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Il padrone

di Mario Grossi - 12/09/2011


Ci sono delle parole che, con il passare del tempo, sono state sostituite da perifrasi che tendono da un lato ad addolcirne il significato e dall’altro a rendere omaggio alla più grande bufala che il pensiero totalitario abbia mai messo in circolazione: il politically correct.

Un tempo si usava, senza mezzi termini, in modo assai diritto e lineare, la parola “padrone” per indicare il capo dell’azienda, quello che ci ha messo i soldi e che con i suoi soldi oltre alle materie prime, all’energia e ai mezzi produttivi, si è comprato pure i dipendenti.

Nell’iconografia classica e un po’ ingenua degli inizi del Novecento il padrone era rappresentato come il Capitalista. Un uomo in frac e tuba, con catena d’oro al panciotto che inguainava un girovita appesantito da una grande pancia tesa a tamburo e in procinto di scoppiare.

Qualche buontempone germanico, alcuni anni più tardi, lo disegnò con il naso adunco, la barbetta caprina, l’occhio grifagno, senza in realtà aggiungere niente al significato già esplicito della raffigurazione primigenia.

Per ammorbidire i toni, a padrone, si preferì la perifrasi “datore di lavoro” che sottolinea il fatto che da lui procede appunto il lavoro salariato, cui il dipendente è soggetto, ma deprivato di quei caratteri aggressivi che la parola padrone possiede.

Quanto ipocrita sia questa sostituzione lessicale, dopo anni di battaglie sindacali e presunti diritti acquisiti, è testimoniato in Italia dalla nuova era Marchionne e dai nuovissimi contratti di lavoro che, ben lungi dall’essere degli strumenti flessibili, sono in realtà l’affioramento e l’esplicitazione di ciò che si voleva camuffare con una semplice operazione di makeup superficiale. Il padrone sarà pure tecnicamente un datore di lavoro ma padrone era e padrone rimarrà in eterno. Certo ci saranno sempre padroni più illuminati di altri, più buoni, più disponibili. Padroni, come si enfatizzò nel passato a proposito della nascente realtà microindustriale del Nord Est, che provengono dalla stessa classe operaia e impiegatizia che lavora a salario. Ma il nocciolo della faccenda rimane.

Così è per il salariato odierno. L’operaio e/o l’impiegato che sottoscrive un contratto e riceve una retribuzione a fronte del suo lavoro e che gode di una serie di diritti che sembrano inalienabili.

È un lavoratore che ha tutte le caratteristiche dello schiavo di un tempo, anche se potremmo definire la sua posizione di semischiavitù.

È acquistato, gode di certi privilegi che la vita da libero non gli concede, come la sicurezza, a fronte della sua fedeltà alla causa, di una vita piatta senza scossoni, senza crisi, senza angosce giornaliere che un lavoro non tutelato e protetto ha. Privilegi apparenti e che possono essere revocati se il padrone decide di volersi sbarazzare di lui.

Mi si potrà obiettare che, un tempo, lo schiavo non era pagato, vitto e alloggio gli erano garantiti, il minimo di sussistenza per non vederlo deperire. Il suo padrone aveva diritto di vita e di morte su di lui, la sua esistenza era appesa a questo filo sottile che per un solo capriccio poteva venir reciso.

Il salariato odierno e sempre di più, come l’attualità ci insegna, vive una situazione analoga. Certo la sua condizione di semischiavitù concede una vita assai meno dura dello schiavo d’altri tempi ma facendo le debite differenze nella sostanza si trova similitudine. Si è attenuato il regime in cui versa non il suo significato ultimo.

Sarei, però, uno sciocco, un moralista della peggior risma, un veterocomunista, se non riconoscessi in questo rapporto biunivoco, sbilanciato quanto si vuole ma funzionante tra i due soggetti, un’ambiguità di fondo su cui si basa e che viene alimentato da entrambe le figure.

Il padrone non può essere visto solo come un carnefice che, in nome del suo profitto che fonda tutta la sua filosofia (con qualche accessorio che è più un orpello che altro, come il profondo senso sociale che attribuisce alla sua figura da se medesimo), tende a schiavizzare il dipendente, seppur con forme blande e codificate dall’equilibrio delle forze.

Il salariato, vittima consapevole di questa sudditanza, tende, in nome di una posizione che giudica di sicurezza e al riparo dalla tempesta, ad accettare, a subire più o meno passivamente, la situazione di fatto e la sposa come una cosa buona proprio perché ha paura di quello che la vita libera può destinargli.

Primo fra tutti, la fatica di procurarsi di che sopravvivere in mare aperto.

È così che si assiste a ridicoli balletti in cui il sottoposto, per blandire il suo superiore si presta a una rappresentazione teatrale che ha i tratti della commedia dell’arte.

Tende ad assumere quegli atteggiamenti che sa essere graditi al capo, ad ottundere la sua singolarità sposando i dettami dell’organizzazione, fino a vestirsi con la divisa che, pur non imposta esplicitamente, gli viene suggerita dall’ambiente.

L’esempio più banale che mi viene in mente è quella foto di Berlusconi che conduce i suoi fedelissimi: Gianni Letta, Fedele Confalonieri e Adriano Galliani, nel jogging mattutino, in non so più quale isola esotica, tutti rigorosamente in mutandoni e maglietta bianca.

Insomma si assiste a uno spettacolo che restituisce all’azienda, di cui il padrone è tiranno assoluto (talvolta illuminato), la sua vera e unica forma: quella d’istituzione totalitaria.

