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La convivenza delle culture non vuol dire omologazione

di Pasquale Rotunno - 11/09/2011

   
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In un mondo dominato da flussi comunicativi su scala planetaria in tempo reale, e da movimenti migratori apparentemente inarrestabili, l’idea di una convivenza sincronica e relativamente pacifica delle culture riesce difficile da accettare. Se le tesi dell’americano Samuel Huntington prevedono uno scontro inevitabile, scritti giornalistici come quelli di Oriana Fallaci incrementano ansie e paure del cittadino medio. I dati sulla distribuzione mondiale della ricchezza suggeriscono che il presunto scontro fra le civiltà non è solo uno scontro ideale. Ha una base pratica di notevole portata. Riguarda e investe i rapporti materiali di vita tra miliardi di esseri umani che subiscono la distribuzione diseguale delle risorse tra Nord e Sud del pianeta. Negare ogni possibilità di comprensione reciproca e di convivenza pacifica rinfocola le spinte fondamentalistiche. In ciò il terrorismo cerca una sua giustificazione e una sorta di vendetta contro il mondo dell’opulenza. Nella presente condizione dell’umanità, il dialogo interculturale non è più solo un’opzione etica, variamente giustificata: è una condizione di sopravvivenza. Il dialogo interculturale, tuttavia, non è sincretismo irresponsabile, facile “embrassons-nous”.
Per dialogare davvero ogni cultura deve essere se stessa, riconoscendo che nessuno ha la verità in esclusiva. Dunque, confronto o scontro? Come risolvere le laceranti questioni pubbliche del nostro tempo? Come gestire le profonde diversità culturali e religiose presenti nelle metropoli europee e di ogni latitudine? Possiamo affermare la superiorità di una civiltà o sono tutte uguali? Che cosa significa laicità? Nel dare risposta a questi interrogativi, chi rifiuta lo scontro, come metodo di risoluzione delle controversie, è accusato di essere “relativista”. Il relativismo sarebbe anzi un pericolo per la democrazia e per l’identità culturale dell’Occidente. Alla gravità dell’accusa non corrisponde tuttavia l’uso univoco della nozione di relativismo. È quanto sostiene il filosofo della scienza Enzo Di Nuoscio nel suo ultimo libro: “Epistemologia del dialogo” (Carocci editore). Cosa s’intende esattamente con relativismo resta ambiguo, argomenta Di Nuoscio (docente all’Università del Molise). Molto spesso il termine è usato a sproposito. Basti pensare che anche la scienza è relativista. Perché non si può dimostrare in via definitiva la verità di una teoria. La verità oggettiva della scienza non va intesa come certezza assoluta; bensì come pubblica controllabilità. Questo relativismo di tipo popperiano non va confuso con il relativismo scettico di Thomas Kuhn, Paul Feyerabend e altri “nuovi filosofi della scienza”. Ancora più controverso è il “relativismo etico”. Eppure, non vi è un criterio logico-razionale per gerarchizzare la pluralità di valori, storicamente dati. Le scelte etiche “non sono fondate sulla scienza, ma sulla coscienza”.
Non per questo le opzioni morali sono tutte equivalenti, incommensurabili, indifferenti.
O addirittura irrazionali. Gli individui, infatti, hanno buone ragioni per aderire a una norma morale. Il libro muove da questi assunti, coerenti con le prospettive dell’individualismo metodologico e del razionalismo critico, per sviluppare “una difesa filosofica del confronto pacifico tra culture”, come recita il sottotitolo. L’autore polemizza contro quanti alimentano la paura della diversità. E dimostra invece quanto sia fecondo per lo sviluppo sociale il confronto razionale e critico tra idee, culture, religioni diverse. Nel dibattito intorno al rischio di “islamizzazione” dell’Occidente, persino filosofi come Marcello Pera, non sembrano distinguere tra relativismo culturale (che sfocia nell’indifferentismo) e relativismo etico (nessun valore è assoluto). Ebbene, puntualizza Di Nuoscio, “si possono raccomandare agli altri i nostri valori (e criticare quelli altrui) pur essendo convinti che essi non abbiano un fondamento incontrovertibile”. Anzi, è possibile “invitare” gli altri a fare le nostre stesse scelte, proprio perché si ritiene che esse non siano assolute e universali. Altrimenti “più che raccomandarle, dovremmo imporle”.
