In questo genere di cose, tutto è possibile in qualsiasi momento e anche il contrario di tutto; per cui la vera regola è la mancanza di regole.
D’altra parte, una osservazione anche superficiale ci rende edotti che non tutte le persone sono ugualmente soggette agli alti e bassi  improvvisi della passione amorosa: alcune vi sono più predisposte e con maggiore frequenza vi cadono, altre meno; anche se nessuno, o quasi, può dirsi del tutto immune e al di sopra di esse.
Crediamo, ancora una volta, che ciò sia in relazione con il grado di conoscenza di se stessi che si possiede e con l’abitudine, più o meno sviluppata, di svolgere un lavoro introspettivo: chi più sa leggere nelle pieghe della propria anima, meno è soggetto a farsi trascinare dai capricci amorosi «qual piuma al vento» (come dice il duca di Mantova nel terzo e ultimo atto del «Rigoletto» di Giuseppe Verdi, a proposito della volubile natura femminile).
L’uomo specialmente, per sua stessa natura più saldo, dovrebbe porsi con lucidità e chiarezza rispetto alla propria verità interiore, in modo da offrire alla donna, più fragile e ondeggiante, un saldo punto di riferimento, al quale ella possa appoggiarsi e nel quale possa trovare quella sicurezza cui aspira e che, da sola, raramente è in grado di raggiungere.
Del resto, quale altro significato può esservi nell’incontro fra l’uomo e la donna, se non quello di donarsi reciprocamente ciò che vi è di meglio nella natura di entrambi?
Ed è proprio per essersi allontanati da questa semplice verità, così evidente e fondamentale, che l’uomo e la donna hanno perso, entrambi, il proprio equilibrio interiore e tanto meno riescono a ritrovarlo, quanto più si allontanano l’uno dall’altra…