Tutto questo ci viene restituito, nella forma di una favola grottesca, dal romanzo di Goffredo Parise Il Padrone che la casa editrice Adelphi, con estremo senso dell’attualità ripubblica ora, dopo che l’autore l’aveva data alle stampe nel lontano 1964. Nonostante i termini si siano modernizzati, il padrone e la sua creatura: l’azienda del 1964, sono assolutamente identici alla realtà d’oggi. Anzi oggi forse è anche peggio. Un tempo il padrone era un’entità fisica, presente, meglio sarebbe dire incombente. Oggi gli anonimi azionariati diffusi, che parlano per mezzo dei consigli di amministrazione, rendono assai più rarefatta la distribuzione delle parti e aumentano considerevolmente quell’ambiguità di fondo già presente nei tempi remoti.

La storia che ci offre Parise prende spunto presumibilmente da una realtà vissuta in prima persona dall’autore che per molti anni lavorò negli uffici di grandi case editrici. Il clima e la vita dell’istituzione azienda c’è dunque riproposta dall’interno, con sfumature irreali, ma sarebbe meglio dire surreali, per bocca del protagonista, io narrante del racconto che viene proiettato nella tentacolare metropoli e nell’azienda, dalla provincia in cui è nato vissuto fino allora.

Il protagonista incontra il dottor Max, il padrone, malinconica e nevrotica figura, tesa a dare di se una rappresentazione bonaria, segnata da una filosofia buonista, tesa a dimostrare che tutto il suo operato è volto, non solo al bene dell’azienda, ma anche a quella dei suoi dipendenti. Anzi, dichiara, le due cose coincidono, visto che l’azienda è mia, così come sono miei, i dipendenti. Dichiarazione, accolta dal protagonista come vera, che dimostra, fin dall’inizio, quell’ambiguità che soggiace ai rapporti coatti tra datore di lavoro e salariato, condita da una rassegnata adesione che farà del dipendente, per tutta la sua vita, un servo sciocco e complice della macchina di cui lui rappresenta un infimo ingranaggio.

Le descrizioni hanno un sapore fumettistico, gli uffici sono occupati da strane figure, come il factotum del dottor Max che porta il nome evocativo di Lotar, che imporrà, su suggerimento del padrone, una serie d’iniezioni di ricostituente al povero protagonista che riluttante si sottoporrà all’anomala terapia proprio per non contraddire il suo padrone e la sua volontà di fargli del bene.

Il dottor Max è affiancato dalla madre Uraza che interpreta a modo suo il ruolo di benefattrice. Da un lato imporrà al giovane una sua figlioccia demente, Minnie, perché la sposi, dall’altra lotterà a fianco del figlio, l’onnipresente Dottor Max, per farlo prevalere nella lotta contro il padre, il vecchio Saturno, padrone indiscusso ma emarginato dall’età e dagli acciacchi. L’unica figura di tutto il romanzo che, nella sua brutalità padronale, non usa toni morbidi o accomodanti, ma squinterna la sua volontà di potenza e di profitto senza falsi infingimenti.

Gli altri colleghi, che si chiamano Pippo e Pluto, fanno anche loro parte di questo circo. Figure solitarie, in lotta tra loro, sempre alla ricerca di una posizione migliore all’interno dell’organizzazione, cui tutto hanno sacrificato, e che conducono delle vite squallide al di fuori delle mura dei loro uffici, alle prese con una realtà esterna fatta di malattie psicosomatiche che li condurranno alla morte e con mogli che sono controfigure opache e presenze ingombranti che li sommergono sempre di più.

Il giovane protagonista, riluttante all’inizio, sorpreso poi, lentamente si piega a questa situazione, fino alla sottomissione totale che accetta con rassegnazione ma anche con sollievo.

Nonostante un tentativo di trovarsi un’altra occupazione, verrà dissuaso dal dimettersi, proprio dal Dottor Max che gli dimostrerà che anche cambiando azienda si troverà a vivere situazioni analoghe e forse più pesanti, visto che non troverà un altro datore di lavoro così disponibile nei suoi confronti.

Alla fine, dopo essersi sposato con Minnie, la sua fidanzata demente, il giovane protagonista converrà con il padrone che non può esistere alcuna realtà al di fuori dell’azienda stessa.

L’azienda è il tutto. Un mostro totalitario che culla nel suo ventre i suoi salariati e che li tiene buoni a catene con il sopraffino ricatto della sicurezza.

Ma si domanda Parise, per bocca del protagonista, se non c’è realtà senza padroni e senza gerarchia, la sola libertà, coincide con la morte?

Domanda agghiacciante per un romanzo grottesco, sarcastico, fumettistico, che travalica nella misura i dati oggettivi ma che ripropone un’angoscia antica densa di verità.

Sono passati millenni ma la condizione di schiavitù cui siamo sottoposti perdura, in forme più blande che nel passato, con maggiori riguardi formali, ma sempre identica a se stessa nella sostanza. E che ci siano complici, io per primo ma nessuno si senta escluso, dona un bagliore luciferino alla faccenda, restituendoci integralmente quell’ambiguità che è alla base dei rapporti, non solo di lavoro, ma tra le persone tutte.

Sbaglia pertanto chi crede che, assumendo una posizione autonoma, possa liberarsi del tutto da questo vincolo che la realtà impone. Ci sarà sempre un padrone.

La sola libertà possibile coincide dunque con la morte?