Nemmeno i sistemi politici hanno un fondamento assoluto. Ciò non significa che democrazia e totalitarismo siano uguali. Bensì che possono essere approvati o criticati da ogni singolo individuo sulla base dei propri valori. Acquisire questa consapevolezza è decisivo per capire le ragioni dell’altro, difendere i propri valori e provare a convincere della loro bontà coloro che non ne sono convinti. Il relativismo culturale si combatte con le armi dell’epistemologia. Quindi: “criticando la vana ricerca di un fondamento assoluto, l’irrazionalismo etico e il collettivismo culturale (che nega il valore dell’individuo)”. Non esistono civiltà o religioni superiori. Questo non implica che siano equivalenti. La mancanza di un fondamento assoluto per l’etica spinge al dialogo. Chi sceglie il dialogo ha compiuto una precisa opzione di valore: creare le condizioni affinché il dialogo possa essere utilizzato come metodo di risoluzione dei problemi.
La reciprocità è una condizione costitutiva della relazione dialogica. Inoltre, chi sceglie il dialogo va ben oltre la tolleranza.
Non si accontenta di permettere alle differenze di manifestarsi: guarda ad esse come potenziali fonti di soluzioni anche per i propri problemi. Nella scelta della discussione critica come metodo per affrontare i problemi comuni, vi è inoltre una precisa opzione politica: difendere i diritti e le libertà individuali; quindi accettare la democrazia e lo Stato di diritto. In tal modo si va oltre un piano puramente procedurale. Non si può “scegliere il dialogo nella sfera pubblica e poi disinteressarsi delle condizioni politiche e istituzionali che lo permettono”. Al riguardo, ben motivati appaiono i richiami che Di Nuoscio fa ad alcune posizioni del filosofo Guido Calogero, il quale intende la scelta dialogica come autentica “Grundnorm” degli ordinamenti democratici: “il vero dialogo, un dialogo che … non voglia limitarsi a essere soltanto ‘liberale curiosità delle idee altrui’, implica anche un sostanziale interessamento per le condizioni materiali dei dialoganti”.
Attraverso il dialogo si acquisiscono conoscenze valide per la soluzione dei problemi comuni. Ciò può avvenire solo in un contesto di laicità; cioè dove nessuna istituzione o principio è sottratto alla discussione critica. L’incertezza, dei giudizi e delle conseguenze delle nostre azioni, è una condizione antropologica da cui non si può fuoriuscire. Il dialogo trasforma questo limite in opportunità per risolvere problemi. Ha scritto il filosofo ed economista inglese John Stuart Mill: “rivelare al mondo qualcosa che lo riguarda profondamente, e che fino allora ignorava, dimostrargli che si è sbagliato su una questione essenziale di interesse temporale o spirituale, questo è il miglior servizio che un uomo possa rendere ai suoi simili”.
Nelle affollate megalopoli moderne è facile dimenticare che incontrare l’altro vuol dire incontrare il mistero. Il libro ci ricorda che il nostro comportamento è umano nella misura in cui è caratterizzato dall’indeterminazione. Nessun individuo è autosufficiente. Oggi si comunica tutto a tutti, in tempo reale. Ma si è perduta la dimensione, essenziale, della reciprocità. Si comunica, genericamente, “a”. Non si comunica più “con”.
Anzi, troppo spesso (e la tv in questo caso è davvero “cattiva maestra”), si grida soltanto. Inteso come scambio e interazione umana, il dialogo non ha molto a che vedere con l’interattività frettolosa dei media, vecchi e nuovi. Anche per questo le vie della partecipazione che vengono pubblicizzate in nome dell’interattività elettronica, trasversale ai ceti e alle classi, quindi per definizione fattori di democratizzazione, in realtà tendono a sgretolare il perno del giudizio democratico, la nozione di individuo.
Degradato da “homo sapiens”, in sé coerente e auto-posseduto, a “homo sentiens”, l’individuo rischia di non saper più né valutare razionalmente le situazioni sociali così come si presentano, né resistere alle suggestioni esterne e alle sirene della manipolazione psicologica (cfr. F. Ferrarotti, L’identità dialogica, Ets, Pisa 2007). Riscoprire le ragioni del dialogo consente di recuperare autonomia e responsabilità in uno scambio tendenzialmente paritario fra gli esseri umani.